venerdì 1 luglio 2011

Prefazione a "L'amore è spina lieve" di G. Sbrana



Prefazione
a
 L'amore è spina lieve, Il Portone/Letteraria, Pisa 2002. Pp.48
di G. Sbrana
- Per me l’essenza dell’arte è la Forma,[...] e non manifestazione di una generalità distinta da lei, ma la Forma in cui l’idea è già passata, ed a cui l’individuo si è innalzato: qui è la vera unità organica dell’arte - (F. De Sanctis)


Una silloge di trentuno liriche che si snodano su un percorso caratterizzato da una profonda incidenza erotico-sentimentale, che slarga però la sua intenzione su altre prospettive di vita e di speranza, per cui non è azzardato definirla un canzoniere d'amore vero e proprio, ma nemmeno un’opera di più ampio respiro. Versi liberi che denotano musicalità e maestria nel tessere il costrutto in tutte le sue ondulazioni di inversioni e aumentazioni con alternanze di metri più brevi e più ampi ad accostare i vari momenti delle rivelazioni interiori; ma versi stridenti, anche, che a volte frangono l’ordine metrico per evidenziare effetti di malinconia o di dolore, mai scadenti comunque in toni languidi o lamentosi di struggimento. "Ardori serpeggiano / nel ronzio incerto del giorno. / Lontana è la voce del cuore / e un vento di solitudine / affastella segrete emozioni [...] Possente frinire di cicale / canta l'estate / sui rami ombrosi dell'olmo; la tua presenza è amara favola / a riscaldare immagini sbiadite / ora che incerti i simulacri / stanno nelle nostre mani". (Un addio).

Mi piace iniziare da questa citazione testuale, perché mi offre anche la possibilità di mettere a fuoco il ruolo di uno dei nostri più grandi estetologi, il cui pensiero, oltre la selva degli sperimentalismi del secolo successivo, sarebbe riuscito a mantenersi vivo e attuale. E dico del De Sanctis (1817-1883), secondo cui vera opera d'arte è quella nella quale il contenuto, fondendosi con la Forma, vi si sia "dimenticato o perduto". Combattendo i residui della pedanteria retorica delle poetiche antecedenti si convinse (e mi convince) che la contemporaneità dell'arte stesse tutta nell'idea di questa fusione tra Forma e spirito. Arte come Forma, per evitare che il termine Forma venisse inteso nel vecchio significato retorico.

                               Ed è giusto dal dettato spontaneo, esperto, sensibile, vario e significante  di questa silloge che fuoriesce tutta l'anima della poesia d’amore e di amor vitae dell'autore. Ed è forse proprio nella poesia di cui sopra che si raggiunge il più alto grado di intensità lirica. Percorsa da una memoria soffusa, è tenero bisbiglio più che declamazione stentorea. Qui il serpeggiare degli odori del senario iniziale sembra rafforzare, col ricorso alla maggiore ampiezza del verso successivo, l'idea di incertezza che ronza nell'aria; e il ripetersi  dei doppi trisillabi nel terzo verso fa risaltare la sincronia di certi stati d'animo a martellare sul fondo dell'anima, mentre la sensazione di amarezza dei due quinari di ordine dattilico dell'undicesimo verso si trasforma, con l’endecasillabo seguente, quasi in una cascata di immagini sbiadite. E' dovuto quindi all'effetto di un uso sapiente del significante metrico, che versi e contenuto si compenetrano. E l'amore? E' tutto nella molteplicità  di sensazioni di "L'amore è spina lieve" la cui forma non è mai astrusa o ragionata, non mai calcolata o accomodata, ma bruire leggero che accompagna il placido scorrere di un ruscello verso la foce. "e questo - non sapere- lenisce / ogni pena ed ogni affanno. / Come vivido ruscello corre / e dolcemente porta le sue acque al fiume, / così, improvviso, il pensiero rifiorisce / e, d'innocenza puro, forte mi spinge / a ricercar di te la fonte primigenia [...]. L'amore è spina lieve che trafigge / e sempre più felicemente penetra la carne". E la lirica con una serie di tre versi in diminuzione metrica "...un ampio caldo gesto della mano / nel giorno che si appresta / al suo declino" dopo l'endecasillabo e il settenario si chiude in un secco quinario il cui costrutto mette bene in risalto questo senso di metaforico declino che primeggia. Ma l’amore è nelle parole di cristallo con cui scegliemmo il nostro domani (Il nostro domani), è nei sospiri che serpeggiano negli spalancati silenzi (Luna è falce inquieta), e in te che ancora mi offri una certezza (Sul fremito dell’alba); ma è anche nella palpabile analogia tra l’abbandono e un verde morto d’erba di (Già sulle labbra).  E ancora varietà metrica e spiritualità a fondersi in un insieme sinergetico da far trasparire sensazioni e sentimenti concretizzatisi in afflati ora meditati "e io ti vedo / nel giorno morente / a pensare sul fico spinoso dell'India..." (Vecchio uomo del sud), ora distesi "alto tenendo nella mano / un vento caldo di tenerezza" (Nel mio cielo di tramonto), ora anche laconici e asciutti “nel mio cielo di tramonto / è segno muto / il verde di un germoglio” tanta è la voglia dell’autore di dirsi, confessarsi, nelle illusioni e delusioni di un intenso esistenzialismo intenso e struggente. E l’anima si fa forma ora di speranza  d’intensità ora di melanconia pacatezza, come può fare uno spartito fiancheggiando le scene che accompagna.

