mercoledì 22 giugno 2011

Prefazione alle sillogi "Credere e amare" e a "Il tempo, le cose, i sentimenti" e nota a " Cristalli di ghiaccio" di G. Manzoni Di Chiosca



Prefazione
a
Credere e amare, Il Portone Letteraria, Pisa 2007 
di
G. Manzoni di Chiosca




"E tu, che vai lontano, sei la vela,
il sogno che va oltre l’orizzonte
per perdersi per sempre all’infinito..."


La silloge Credere e amare si stende su uno spartito di versi ora endecasillabi (in prevalenza), ora di misura più breve ad accompagnare le modulazioni degli stati d’animo dell’autore. Questo importante impiego del significante metrico crea un notevole equilibrio fra moti interiori e stilemi tecnico-espressivi. Ma è il dilemma della vita, degli interrogativi esistenziali a dare corpo all’opera di Manzoni. La ricerca di una verità. La funzione della poesia diventa quella di avvicinarsi il più possibile all’inarrivabile, di cogliere l’anello mancante per svelare il mistero dell’esistere: “Che cosa c’è al di là dei miei confini / che cosa c’è nel fondo del mio cuore?”. E in Fede risalta lo sforzo supremo dell’uomo per cogliere quella luce che illumini l’anima: “Per questo mi affatico / scavando con le mani senza sosta / per cercare / ... / una pagliuzza / che splenda come l’oro”. Il perdono implorato dell’ulivo del Getzemani, la strada perduta nel deserto, l’avvizzimento dell’anima, l’amore come ancoraggio vero della vita (“Il nostro amore / è ancor più vivo, dopo il temporale”), e il sogno che va oltre l’orizzonte, oltre la vela sono i motivi dominanti, spesso supportati da un suggestivo dilatarsi metaforico, di una silloge complessa e altamente suggestiva che racconta trame di vita sotto l’occhio attento di un esperto poeta. 
      Ho già avuto occasione di fare una prefazione alla silloge Le cose, il tempo, i sentimenti di Giacomo Manzoni. E devo confessare di essere stato particolarmente coinvolto, tanto che non so fino a che punto possa essere oggettiva la mia critica, per questa mia attrazione verso il suo stile. Già ne avevo messo in luce la cifra poetica: l’aspetto panico, il memoriale, la fusione dell’essere con la natura, lo spleen e soprattutto, cosa a me cara, l’inconfondibile suo poetare in endecasillabi, spezzati a centro verso e rivisitati in chiave moderna per l’apporto di ripetuti ennjambements, alternati a misure più brevi per creare spartiti di vera armonia. In questa nuova silloge, tanti sono gli aspetti ricorrenti e come si può già dedurre dalla dedica, molteplici sono gli elementi di un panismo simbolico caro all’autore: prati rugiadosi, nebbie mattutine, stanco autunno, s’indora. L’ambiente accosta, fa da sfondo e arricchisce di pathos una lirica d’amore dedicata alla sua donna. Finché l’autore arriva a perdersi, ad annullare se stesso nei tratti e nelle esplosioni naturali in una simbiotica fusione. E c’è anche l’aspirazione di un’anima a superare il contingente, a protrarsi oltre le misure di un circuito umano, troppo umano, oltre gli spazi ristretti di un soggiorno breve e caduco, anche se vissuto intensamente, verso l’azzardo di confini illimitati o nella recrudescenza di un cuore fanciullo. Fusione fra essere, sogno, e natura in una visione panica fortemente sentita che fa di questa silloge motivo di organicità e sottofondo al dilemma esistenziale coll’aldilà e al sentimento dell’amore. Ma questa opera è più tematica, come si evince dal titolo; il poeta si confronta con due sentimenti ben precisi: il mistero della fede il primo, quasi un canzoniere d’amore l’altro. Travaglio esistenziale e nirvana edenico, riposo-alcova di un amore totalizzante; vita, sogno, e realtà. Non è forse la poesia sogno, realtà, l’avvicinarsi il più possibile all’inarrivabile? Non è forse amore e memoria, aspirazione all’infinito e male di essere?
