mercoledì 22 giugno 2011

Prefazioni a Armando Alciato

Prefazione
a
Dentro i libri, Il Portone/Letteraria, Pisa 1999. Pp. 288 
di
Armando Alciato


Appunti per una letteratura di fine secolo:
dalla solitudine dell’uomo all’infinito dell’umano
in Armano Alciato

 
Quando mi è stato proposto di fare la prefazione a questo libro, sinceramente mi sono impressionato per la vastità dell’opera e la complessità delle tematiche. Ma una volta accintomi alla lettura, già fin dalla citazione di Blaise Pascal, mi sono introdotto nello spirito dell’autore, nella coerenza delle sue scelte, dei suoi propositi, nella passione schietta, trasparente e leale dell’uomo che ha vissuto l’anima del nostro secolo e come soldato, e come prigioniero, e come attore, ma soprattutto come scrittore e poeta. Ed è riuscito a raccontarci col supporto del vissuto o di esperienze ora impegnate, ora liriche il suo modo d’interpretare l’esistenza, sottoponendo la realtà circostante, spesso infida, a un giudizio a volte perentorio e tagliente a volte comprensivo. L’autore, testimone e interprete, quindi, della grande avventura letteraria saggistico-poetica del nostro paese e artista di indubbia qualità, non solo ha vissuto, ma ha saputo esemplificare le inquietudini e le sollecitazioni della contemporaneità in una successione concatenata di vicissitudini storico-artistiche valide a connotare le tappe fondamentali dei momenti più cruciali del centennio. Avevo già avuto il piacere di prefazionare una silloge di Armando Alciato, edita dalla medesima casa editrice, dal titolo Fuga d’attimi e di coglierne le qualità degli aspetti meditativi e poetici, quando , assalito dal dubbio dell’imperscrutabile nell’arduo confronto con i grandi della contemplazione (basti citare S. Teresa), tendeva a sottrarsi alla “voragine del nulla” dando corpo di vigorezza ad un irreale teso a farsi verità, sostanza, realtà, alcova, piacere, e in questo caso, a proposito di “Itinerari di lettura”, credo, pensiero chiaro, stabile, costante e supporto basilare della sua vita (vedi prefazione a Fuga d’attimi) . Già la citazione di Pascal, dunque, ci introduce nel suo mondo; in un libro che spazia attraverso le tematiche più vaste e i contenuti più complessi, la costante di Alciato, il suo metro di paragone e di misura è il rapporto dell’individuo con l’insieme, la sua eticità e la sua volontà commisurate a un senso d’infinito e di eterno in cui si proietta l’umano e in cui Alciato bramerebbe perdersi quasi come realizzazione Hegeliana dell’essere.  D’altronde, considerando sotto questo aspetto le letture del Nostro e naturalmente le note e le considerazioni, emerge una chiara volontà di scelta ben precisa, anche se varia, di opere e di autori ( M. Weber, D. Campana, A. Rimbaud,  I. Calvino, Proust, S. Teresa, Sant’Agostino, fino a R. Aron e a concludere, non a caso, l’ultima opera partorita recentemente dal coraggio e dalla documentazione scientifica di S. Courtois e autori vari) che in un modo o nell’altro, in positivo o in negativo,  contribuiscano a convalidare verità politiche, meditativo-religiose, sociali, filosofiche, poetiche e antropiche, nelle quali il Nostro ha indagato, con le quali ha forgiato il suo essere e la sua cultura, e verso le quali ha indirizzato la sua attenzione per consolidare il suo credo. E a proposito del saggio su Le origini del capitalismo secondo M. Weber credo che sia importante la conclusione per iniziare e proseguire un discorso di metodo: “Lo slancio creativo del capitalismo trova impulso - dato il debito peso alle tradizioni ed alle condizioni storiche ed ambientali - soprattutto nel vitalismo e nell’efficientismo di individui particolarmente dotati, più che sui supporti dello spirito religioso o sull’aiuto dello Stato. Non per nulla Schumpeter affermava che quello di Keynes era “un capitalismo  sotto la tenda ad ossigeno”, un capitalismo, cioè, vivo, ma non vitale, perché alla totale mercé di pianificatori di