                         E se nella poetica di Montale (citarlo è un po' d’obbligo per rammentare il male di vivere del secolo passato) nasce da una lucida disperazione esistenziale di un paesaggio desolato da West land eliotiana, simboleggiato nel “rivo strozzato” “nella foglia accartocciata” o “nel cavallo stramazzato” per cui la poesia stessa non ha orizzonti “qualche storta sillaba e secca come un ramo”, in Sbrana, uomo capace di vaste maturazioni, l’approdo, ammesso che di approdi si possa parlare nella vita, non è negativo, soprattutto pensando a certi versi che fanno presagire vicissitudini artistiche e umane successive alla raccolta: “Sotto cieli che la voce dei padri hanno udito / ha possente comando il sangue / che in noi stagione nuova vive” (In disattento tempo), “La luna è falce inquieta / che unisce e ci trafigge: / con l’ansia dell’amante / attendo che il suo argento / mi rida dentro gli occhi” (La luna è falce inquieta), “Per te che ancora / mi offri una certezza, / sul fremito dell’alba / il mio pensiero vive” (Sul fremito dell’alba).

                         E sono le immagini fattesi simbolo a parlare per l’autore, che, oltre all’apporto della struttura metrica in aiuto al contenuto, ricorre, e non di rado, con altrettanti significanti accorgimenti metaforici, alle visioni, alle cose che assumono valore di corpi a rivestire gli stati d’animo. La letteratura (e più ancora la poesia) ha bisogno del paesaggio per parlare e con esso il poeta riesce ad animare o a rivelare le inquietudini delle aspirazioni mancate, la quietezza dei ritorni spirituali, il dubbio delle rotte, e l’icastica  di parole forgiate per la tessitura di una intensità umanamente mai compiuta. E nella silloge tanti sono i riferimenti che non hanno fine a se stessi, ma che nel loro intersecarsi costituiscono il senso non-senso del fatto di esistere: spina lieve, vivido ruscello, le nebbie, il fiume, bianca vela, argini, corolle, fatui falò, giallo miele, Vangeli, Proverbi, dardo, il fico spinoso.

                   C’è, anche, in Sbrana un profondo amore per la natura, una netta fusione con essa, un sentimento di grande spessore panico; non poche volte l’inquietudine, la meraviglia e il ricordo cercano rifugio in parvenze naturalistiche, in apparizioni fenomeniche speculari al suo sentire “Con impeto e coraggio / strappo alla terra / il suo verde vivo / e al sole rubo / il più caldo raggio / per rivestire l’anima / di una corazza eterna...” (recuperare dimensioni); “La mite mia innocenza, ben lo sai, / è simile alla notte che già prelude il giorno;” (Chiave di violino); “Ora ho soltanto il freddo / colore della luna / a trafiggermi il pensiero...” (Un amore). Ci aggredisce e ci sorprende la notevole  padronanza  stilistico-linguistica a scoprire, quasi sempre, il filo lirico di una malinconia esistenziale.

                       Tante potrebbero essere le annotazioni sulle particolarità stilistiche impiegate nel corso dell’opera: dall’anastrofe, alla metafora, all’analogia, ai ripetuti enjambement (obiettivo “frangimento” dell’ordine versificatorio), alle similitudini, alla rima, pur rara: coraggio, raggio; alle assonanze: caldo, mano; grido, declino; preda, gemma; disattento tempo; unisce, trafigge; brame, strade; accorgimenti comunque né meditati né pensati, ma scaturiti da una musicalità formale insita nella vena di notevole spontaneità poetica, caratteristica di queste pagine. E il linguaggio, pur personale, si fa sempre oggettivo e fin dalle prime battute canta con un registro sintonizzato a tutte le sue occasioni esistenziali a volte anche amare.  Ma l’autore, forse, coscientemente o incoscientemente, non è detto che non viva il tanto tribolato amore con un afflato di tale spiritualità da anticipare una futura illuminazione: “Iddio è bianca vela / che solca e guida la memoria”.  (La luna è falce inquieta)                                           

                                                                                                                                       Nazario Pardini                   

 
Maggio 2002

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