          Marquez afferma che la vita non è quella che abbiamo vissuto, ma quella che ricordiamo. E la poesia è vita, vita in quanto realtà, e vita in quanto sogno, aspirazione, rivisitazione di ricordi che tornano a nuova vita. Nolenti o volenti è dalla realtà che partiamo, dalle nostre esperienze personali per aprire le ali al grande senso. E nel Manzoni gli ingredienti ci sono tutti. Intanto le pennellate ambientali, i tocchi di colore, il lessico paesaggistico. l’autore è un vero macchiaiolo. E nelle cornici delle sue tinte racchiude i suoi stati d’animo, ma la cornice stessa fa parte dell’opera, perché collabora simbolicamente e dà forza ai significati: i fenomeni naturali sono l’icastica dei sentimenti. Spesso, leopardianamente, all’idillio succede il pensiero, non di rado in contrasto con le nubi, o con la luce, o con l’armonia che la natura ci tratteggia; o spesso ancora in piena armonia. Ne fa esempio la poesia Luglio; mentre il mese esplode nel suo calore fino a fondere i pensieri del poeta, questi: “Ed io brancolo, cieco, abbagliato, / fra morte speranze, e non vedo / la luce che folgora in cielo.” (Luglio). “Mi afferro qua e là, senza senso / a vecchi ricordi che offrono / vana parvenza di ombra.”. (Luglio) Passo altamente metaforico, che denota uno sforzo interiore di ricerca spirituale raffigurato in uno stilema lessicale secco, asciutto: Non c’è luce nel cielo, Torrido il sole, mi asciuga l’anima, arroventa i pensieri: inquietudine esistenziale, incertezza dell’essere e dell’esistere, tanto che lo stesso memoriale si fa ombra che sfuma. 
          Arricchisce la silloge la conflittualità interiore nella ricerca del vero. La fede stessa è una conquista che però manca ancora al poeta nel suo dibattersi e affaticarsi nella ricerca: “Per questo mi affatico, / scavando con le mai, senza sosta / per cercare / dentro la terra nera, o nella sabbia / risciacquata dal mare, / o nelle zolle / rapprese e inaridite dall’arsura, /  una pagliuzza / che splenda come l’oro.”. (Fede). In Confessione il poeta si sente l’anima avvizzita come una scorza insulsa o un fiore reciso: “Non chiedo più perdono. Si è svuotato / ogni mio senso, l’anima è avvizzita / come una scorza insulsa, abbandonata. / O forse come un fiore / reciso sul suo nascere.”. (Confessione). Inquietudine, ricerca, tormento di un’anima essiccata che: “anela come cerva alla tua fonte.” (Deserto). Associare alla disperazione degli uomini la visione di una pace perduta degli ulivi, per il poeta viene spontaneo: “E dopo mille anni e mille ancora, / ancora serbi il segno di quel giorno / nella corteccia ruvida e nei rami / che nodosi si alzano nel sole, / o ulivo del Getzemani, a implorare / per noi che siamo, un ultimo perdono.” (Venerdi santo).  
          Le liriche si succedono con una fluidità, ed uno spessore verbale intimo-naturalistico da creare un effetto di grande musicalità. Il Manzoni si dimostra esperto conoscitore non solo dell’endecasillabo, ma della versificazione nel suo complesso. Sa alternare al suo verso preferito, ad esempio, liriche costruite su doppi, tripli trisillabi che con la loro cadenza rattenuta fanno da significante metrico a stati d’animo di introspezione ed estasi: “O nuvole lievi che andate tranquille / portate dal vento in vortici alati, / portate lontano i miei sogni, / sul mare infinito / a sciogliersi, piano come le nebbie / nel cielo sereno d’estate, / al raggio del sole levante, / che tutto rinnova di luce / e scalda con dolce carezza / il mio cuore per sempre fanciullo.” (...vortici di nuvole...). Sapiente accostamento fra l’andatura dei versi e le vibrazioni dell’anima. 