Stato, che quasi mai pagano di persona in caso di errore.” Arduo certamente sarebbe percorrere il tragitto attraverso ogni singola tappa di lettura. Per questo, sia per esigenze di spazio, che di coesione esegetica, porremo l’attenzione su alcuni testi determinanti. E non per niente, per passare dal genere economico a quello strettamente poetico, l’autore, nel saggio Note su Canti orfici e altri scritti di Dino Campana, dichiara di amare tra i grandi della nostra letteratura con Campana, Ungaretti e Montale: “Con lui, e con Ungaretti e Montale, che restano fra i sommi della poesia italiana, si abbandona ogni traccia di aulicità, di celebratività, di commemorazione, per riprendere un cammino che scava gravemente nell’intimo dell’individuo, ne svela i dolori, le cadute, le gioie effimere l’assenza e l’unità perduta. La poesia, se vuole essere vera ed autenticamente fedele a se stessa, non può mischiarsi con la politica, ma deve rivolgersi all’individuo irrimediabilmente immerso nella propria frammentata solitudine, visitato da profonde commozioni e piegato da altrettanto profonde angosce.” Se vogliamo, questi sono i canoni estetico poetici di Alciato: lirismo, autenticità, disimpegno e concretezza espositiva. In questi autori ritrova se stesso, i percorsi tanto angoscianti dell’esistenza, o piuttosto adatta questi poeti al suo modo di essere per propiziare quello slancio indefinito volto a soddisfare la sua realtà interiore e sempre “più fedele alla propria  solitudine e alla propria negatività” intesa come mondo alternativo che si fa realtà e motivo di vita. A conferma la lirica riportata alla pag. 34 “Entro una grotta di porcellana “ di D. Campana, dove, come afferma il Nostro, realtà e trasfigurazione lirica sono fuse in tutt’uno inscindibile. Ed io credo che il tutt’uno corrisponda proprio al momento superlativo dell’atto estetico; il supremo godimento dell’eccelso, il reale che riesce ad assurgere a valenza di creatività e di immaginazione. E Rimbaud non viene colto, forse, nell’atto di isolamento lirico, unica sua realtà, e di esclusione dal reale, al fondo del quale prende, comunque, corpo l’oltretomba e vita e morte diventano contigue? Vorrei concludere con l’ultimo saggio, ma non certo il meno importante, per delineare la personalità di Armando Alciato, quello di Courtois e autori vari dal titolo Il libro nero del comunismo. Uno degli ultimi lavori a mettere insieme, attraverso documenti storicamente esatti e precisi, i dati degli eccidi di una dittatura tenuta nascosta o giustificata fino all’impossibile da una casta di intellettuali nostrani che ha dominato il monopolio della cultura dal dopoguerra quasi fino ai nostri giorni. Franco Andreucci e Ugo Bigazzi pubblicarono agli inizi degli anni ‘90 una lettera di Togliatti scritta a Mosca nel ‘43 e diretta a Bianco in cui scriveva di non trovare “assolutamente nulla da dire se un buon numero di prigionieri italiani morirà in prigionia in conseguenza delle dure condizioni” di vita instaurate nei campi di concentramento sovietici. Per lui quegli italiani erano dei fascisti. Ma per Alciato, al solito, il saggio non acquisisce solo carattere politico, ma più che altro valore di verità etica, sociale e umana, verità che è alla base della condotta di vita morale ed estetica dell’autore stesso. “Sarebbe bene che nelle nostre scuole venissero lette alcune pagine delle raccapriccianti testimonianze raccolte da Giulio Badeschi nei due poderosi volumi Prigionia. “Questo è il guaio delle ideologie totalitarie: le dottrine cui fanno riferimento diventano dogmi assoluti, non ammettono dissidenze, i diritti dell’uomo e le relative libertà vengono conculcati e fatalmente si precipita nella repressione.” “Tracciare un parallelo tra nazismo e comunismo, in base alle vittime, non ha senso perché la Storia non si fa con la semplice aritmetica. [....] Entrambe erano ideologie repressive, segregazioniste e illiberali [....] la palma va però di gran lunga