mercoledì 22 giugno 2011

Prefazione per "Stelle di vetro" e "Foglie di vento" di Mercedes Chiti

Prefazione
a
Stelle di vetro, Edizioni ETS, Pisa 2004. Pp. 32 
di 
Mercedes Chiti




"Certe volte è bello illudersi. / Sognare piccole cose...
colori raggiungibili. E il risveglio / non è amaro...
perché lo sai / che hai soltanto una stella di vetro
fra le tue mani."




La silloge di ventiquattro poesie trae il titolo dall’ultima composizione, che rimarca e in Stelle di vetro e nell’espressione metaforica della piccola candela in un giorno di vento, quel senso eracliteo dell’esistere che permea di sé l’intera opera garantendone compattezza e organicità. «Nelle ore immobili / cercai ali di uccelli variopinti, / tavolozze di colori nei fiori, / cercai anelli di gelida luce / nelle stelle lontane». A me piace esordire con questa citazione testuale allo scopo di segnalare gli aspetti della linearità stilistico letteraria di Mercedes Chiti, della continuità ispirativa che impronta di sé tutte il percorso poetico. Una ricerca rigorosa e intimamente sorvegliata alla luce di una sensibilità raffinata e profonda. Ricerca nei colori, nella luce, nelle cose (ore immobili, uccelli variopinti, tavolozze di colori, anelli di luce, stelle lontane) in cui poter concretizzare sentimenti, sensazioni, percezioni che hanno covato nell’intimo dell’autrice, rendendosi immagini, anche trasfigurate e dilatate per effetto del tempo. Un’aspirazione a sottrarsi alla caducità della vita e delle cose, direi, ad elevarsi al di sopra del contingente, a respirare aria nuova, sapida di spazi e d’infinito. «Mi hanno detto: non toccare mai / le ali di una farfalla. / La loro polvere iridescente / potrebbe restare nelle tue mani. / Inutile ornamento... / Lei non volerebbe mai più» (Poesia).
        E il memoriale assume un significativo ruolo nella plaquette, i ricordi si fanno sostanza di una vita che l’autrice ripercorre nella sua complessità esistenziale con musicalità e liricità poetiche. Quasi verrebbe da dire con Marquez: la vita non è quella che abbiamo vissuto, ma quella che ricordiamo. «Sotto l’arco di pietra, nell’estate, / ci sedevamo, assorti, a contemplare / il niente ch’era intorno, le rovine. / Ma l’arco custodiva un cielo azzurro, / un lembo di enigmatico sereno / e il cespuglio di rose, macilento, / sopravviveva tra le pietre spoglie» (1947).  Ma l’autrice si risveglia spesso dal fascino del memoriale, da questo percorso catartico fuori dal tempo, e si ritrova imprigionata nelle cose che implacabilmente si dileguano. È d’obbligo allora porsi quesiti esistenziali, sentirsi avvolti da un senso di finitezza che tutto rende precario: «O forse, come il popolo dei vinti / non saprò mai / perché mi trovo qui /  con le mie solitudini / .../ mentre scorrono gli anni / e si dileguano / leggeri come bruscoli di neve» (Bruscoli di neve). E la speranza è nel sogno; è là la speranza di cogliere un messaggio e afferrare quel senso della vita (l’anello mancante direbbe il poeta) che sfugge all’autrice. Ma le orme impresse sulla sabbia scivolano silenziose verso il nulla come impossibili miraggi.