          Ed è proprio la tematica erotica di un breve canzoniere la parte più riposante, l’alcova di un’anima intenta a rappresentare un’isola, un mondo quasi nirvana edenico di uno spirito inquieto e turbato da interrogativi irrisolti: “Amo i tuoi occhi di ghiaccio freddi e chiari / come un limpido giorno di gennaio; / amo quando ti ergi come rocca / sulla tua rupe altera; amo il tuo cuore / che si cinge di spine, come rovo / che difende il suo frutto alle mie mani. / Ed amo le tue mani che non sanno / aprirsi per ricevere il mio dono. / ... / Apri la porta, e la tua torre austera / si riempirà di musica e di luce. / Apri la porta a un’altra primavera.” (Ti amo). Ed è ancora la natura a suggellare questo alto sentimento di amore oblativo, con le sue luci, le sue sfumature, i suoi colori: l’animo dell’autore ha bisogno di questi lampi per concretizzare il suo sentire; metamorfosi quasi dannunziana fra essere e realtà: occhi freddi e chiari come un limpido giorno di febbraio; rocca sulla tua rupe altera; cuore che si cinge di spine; incendio ai piedi un castello in cui la donna si è costretta prigioniera; sole d’autunno. E soprattutto l’iperbole dell’incendio contribuisce a rendere più visiva e concreta l’immagine poetica dell’amore. E il ricordo di Fily aleggia come spirito nel vento; tutto si svolge in un quadro bucolico di grande suggestione: lo spirito del vento, le piante antiche, lo stormire delle fronde, e un canto di dolore portato via dal vento, lontano: “Io sento la tua voce, / così soave, quando ci parlavi, / e così forte , quando con coraggio, / accettavi, con cuore grande e puro / lo strazio della vita. Io non lo so: / forse ti amavo, Fily, e ti amo ora / che sei spirito eletto, e sei con me, / nel vento, che i pensieri porta via.” (Vento). Ma nei due canti a Leila, Dopo il temporale e Andare al largo, il poeta raggiunge forse i momenti di maggiore intensità lirico-amorosa. Nella prima  il sogno dei due amanti è come un temporale che fa vibrare l’aria e trascina come un vento selvaggio. Ma poi la quiete ed il sereno. Con il solito stilema Manzoni utilizza l’idillio, la descrizione naturale per dare vivacità ad un sogno, per rendere palpabile un sentimento e fare delle parole un tessuto allegorico e suasivo: “Il nostro amore, / come vapore labile, che esala / e si diffonde, stempera i colori, / e li confonde; / il nostro amore illumina le cose, / e dà valore ai gesti d’ogni giorno, / in un’aura serena, in una luce / che non si spegne a sera, che risorge / dalle nubi più nere. / Il nostro amore / è ancora più vivo, dopo il temporale.” (Dopo il temporale). Nella seconda lirica, Andare al largo, il mare calmo, il fruscìo della risacca, il desiderio di evasione e di vivere l’amore nella sua pienezza lontano da ogni sguardo indiscreto, e dalla luce artificiale che soffoca la luna e spegne il cielo, sono motivi che denotano, come in altri canti, una necessità di fuga da un spleen esistenziale verso una pace interiore, indefinita aspirazione oltre l’orizzonte: “Andare al largo, oltre l’orizzonte: / ora che il cielo è nero, e nera è l’onda / che leggera si frange in bianche schiume, / essere luce, insieme a te sul mare.” (Andare al largo).      
Se per Hölderlin nella lirica Iperione, o l’Eremita della Grecia “Il canto” è “rifugio amichevole” affinché la sua “anima, raminga e senza radici / non smanii di oltrepassare la vita” e divenga “luogo di felicità / ... / mentre di fuori con tutto il suo ondeggiare / il tempo possente, il tempo mutevole rumoreggia lontano” per Giacomo Manzoni, forse, è un sogno affidato a una vela che ambisce all’infinito: “E tu, che vai lontano, sei la vela, / il sogno che va oltre l’orizzonte / per perdersi per sempre all’infinito...”.  