al comunismo, almeno su scala mondiale.” Lo stile e il linguaggio sono incalzanti, ora violenti ora più pacati, ma pur sempre usciti da una penna cui preme farsi capire; quindi semplici e chiari, perché il messaggio che l’autore vuole comunicare è sentito, vissuto e scaturisce da un’anima che è maturata a sue spese su quegli accadimenti per anni paradossalmente sottaciuti. Purtroppo scrittori senza pudore e ritegno ricordano e condannano   (giustamente)  degli anni ‘70 la giunta militare argentina del generale Videla, il colpo di stato di Pinochet in Cile, ma, guardacaso, si dimenticano del   contemporaneo   genocidio, commesso dai Khmer rossi in Cambogia, di ben tre milioni di vittime su settemilioni di abitanti, di quello dei sovietici in Afganistan e di quello del comunismo cinese che, secondo le dichiarazioni di Mao Zedong ,  dal 49 al 71 ha fatto  50 milioni di vittime. Denunciano la mattanza dell’esercito israeliano nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, ma si dimenticano di memorare quelle dei regimi arabi. Denunciano “un affronto alla Dichiarazione universale” ( e mi trovano d’accordo) per due attese esecuzioni capitali negli Stati Uniti, ma evitano di ricordare che proprio Amnesty denuncia la Cina come il regime che detiene questo macabro primato (il 65% delle esecuzioni capitali ogni anno.) Per concludere io credo che i temi della libertà, della pace, della democrazia, del rispetto dell’uomo e del diritto alla vita vadano trattati a 360 gradi, al di sopra di ogni convincimento politico, soprattutto da parte di scrittori e poeti che possano toccare i più vasti ambiti con i loro scritti. Anzi da certi episodi (senza delimitazioni geografico politiche) dovremmo trarre esempi  universalmente validi per rafforzare quei principi morali di certo indispensabili alla crescita di convivenze civili che lievitino su memorie storiche. Alciato lo fa: questo sicuramente è il suo credo.                            


                                                                            Nazario Pardini
Arena Metato, settembre 1999



Prefazione
a
Fuga d'attimi, Il Portone/Letteraria, Pisa 1998. Pp. 70
di
Armando Alciato


Appunti per una Letteratura di fine secolo
Armando Alciato La realtà dell’irreale

Da una prima lettura risalta subito con chiarezza la voglia impellente del Nostro di parlare di sé, di raccontarsi nella sua complessa e longeva vicissitudine esistenziale, impreziosita, si fa per dire, da ricami di drammi propri del nostro secolo che a lui portano linfa, decoro e poesia. Questa Opera è il risultato di lavori scritti negli anni 1993-97 e qui raccolti in due sottotitoli : “Fuga di attimi” (titolo esteso alla Silloge) che, più nutrito, risulta composto di 36 liriche di ispirazione più familiare ed intimistica. E “Il teatro dei luoghi e il Numinoso” di 21 liriche, che come sottolinea l’autore stesso, risulta essere il palcoscenico dei paesaggi  o, se si vuole, il panorama speculare dell’anima di Alciato riflesso nelle date  e nelle precisazioni geografiche volte a rimarcare gli attimi della sua esistenza. Lo specchio che puntuale riflette  diacronicamente i momenti del suo passare. E non possiamo soprassedere sui fatti della vita del Nostro che più rimarcatamente che in altri, costituiscono elemento essenziale per introdurci nella sua lettura. (Chiamata alle armi nel ‘40, campagna di Tunisia fino alla resa 11/5/43, prigionia sotto i francesi per 3 anni nel campo di Saida, Algeria) Il titolo generale viene ripreso da una lirica del ‘96 che fa risaltare nel suo contenuto quello che poi sarà il motivo conduttore ed il pensiero amalgamante di tutta la raccolta. “Il tempo è il metro d’insieme/della nostra certa sparizione.” La coscienza dell’attimo e al contempo dell’attimo che fu “...per S. Agostino, con la consumazione del futuro, tutto si fa passato.” Tema che naturalmente riprenderemo e approfondiremo nella nostra dissertazione cercando di supportarlo con