           «Ti chiamo, e la mia voce / si allunga come un’eco trasparente / sopra i prati fioriti e mi ritorna / con il suono struggente del tuo nome / senza alcuna risposta» (Miraggi). Il Tempus fugit e implacabile passa indifferente fra fragori e silenzi.
          Sembra che l’alcova dell’autrice sia la memoria, il ricordo dei giorni felici che torna con intensità, compiegandovi l’anima, quasi a rivivere al di fuori di ogni misura temporale; ma subito è la coscienza del passato a riportare il pensiero della caducità, del senso del finito, un sentimento di abbandono: «Un giorno / è passato un secolo o era solo ieri? / Chiami accorata tua madre / e intorno a te c’è solo silenzio» (Tempus fugit).
          C’è anche in Mercedes Chiti un fresco sapore di ambiti naturali, un profondo coinvolgimento panico che alimenta lessicalmente, tecnicamente e liricamente il corpo della silloge. Le case antiche, i vicoli arcuati, il sapore del pane, i tralci sui tetti caldi dell’estate, i grappoli, i cipressi, il rumore dell’azzurro che si frange nel vento sono tanti momenti di un dire allegorico di un’anima alla ricerca di sé nei giochi dei colori e dei suoni, delle ombre e delle luci: «Tende l’orecchio il borgo secolare / al rumore lontano dell’azzurro / che si frange nel vento, / e gli ulivi che scendono compatti / i gradini terrosi / verso il mare del tempo, / odorano di sole» (Toscana). L’autrice riesce a compiere una simbiosi panica, una vera metamorfosi dannunziana in mondi di pace, di silenzio fra viti ed ulivi, su dolci colline a provare stupore per il colore di un fiore, o per il lampo di una farfalla: «Udire gli alberi mormorare le loro canzoni / fatte di verde, di lame di sole, / sedersi su un masso e sentire / che non sei più carne, ma zolla di terra / pampini ed erba, fiori selvatici / che sei la campagna e l’acqua fresca / del ruscello che scorre tra i rovi» (Terra di Toscana). Ed è la bellezza della natura, l’esplodere del giorno, il vibrare dei colori ad indicare la strada per una quiete interiore. «Fu il quieto mormorare della pioggia / a rinfrescare l’anima / a insegnarmi / dove non c’è paura né dolore. / Fu il colore del sole / a far sbocciare un fiore di corallo / fra quelle croci antiche, / solitarie, / annerite dal tempo» (Croci Antiche).
          Certe volte è bello illudersi, sognare piccole cose, colori raggiungibili. Così «Il risveglio non è amaro» dice l’autrice, «Non ti fa male al cuore, / perché lo sai / che hai soltanto una stella di vetro / fra le tue mani, / che hai acceso una piccola candela / in un giorno di vento» (Stelle di vetro).
            La silloge si snoda su un percorso esistenziale fortemente soggettivo e oggettivo al contempo. Dato che le vibrazioni interiori si trasmettono con facilità e immediatezza al lettore per un poetare scorrevole e comunicativo, dove in gran parte predomina l’armonia dell’endecasillabo alternato comunque all’uso di una versificazione ora breve ora più larga che, impreziosita da ripetuti enjambements, accompagna le variazioni delle intime occasioni.       