                                                                                                                                            Nazario Pardini
 Arena Metato 25 luglio 2007

Prefazione
a
Il tempo, le cose, i sentimenti, Il Portone/Letteraria, Pisa 2003.Pp. 30
G. Manzoni di Chiosca






"Nella sera,
 che già rinfresca, dopo la calura
 della lunga giornata di lavoro,
 c’è un’altra pace, nuova, più serena."

La silloge Il tempo, le cose, i sentimenti, composta di ventun poesie, si dispiega su un percorso stilistico prevalentemente endecasillabo, ma anche su costrutti di diversa misura, dove versificazione e contenuto si compenetrano, rafforzandosi vicendevolmente. Questi usi metrici, uniti all’armonia di trame lavorate in corrispondenze e punti fermi a metà verso, danno un sapore di certa impostazione classica alla forma lirico-panica dell’opera.
          Già nella poesia d’apertura Dedica l’autore offre una chiara idea di quello che è il suo tracciato poetico: Vorrei invitarti accanto a me stasera, / a correre sereni come bimbi / incontro a questa notte di magia. / Per remoti sentieri andare insieme, / ricercare il silenzio, / nel mistero del tempo che trascorre. Il senso di caducità della vita si fa motivo centrale nella silloge, dove il poetare che ricorre a immagini di una natura coinvolgente per la sua icastica paesaggistica, è anche metafora di una esistenza che in breve conosce la sera e l’incertezza delle ombre della notte. Ma la vita è anche sogno, slancio, profondità di emozioni che ti fanno sentire vivo, esistente: Se lanci allora un grido oltre al confine / dell’esistenza, una speranza nuova / che ti sprona e ti esalta, ti fa vivo. (Vivere)  E’ vita, anche, la fusione estatica dell’uomo con le bellezze dei giochi dell’eterno: guardare una rondine, un fiore sulla roccia, o le stelle nella notte: Ti senti eterno, un essere infinito / che sprofonda nel buio tra le stelle, che si immerge nel sole che risorge / dalle brume invernali a primavera (Vivere). E’ vita svincolarsi, anche per un solo istante, dalla solita esistenza di ogni giorno per volare nel cielo oltre le nubi / farti rondine e gheppio, roccia e fiore, / farti fuoco nel ventre del vulcano, [...], vetta ed abisso, naufrago e poeta / che non ha nulla, e ha tutto da donare. (Vivere) Solo così la vita non è rassegnazione, ma è veramente quello che proviamo nel cuore.
          Linguaggio diretto, anche, che ricorrendo ad accorgimenti etimo-fonici, esprime un’interiorità covata, concretizzandola in oggettivazioni fenomeniche. In Sera, poi,  questo alternarsi di novenari e senari di un certo sapore pascoliano, si combina con la plasticità dei colori e dei suoni crepuscolari: La sera è venuta in silenzio / con il primo canto di un grillo / con l’ultimo raggio di sole / che già tramontato, lontano, / accarezza di luce / un’ultima nuvola rosa, / sperduta nel cielo. (Sera) Una serie prevalente di ripetuti trisillabi permea di un certo senso di malinconia la simbiosi fra anima e natura. E anche se è bello per il poeta restare incantati a guardare le luci lontane, lasciare scorrere il tempo, vestirsi d’eterno e uscire dal mondo, prevale alla fine la nostalgia di speranze sopite, di incanti perduti, di amori lontani di ricordi e illusioni. L’illusione è come una scatola piena di sogni, una vecchia scatola , dove la nonna teneva le penne, gli occhiali, tre caramelle: E’ come una scatola vuota: / se scuoto non sento più nulla ...  / ad aprirla ho paura / che il sogno più bello / si perda nell’aria. (Illusione)
          Ed i secoli sono trascorsi in un volo, / nell’ultima notte, / rubando parvenze / ad un mondo che invecchia, /  al mio cuore che soffre / di non essere fanciullo per sempre. (Per l’ultima volta)
          Ma in Maggio ritorna felice la fusione fra essere e natura, fra momenti esistenziali, colori e profumi: i tigli, i giardini, il ligustro, il ravizzone, i pioppeti, le nevicate dei pappoli, tutto concorre ad una esplosione di freschezza e magia, di vita che si risveglia effervescente nell’anima attenta dell’autore che sembra perdersi nel tutto: Pigola la nidiata; nelle stalle / mugghiano vacche gravide: si attende / la rinnovata vita e il nuovo latte / come fiore di maggio. Dietro casa / imporpora il ciliegio le sue bacche / e l’albicocco indora i primi frutti: / è pronto già il trionfo dell’estate. (Maggio) Il persistere sull’endecasillabo e sugli enjambements che tendono a frangere l’ordine metrico, danno allo stile un senso di distensione narrativa, l’idea di una certa necessità di espansione analitico-descrittiva  di fronte all’esplosione dei fenomeni naturali.