una teoria critica. Chiara in Alciato la voglia anche di aggrapparsi a qualcosa che debba durare “....mi viene la speranza che possa resistere un filo di memoria....” “....perché il ricordo di me perduri oltre la vita......” Direi quasi una necessità quella che l’autore sente, un respiro fortemente foscoliano, quello di crearsi una dolce illusione: una  “corrispondenza di amorosi sensi”  tra il terreno e il post-terreno. D’altronde è stato è e resterà sempre uno dei motivi principali della letteratura la necessità intima di proiettarci in una dimensione che superi sia le delimitazioni geografiche che quelle temporali. In Alciato si traduce nella metafora del “volo della rondine avida di cielo” ed è il bisogno dell’indeterminato, dell’infinito, di una libertà dai contenuti non ben delineati, del superamento dei vincoli entro cui la stessa vita assume spesso il senso di “soggiorno dagli spazi ristretti” (dal titolo di un mio inedito) L’Alfieri concretizzava questo sentimento (In “La Vita”) nella visione delle distese innevate  dei paesaggi nordici, e pensare che si era riproposto di girare l’Europa alla ricerca di esemplificazioni di libertà politiche. Ma niente lo aveva appagato. Il Foscolo lo concretizzava nel suo “bagno di storia” o nella concezione di un’arte con funzione eternatrice (Omero). Il Leopardi nel tentativo di fuga da sé stesso prima nel regno dei classici, poi nella ricerca affannata e inutile della gloria (lettera al padre), e infine nel suo “dolce naufragare”. E si potrebbe continuare non trascurando certamente Montale o prima di lui i grandi della letteratura francese. D’altronde in un tentativo di stendere (cosa su cui sto lavorando) degli appunti per una letteratura di fine secolo, molti autori risultano assimilabili, pur mantenendo ognuno la propria individualità, in un contesto letterario di più ampio respiro e sotto molti aspetti originale. Parlerei proprio di corrente letteraria con la definizione di neodecadentismo,  per diverse ragioni. Dopo tutti gli “ismi” della prima metà, e almeno dal neorealismo in poi, si sono succeduti un’infinità di sperimentalismi di avanguardie che hanno poggiato la loro attenzione principalmente sulla forma, il linguaggio (Gruppo 63), Guglielmi nel volume “Avanguardie e sperimentalismi” fino a giungere al paradosso dell’ “apologia dell’illeggibile” E. Sanguineti “................. non esiste originalità ......che possa essere garantita da altro che dal linguaggio”. Ma già A. Plebe nel suo “Discorso semiserio” denunciava, sia esteticamente che sociologicamente, l’assurdità a cui andavano in contro queste esagerazioni.  Ma per ritornare a noi e al nostro Alciato possiamo ben dire che il discorso cambia non solo per lui, ma per molti altri autori che ho avuto la possibilità di leggere e quindi d’inquadrare in una panoramica ben più ampia d’incastonamento letterario di questi ultimi anni del XX. Autori che assieme ad Alciato hanno in comune molte caratteristiche sia per forma che per contenuto e che io farei rientrare in questa corrente di neodecadentismo o realismo dell’irreale. Le caratteristiche, se le vogliamo elencare, ci portano in buona parte a quelle del decadentismo francese, o da noi pascoliano senza timore di essere retrivi. Con questi lineamenti si superano certamente le ultime avanguardie, si ridà autonomia al contenuto e si tende a ricreare un giusto equilibrio tra scheletro ed anima, tra quadro e cornice, tra la compostezza e la simmetria di un orto ben tenuto e la ricchezza delle sementi disposte a germinare buoni raccolti da poter essere contenuti nell’area dell’orto stesso. Per essere più chiari si tratta di riabilitare il binomio forma-contenuto che spesso ultimamente è stato trascurato. Come lo è stato in molti momenti della letteratura ed è allora che siamo caduti nel pedantesco o nella non arte. Nei classici con l’esasperazione delle regole, nei romantici che dopo aver reagito a schemi prestabiliti e avere inventato  