giovedì 19 aprile 2012

Tre poesie edite di Umberto Vicaretti


Uccello migratore perso al vento



La notte distilla silenzi e attese,

a guado, inquiete, tornano memorie.

Sul quadrante dell’orologio a muro

lente salpano le ore verso l’alba,

naufraghe al sogno di cobalto e luce.



Qui, tra pareti assorte e stupefatte,

come il ragno immemore e tenace

anch’io fallaci reti tendo ai sogni

e aspetto. 

                  Disdicono le farfalle

gli abbracci che promisero ai rosai,  

e inesorabilmente il tempo sfalda

certezze e accordi, calici corrompe.

Il giorno sarà sangue e lunghi artigli,

luce decomposta, disarmonia

che lacera presepi e redenzioni.



Ahi! fiumi, messaggeri della Terra,

dov’è ora l’Eden, e perché scolora

l’azzurro delle vostre vene in minio?

Bruciano le città del mondo e alti

crepitano fuochi e ampolle d’odio.



Già s’invera il presagio della notte

ed io ritrovo intatta la mia pena,

uccello migratore perso al vento,

straniero ai cieli ed alle rotte amiche.

Invano cerco approdi oltre le nebbie

e ignoti e incerti séguito orizzonti.



Confusamente stretto alla mia resa,

smarriti viaggiatori insieme andiamo.

E non sappiamo,

         non sappiamo dove.

 


 

 


Tenacemente avvinto al girasole                           



                       

Fu il torchio a dare al nettare misura


e il gusto dolceamaro


dei giorni consumati. 


Ecco perché

scordai quasi del tutto le conchiglie,

i papaveri l’erba il novilunio,

ma non potei scordare la partenza

per lontane stazioni di mio padre

(per gioco non rispose al mio saluto),

né il ritorno dai campi di mia madre,

stremata di fatica e di coraggio.



Lo so che pure il petalo (e perfino

l’oro del grano) ha vuoti di memoria;

ma Isacco non potrà dimenticare

il suo martirio, che non fu promessa

di supplizio, ma il Dio lungamente

indifferente alla sua pena.

                                             Ed io,

ostaggio consegnato al nuovo giorno,

anch’io, tradito, sconto la mia croce,

tenacemente avvinto al girasole,

e invano aspetto il polline nel vento

che insemini i miei grani d’utopia.



Già incombe un’altra notte,

con le rotte insensate della luna

e stelle intente all’ultima impostura.

Domani corpi accatastati e inerti

intralceranno il solito week-end.



Ci chiama l’alba a recitare un altro

assurdo e insano gioco delle parti.






La strategia del ragno




E’ ormai memoria l’isola del giorno

che rapido declina.

Già insidiano il crepuscolo

i semi dell’assenza.

Atteso ad altri transiti, rivedo

il me bambino e voi,

segreti Lari, trepidi custodi,

ombre tenaci a presidiare il Tempo,

struggenti meridiane dell’attesa.

- Madre, non ho saputo dare fiori

alle tue mani esauste,

né luci alle tue lunghe notti inquiete.

Ancora mi addolorano i tuoi occhi

- stremate stelle al cielo delle veglie -

per quel ragazzo arreso alle chimere.



Ora calvari salgo

e anelo immeritate redenzioni.

Trasmuto piano in ali di falena.

La strategia del ragno

non premia la tenacia della tela,

ma il volo smemorato di farfalla.

Così la notte e le sue perse rotte,

che sghembo il frullo aspettano

di esausti uccelli migratori, in viaggio

verso una nuova Terra.



Generoso è il vento

       - soffio d’Eterno? -

che in pegno non ci chiede

altro che la promessa del ritorno,

quando la pietra sarà un grido e noi

pane raffermo alle radici e all’erba.

                        

 


























1 commento:

  1. La poesia di Umberto Vicaretti è tutta nella parola, nel verbo, nel sintagma, nel saper combinare l'elemento lessicale ad uno spartito complesso e armonicamente sinfonico, quale uno stacco pucciniano. Nelle sue poesie il signficante metrico accompagna simmetricamente la pluralità delle scansioni interiori. E il dire e il sentire combaciano. Si sa che nell'arte la difficoltà prima consiste nel tradurre il tutto in questo equilibrio. E la sua parola è audace, è rotonda, è dilatata, è accorciata, è inventata in una continua scalata verso l'azzardo dei confini. D'altronde il suo stesso classicismo, la sua stessa memoria della grande tradizione letteraria non è mai cosa pedissequa, ma è re/invenzione, rivisitazione, rinnovamento di sostanze poetiche che in nuce nell'anima si fanno vera arte con la cospirazione dei giochi lessico-fonici. Sa diventare anche nostalgia quel bagaglio umanistico accumulatosi nei giorni della primavera. Ma non mai lamentatio melliflua decadente nell'accezione negativa del termine. C'è la costruzione meditata e nutrita di accorgimenti stilistici vibranti e figurati, visivi, disposti e disponibili a rendere agile, accattivante, musicalmente affabulante il messaggio poetico. E tale costruzione controlla, anche, che l'esondazione non straripi dagli argini di contenimento. Ed è qui quell'equilibrio desanctissiano, l'unica regola della poetica a cui non possiamo sottrarci - se di regole si può parlare nella poesia - a dare forza e credibilità all'arte di Vicaretti. E se il Nostro afferma: "Invano cerco approdi oltre le nebbie / e ignoti e incerti séguito orizzonti"
    è perché lui sa e sente che il destino degli uomini è quello di azzardare sguardi oltre i limiti, soffrire degli spazi ristretti di un soggiorno, per una vita umana, troppo umana. E d'altronde è qui il terriccio fertile della sua poesia. Terriccio tanto ricco di humus da custodire semi destinati a messi verdeggianti e durature.
    Direbbe il poeta:" E' tutta nella memoria e nella coscienza di esistere, nel mistero e nel sogno, nelle fughe e nei ritorni questa avventura infinita che è la vita." E la realtà stessa, nella sua eccessiva portata, è smussata, adattata, dal poeta, ad un mondo di immagini che la sanno declinare in poesia.

    Nazario Pardini

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