         Comunque breve è una fioritura, fugace il profumo dolcissimo dei tigli, come il durare della vita: Io sono una fiammella tremolante / che illumina nel buio del rifugio, / e prima che la cera si consumi / basterà un soffio per portarmi via. / [...] / così è la fiamma della mia candela, / che il vento scuote e porta via con sé. (Un soffio) 
Vorrei avere... / Cuore di leccio ed anima di pino.  Dice il poeta. Cuore di leccio, che resiste al fuoco, / e pino che rinasce nella cenere / sulle arse colline.  [...] Vorrei avere / acqua fresca di fonte, per bagnare / l’elegante trifoglio, ed il ginepro / che oppone inutilmente le sue spine / alla fiamma invadente, e il terebinto [...] Ma serpeggia la fiamma tra le foglie / [...] / e la mia voce è vana: il bosco brucia (Incendio). Ogni immagine, ogni fenomeno naturale, ogni parvenza (l’incendio, la trottola, la notte che torna coi suoi gridi) si fanno rappresentazioni concrete di stati d’animo, di situazioni interiori di una coscienza esistenziale.  
          Per questo Manzoni vuole gioire del sole di un Ottobre che tanto rassomiglia  allo scorrere del tempo: Restiamo qui, tesoro, stringi in pugno / questa luce d’ottobre, questo sogno / che ancora ci è concesso di sperare. / Restiamo qui, tesoro, è primavera / se mi tieni per mano ancora un’ora. (Ottobre)
            Ed è in Autunno, la stagione più ricca e generosa, ma tanto pesante come i ricordi di una vita, che la natura pare donarsi tutta: E’ la stagione stanca del ritorno. - chiude il poeta - E’ una stagione buona. Nella sera, / arrossata dai limpidi tramonti, / più forte brucia in cuore la speranza, / come un ceppo robusto nel camino, / che scalda la penombra della stanza, / e non ci illude, come primavera (Autunno). 
              Linguaggio pulito, chiaro, arrivante quello di Giacomo Manzoni che tende a segnalare emozioni con rime interne, chiasmi, assonanze e consonanze, o col ricorso a un memoriale fortemente sentito, ma mai scadente in sfogo di eccessivo sentimentalismo: Come era grande quella casa, Leila! / Andavamo a esplorare le soffitte, / il fienile in disuso, la rimessa / con la vecchia carrozza, condannata / ai tarli ed alla muffa.../ C’era la guerra, ma eravamo felici / delle povere cose che avevamo: / le ciliegie sull’albero in giardino, / il pane fatto in casa, i grandi armadi / e le casse ammucchiate nelle stanze, / piene di cose inutili, lasciate / nell’attesa di un tempo già passato, / che non ritorna più. (Casa antica).

                                                                                                                   Nazario Pardini
11 luglio 2003                                                               


 
Nota
alla Silloge 
Cristalli di ghiaccio
di
G. Manzoni di Chiosca

Già nel prologo della silloge, Manzoni di Chiosca preannuncia quelli che saranno i motivi del suo canto: essere poeta sognando di prati più verdi, di ulivi più argentei, in un autunno che tutto addormenta cantando una mesta canzone d’amore.
La natura è la dea ispiratrice del poeta con i suoi cambiamenti di suoni, di colori, di stagioni, che tanto rassomigliano al correre della vita, ai suoi dolori, alle sue speranze.  E settembre, che ci troverà svuotati di speranze, e l’estate, quando torna il sereno dentro il cuore, e ottobre e novembre e dicembre, quando “nei prati vedremo sbocciare / il croco azzurrino. / La dolce speranza si avvera: ritorna la vita.” Il corpo della silloge è magistralmente contenuto in versi principalmente endecasillabi, e non solo, come vere cascate di musicalità. Ma è la nostalgia di un amore a chiudere l’opera del poeta, di un amore: “rimasto come un bocciolo di rosa / colto dal gelo prima di fiorire.". 


Nazario Pardini

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