la libertà espressiva, vi sono caduti ruzzando con artifici quando il movimento aveva perso la sua linfa vitale (Prati e Aleardi). E potremmo venire avanti fino a noi. Ma chi è che ci può contraddire se diciamo che la nostra tendenza di fine secolo ha dei decadenti la ricerca della musicalità, del senso del mistero o dell’indefinito da contrapporre all’abbuffata del razionale e dell’ergoeconomico che ha fatto incetta in ogni campo togliendo spazi alla fantasia, al sentimento e al senso del gusto estetico. Non è forse il giuoco dei corsi e ricorsi? Non è forse la stessa reazione che determinò il positivismo per la sua spavalderia di risolvere ogni cosa con la ragione? Ed è cambiato anche il rapporto con la natura in vista di una riabilitazione dell’uomo come essere facente parte di un insieme indissolubile. Direi quasi una rinascita di una visione tostoiana della natura come madre contro lo sfruttamento che ne è stato fatto da parte dell’uomo razionale cosiddetto economico. Per non parlare poi dell’utilizzo quasi leopardiano della natura vista come serbatoio di metafore e allegorie a cui ricorrere incessantemente come mezzo di espressione simbolica sempre più ora di moda. Quindi senso del mistero, irrazioinalità da contrapporre alla razionalità, ricerca del musicale anche nella forma cosiddetta libera, linguaggio simbolico (natura parlante), slancio verso l’irreale, l’indeterminato.  La continuità è insita invece prima nella ricerca di una forma che ha ereditato tutte le esperienze di un secolo, poi nella maturazione dei contenuti (il reale dell’irreale) che porta appunto sia il nostro che molti altri  a trattare l’irreale con una convinzione tale da renderlo necessario, credibile, insostituibile, àncora di salvezzza per l’imperfetta perfezione degli uomini. I decadenti erano naufragati di fronte all’incapacità di crearsi una fede ed erano affogati nelle acque dei paradisi artificiali. D’altronde l’autore sente chiaramente , assalito dal dubbio sull’imperscrutabile, soprattutto nel confronto arduo con i grandi della contemplazione (basti citare S. Teresa) il pericolo del nulla. Da questo senso di vuoto cercherà di sottrarsi dando corpo di vigorezza a quell’irreale (memoria, sogno, poesia, speranza di varcare i limiti) che tende a farsi materia, sostanza, realtà, alcova, piacere anche. “Ma per me che mi estenuo nel dubbio/l’evasione dalla gabbia dell’io/è passaggio breve e transitorio/sfociante solo in vertigine del nulla.” “....un’emozione può riprersentarsi/nel ricordare filtrati quegli eventi/favolosi che nel passato/felicità ci hanno dato”. E Alciato sa con Epicuro che la vita è attimo fugace con tutti i suoi dubbi esistenziali, ma con questo non rinuncia alla ricerca della consistenza dell’effimero. Anche la natura dei suoi paesaggi assume questo compito indagatore quando la ragione che guasta metaforizzata nella fila delle macchine della modernità contrasta con il panorama purificatore  simbolo di un’anima che potrebbe raggiungere la felicità “..l’incontro di questo giorno/potrebbe essere senza ombre”. Ed è la memoria l’alcova della serenità, la consistenza dell’irreale, riferendosi agli amici “...ricordarli in malinconica allegria/mi aiuta a ripercorrere il passato..../e ad affrontare serenamente/il ridotto futuro che mi resta”. Momenti di alta poesia, dove il senso del contingente e dell’attimo che fugge nel nulla  sembra perdersi nella voglia di vivere la memoria nella sua funzione catartica di arte rasserenatrice. La bellezza suprema di un notturno stellato sembra avere il potere persino di farlo volare verso la percezione di una contemplazione mistica “...credere possibile la presenza/di un misterioso Creatore..” ed ancora “..ed obliate le quotidiane asperità/per breve momento fummo percorsi/dal raro brivido dell’eternità” per ricadere poi nei paurosi dubbi verso i quali è indispensabile per Alciato il ritorno alla memoria “..esiste l’anima/o anch’essa non è che