                                                                                                                                                              Nazario Pardini


20 luglio 2004






Prefazione
a
Foglie di vento, Edizioni ETS, Pisa 2005. Pp. 32 
di
Mercedes Chiti

                     Un sorriso, una lacrima,
                     serenità,
                     malinconia,
                     sole, pioggia, una foglia 
                     di vento............
                     Passi leggeri..........
                     L’ignoto.
                     E’ la vita.
“Senso eracliteo dell’esistere che permea di sé l’intera opera garantendone compattezza e organicità” già avevo scritto, parlando in altra occasione di Mercedes Chiti, che, di nuovo tra i vincitori del Premio Letterario il Portone, dopo un anno dall’uscita di Stelle di vetro, torna a pubblicare nella stessa collana questa nuova raccolta dal titolo Foglie di vento.  E proprio nella mia prefazione a Stelle di vetro avevo già rilevato quelle che sono le varie tecniche e le orchestrazioni della poetica dell’autrice: panismo, giochi di equivalenze fra sentimento e natura, intensità emotiva del memoriale, spleen, senso di caducità della vicissitudine umana, ricerca di un mondo onirico, di quiete, di nirvana edenico a riposare l’anima: “Coltri bianche si stendono / sopra il mio corpo. E mentre / torno a sognare, vedo / le gocce iridescenti di rugiada / che l’alba mi regala.” “Ho ascoltato l’antico mormorare / del vento, i suoi saggi consigli, / per arrivare, come un fiume stanco, / fino al mare”.  Voglia dell’oltre, di quella immensità che ci trascini oltre i confini umani: “Serenità nel cuore, / nei miei gesti assonnati, / ho il potere stanotte / di rubare una barca di turchese / ed errabondo marinaio / vagare negli Oceani del cielo”. E continua anche in questa raccolta l’agilità, la delicatezza, la vibratilità di un cuore volto a dissetare la sua voglia di amore intenso e puro: “Si disseta il mio cuore / a una fonte rupestre / e, quando la sua linfa / mi bagna, azzurra, l’anima / sento che tu mi sei vicino, amore, / al di là dei miei sogni, / al di là dell’oblio, / del sale amaro delle nostre lacrime, / al di là degli effimeri confini / di questa vita”.  Ed ancora: “Avrò l’illusione del tepore / delle tue mani / quando le mie saranno di gelo, / sentirò forse il battito del tuo cuore / quando, incredulo, ti chinerai su di me / chiamandomi per nome”. Attraverso aspetti d’inequivoca continuità nella ricerca stilistico-letteraria, l’autrice conferma il suo stilema, garantendone autenticità. Già il titolo ci introduce nel cuore della sua poetica e, con accostamenti figurativi di icastica paesaggistica, ci offre pennellate di sapore impressionistico, fatte di tocchi fugaci, che ben delineano il senso del tempo, la fragilità dell’esistere nei suoi cardini essenziali, soggettivamente modulati e sentiti. Il filo conduttore dell’opera è proprio in questa profonda simbiosi fra anima e natura. Ed è proprio attraverso le configurazioni della realtà che la poetessa vuole ritrattare il suo esistere. Tutto si fa simbologia, ed il linguaggio assume una valenza di marcato timbro metaforico, dove Immensi deserti bruciati dal sole accostano antiche pavane danzate dai morti. Foglie di vento ora verdi, ora pallide, ora svolazzanti, ora giù a terra quasi a voler restare attaccate a quelle radici che le partorirono: è tanto simile alla vita il dipanarsi della natura, ed è tanto simile all’Ignoto una foglia di vento: “L’Ignoto. / E’ la vita”, un soffio di vento, che però sa anche accarezzarci nella sua fugacità, sa lasciare profumi e rievocare con essi momenti indelebili, sapidi d’eterno. C’è anche in queste pagine una intensa partecipazione di amore ablativo nell’invocazione all’Eterno perché col suo potere redima il male del mondo: “Nella Tua infinita bontà / fa che ogni stella / si stacchi dal Tuo velo / e scenda sulla Terra / ad annullare, con la Sua luce, / la tenebra dei mali del mondo”. 
         Ma è proprio nella poesia Bosco d’autunno che si raggiunge forse il più alto grado di simbiosi fra lirismo e tecnica espressiva. L’importante uso del significante metrico nell’ultima strofa denota un’esperta fusione fra padronanza metrica e sensibilità cromatica: la successione di doppi e tripli trisillabi sembra voler fissare una pittura cromaticamente eterea in un quadro di estetica immortalità: fiammeggiante pennello, ambra, granati, folgorante corallo, fragile Autunno, bruma silente. Sa tanto di vita che passa, di pantarei  questo insieme che l’autrice ci dà della stagione: “la Natura ha dischiuso / il suo scrigno prezioso / profumato di fragile Autunno.” E la natura sembra sortire nella stagione mortale l’ultimo sforzo sublime di fiorita bellezza: “ Una tenue pioggia di perle / dal cupo colore del cielo, / infila con fitte carezze, / con canti armoniosi / gli steli ingialliti dei boschi.”