illusione?” “..temo di dover ritornare al nulla/senza essere toccato/dalla  salvifica luce del divino.” E l’irreale riemerge e si concretizza come ancora di salvezza “...a salvarmi da quel cupo vento/.......fu l’insperato dono di pane e di cibarie/recatomi  da vecchi miei soldati a El Fahs imprevedibilmente ritrovati.” E ancora “........in “La luce ineffabile  del Sacro” “............fra me e lei  c’è sempre un mare/ed ancora non ho trovato la nave/che mi aiuti a colmare la distanza” Alciato conosce bene l’importanza della memoria, il rifugio indispensabile per colmare, o in parte, le incertezze, “la quiete dopo la tempesta”, la fuga dalla coscienza dell’io a volte devastante, la necessità di mantenere concreto l’inconcreto “....più del declino fisico mi spaventa/la calata del buio della mente/.......se questo dovesse essere il mio destino/preferirei sparire prima.” Ciò che basta è “mamma........../mi basta però sinché avrò vita/portarti nel cuore e nella mente.” per Alciato la consistenza  della memoria e la speranza della sua durata oltre....... E ancora a conferma”.....il breve incanto della felicità/è solo immaginario parto d’astrazione/E non trova spazio nella realtà” e noi aggiungiamo, per l’autore, nella speranza di una concretizzazione  dell’irreale. In Alciato e  nei nostri poeti di fine secolo c’è la volontà post industriale di riabilitare l’uomo ed i suoi valori a livello prammatico e a livello teorico, l’invenzione di una  irrealtà che diviene realtà vissuta e esteticamente credibile e valida per la quale vale la pena vivere la vita in tutta la sua intensità. Alciato vive cosciente  e angosciato “su rovine fra colli di valori infranti” riprova di quello che dicevamo sulla crisi della ragione e tutto ciò che comporta “tragica incertezza del domani”. Ma poi raggiunge “un barlume di salvezza”  “un’insperata voglia di azione” Ed è senz’altro quella voglia  di superare il particolare, il contingente verso quegli spazi di ampiezza che diventano la realtà dell’irreale. Ed i ricordi stessi nella poesia della memoria costituiscono un mondo a sé, non sono attimi morti, sono fisicamente presenti come una irrealtà reale e nuova, perché sedimentata  e rivissuta, in cui l’autore rigenera se stesso “.........se mi venisse  meno il fuoco vitale dei ricordi mi sentirei come un vecchio tronco privo di rami e di radici”  Linguaggio pulito, moderno, chiaro, preciso, lessicalmente puntuale adatto e adattabile quello di Alciato. E come abbiamo già detto anche trattandosi di forma l’autore si inquadra in un contesto di simbiosi tra scheletro ed anima. I grandi contenuti esistenziali, umani, semplici e più complessi (l’esistenza, la morte, la vita, la vecchiaia, la memoria, la gioia, l’effimero, il tempo, la tristezza, gli attimi. Emblematico il titolo, ogni attimo è una vita di per sé e quante  vite se ne vanno in questa fuga di attimi. Cosa resta? Il ricordo dell’attimo. Un crogiolo di inconsistenze che divengono consistenza reale, realtà necessaria, altare della vita.) sembrano confluire nella necessità del possibile. Mai si scade in sentimentalismi beceri, la forma moderna e non soggetta a sottostare a schemi vincolanti né a simmetrie metriche precise, riesce con la sua pacatezza equilibrata ad arginare e a contenere i grandi temi senza orpelli o insistenze retoriche. E quello che prevale alla fine  è sempre la voglia di perpetrare se stesso al di là della brevità e della contingenza. Prima realtà cruda, ora memoria esteticamente bella, meritata nella sofferenza e già arte nel ricordo, poi la realtà della perpetrazione di sé stesso nelle forze giovani. Oltre il tempo “eppoi mi piacerebbe durare in voi dopoché vi avrò lasciate.” Alciato sembra sapere foscolianamente che la poesia ha questa grande possibilità di vivere in eterno.


                                                                           Nazario Pardini
Arena Metato, marzo 1998

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