         Ma l’autrice è cosciente della finitezza delle cose: “Fra poco, infiniti sentieri / screziati di mille colori, / avranno il grigiore indistinto / di bruma sottile / e i superbi silenzi ovattati / di soffice, candida neve”, anche se nel suo Addio  tenta di distaccarsi dal senso di caducità per protendersi con un acuto d’amore “là, dove le lacrime sono diamanti, / dove l’eco della tua voce / è pioggia d’argento, / dove il ricordo dei tuoi occhi / è un verde sentiero…….. / ……..Dove l’Addio è polvere di stelle”, o tenta di protendersi oltre l’umano, in un futuro Silenzio: “tra vecchie tombe erose dalla pioggia, / dal gelo, da infinite solitudini,” dove “forse ricercherò l’Eternità / sola, con le mie colpe”. 
         E un sentimento di malinconico bilancio esistenziale dà forza lirica alla strofa finale della poesia Nel silenzio, un senso di malinconia per tutto ciò che la vita alla fine ha lasciato di insoluto: “Piangerò per i sogni che hanno dato / colore alla mia vita, / per le assurde chimere, / per le mie ossa divenute inutili, / per la mia carne, divenuta terra.”
         C’è anche in Mercedes Chiti una rivisitazione di forte intensità emotiva del memoriale. Le ricordanze,  accompagnate da una giusta vena di nostalgia, ritornano, con tutta la loro forza irrompente, a farsi vive per dire che esistono; e in simbiosi con un costante sentimento di precarietà traducono le immagini in un lirismo di autentica spontaneità, e musicalità suasive: “Ricordi? Allora mi affacciavo / alla finestra, / quasi dimenticavo / la giovane, innocente nudità, / per gustare il sapore dell’Aurora / ed il profumo dei cespugli in fiore / sulla mia pelle…… / …/ Ricordi? C’era un tempo in cui ridevo / per un nonnulla, / il tempo delle rose / dai petali carnosi; / della pienezza calda della vita”. “Sono dolci i ricordi / come vasi di miele / in cui immergere le dita”. Ed è sempre la natura a dare vigoria al ricordo, a rivestirlo di colori e profumi con le sue icastiche configurazioni. Così il sapore dell’Aurora, il profumo dei cespugli, la cascata viola del glicine, gli ombrelli bianchi dei ciliegi, il chioccolare allegro  della fontana si fanno simboli di un’anima alla ricerca di se stessa, motivo di essere e di esistere, patrimonio a cui ci aggrappiamo e che alimentiamo per sottrarlo all’erosione dell’oblio. Ma il ricordo può essere anche rinnovamento di dolore, retour di scottature con cui la memoria alimenta l’anima, anche se il tempo, lenitivo, trasforma l’accaduto in immagine, traducendo le lacerazioni passate in sentimenti e visioni da tenere in vita, uniche spoglie viventi di persone care: “Angelo mio / lo so che sei vicino, /  che cerchi ancora, dopo tanto tempo, / gli schiocchi dei miei baci, le carezze, / forse le ninnananne……. / … / Tendo ancora le mani per cercarti / e le ritrovo colme / di polvere dorata……. / E’ questo il tuo regalo, mio tesoro”.
         Si nota nell’opera un’evidente predilezione per la misura endecasillaba, che fluisce con tutta la sua armonia in cascate di immagini per la contrapposizione a soste di misure più brevi quali settenari, o addirittura trisillabi: “E  la bassa marea / che scopriva i segreti degli scogli, / improvvisa mi colse, / qualche stella smarrita nella sabbia, / qualche riccio pungente fra le rocce / e concave conchiglie / come scrigni fantastici / di minuscole Fate”. “La brezza delicata che spirava / dal mare / aveva mani fresche di fanciulla, …”.  Comunque notevole è la varietà dell’impiego versificatorio che alterna ad una poesia moderna orchestrata su versi liberi di breve tiratura, uno stile di sapore classicheggiante fatto di versi più ampi, più distesi, metricamente controllati e sapientemente nutriti di metafore, enjambements, e invenzioni lessicali.
 
Arena Metato 4/08/005                                    Nazario Pardini









1 commento:

  1. Mi piacciono nelle prefazioni di Pardini le chiusure con riferimenti, a volte, a poeti più o meno conosciuti, o con guizzi intuitivi che le rendono personali. E poi introdurle così come fa lui con dei versi scelti con molta sensibilità e contestualizzazione è un'altra caratteristica dal risultato efficace.

    Armando Alciato

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