venerdì 6 luglio 2012

Nazario Pardini da "Radici", G. Laterza, Bari


Da "Radici", Edizioni Giuseppe Laterza, Bari 2000


Nazario Pardini. Radici. Giuseppe Laterza. Bari. 2000. Pp. 64.


Vista delle cave da Arena Metato


Era l’estate                                               

Era l’estate. A serpe la sentivo        
crepitare sul piano e sulle foglie                     
riarse di calura. Penzolavano                          
sopra il solco sonore allo svolare                  
delle siepi dell’ali. Mi accostai
ai suoi folti capelli profumati
di tasso e di verbena. Biancheggiavano      
le spighe al secco fiato del maestrale
asciutto dalle stoppie. Che fulgore                               
e potenza. Incedeva e poi sensuale
seduceva qual donna che si abbronza
seminuda sul mare. Oltre indagai.
Si pose sopra l’argine irridente
l’astro verticale come se
niente potesse sulle infiorescenze
cromatiche di mammole, di bocche
di lupo, di denti di leone,
di campanule perla di vilucchio.
Straboccavano i garriti alle golene                 
sul maturare delle pigne brune
alle balze di creta ed il crescione                     
m’invitava piccante a inumidire                      
la fronte alla chiaria. Le attastai
l’odorosa carnagione e mi donò
vermiglie lune al gusto di sapore
succulento e gentile. Ho ancora zeppo
alle papille il succo della pesca
e il giallo saporito del melone.
Mi salutò sommerso il millefoglio
dall’acqua sonnolenta ed esalò
sgradevole l’arancio di fusaggine
tra l’inodore fulvo del giaggiolo
dalle foglie prolunghe. Per la mano,
ora turgida e calda, ora dai tigli
ventilata, ora dai salci, la presi
e a piedi nudi insieme tra le dune
movemmo verso il mare.  
Lasciava il suo sospiro sulla battima
che tremolante le lambiva l’anima
ansimante dal viaggio,  mentre i flutti
argentavano rotti la sua voce
nei becchi delle sule e degli aironi.

Non ebbi più la forza di aspettare
che la sera venisse ad indorarla
con veste voluttuosa, ed io mi immersi
nel caldo fresco del suo salso ventre.





Nevicata                                             

Raro un silenzio colmo mi si stilla
dattorno;
o meglio uno sciamìo,
che incrina il pettirosso coi suoi frulli
o gonfia l’alitare che dispiove         
sul sentiero scomparso. Tutt’al più
un crepitìo sfuggente che si adagia
indolente e leggero. E tutto è vano.
Mi appare solamente
quel candore sul mondo defilato
che lascia il posto a incanti. Pare pece,
a confronto, il ramoscello ch’è riuscito
a evadere il mantello e ancor di più
arrossato si stacca dalla trina
il racemo del sorbo. Nel mio orto
un merlo sfiduciato dalla vista
insolita ed ostile, ha ricamato
di zampatelle il soffice lenzuolo.
A un po’ di mica resta e non s’invola
né si distanzia. Obliqua un po’ la testa,
poi tra i piedi
cattura assatanato le mie briciole
che sembrano di miele. E vibra e scarta,
poi molleggia e vola al fico. Mi è svanito
il lembo di terra che stringe la casa:
il muretto, la vite,  l’orticello
col verde scarno che saziò il dicembre.          
Ed io pavidamente ora disciolgo     
nel lento sciamare dal senso di stasi                     
il conto del mio essere.





L’erbale silenzio                                               

L’erbale silenzio di vie che serpeggiano
oblique tra i campi spinciona dall’anima
immagini antiche: figure di creta,
tarsie naturali scolpite su erme
da dita di sole e di pioggia.
Gazzarre di passeri
e svoli di rondini
(radevano gemme nell’ora di giugno che verzica l’aria)
rincorrono estati dai grani maturi,
dai giorni fruscianti di falci assolate.
La guazza di sera crepava l’arsura;
cappelli di paglia, canzoni d’amore;
le voci di donna mischiavano note ai gorgheggi di cince.
Ritorna il tuo canto se prendo la strada
che esplode le ferole. E se mi trattengo
ancora più dolce il profumo di spigo dell’abito rosa;
ancora due pietre di nera ametista  
i tuoi occhi di pece a svariare le stelle.
Non c’è  qui da me
più stagione che effonda parvenze diverse;
si fa questo giugno d’erbale silenzio un’estrema romanza
di brighe di marzo,
di estivi sapori,
di spoglie autunnali,
di schizzi nivali.





Alla foce                                                                                                        

Sui cromatici oleandri, il cui respiro
si amalgamò con gli orizzonti ellenici,      
vibrano ciuffi fervidi tra siepi
di barbagli di cielo e sopra agli aghi
lisciati dai salmastri le cicale
inviano il frinire al tremolio
del nascosto sentiero. Giù dai tronchi
grondò il sangue del bosco e irrorò denso
voglie di ninfe e odori giovanili
di gentili percorsi. Più lontano
si affollano i colori sopra i cigli
gonfi di luci: arrossisce il papavero;
giallo il narciso freme a fianco al candido
pane del biacco, ed acuto all’olfatto
dolce sentor di mammole perviene
ed alla vista il gracile pallore
delle primule schive. Tra le rive
il Serchio ristagnava sonnolento
e sotto i salci
fletteva i bianchi grani del sambuco
e gli invadenti rami dell’acacia.
Sempre piccante addensa la presenza
del crescione e del farfaro che primo
roseò la primavera. E in basso i giunchi
alle lame fangose si rovesciano
coi tepali color verde rossiccio
sui parasassi che (quasi farfalle
vibranti nella notte) ora formicolano
numerosi sui chiari. Se frusciava
tra l’assenzio, l’amarella e il millefoglio
lo strisciante colubro, scendevamo
a cogliere radici della rustica
saponaria sul fosso ove immetteva
magre  acque nel corso. Dagli antichi
ci venivano gli usi - mi dicevi -
di detergere i panni. Ancora agosto
affolla sulla riva tife achene
e lunghe e scarne code cavalline.
Sopra di me qui volano ad incudine
i cormorani (buoni pescatori
per le genti orientali). Si posavano
coll’ali semiaperte, guance bianche,
nerastri ai nostri sguardi che curiosi
attendevano i tuffi. Qui maestoso
ancora l’airone batte le ali
lente e profonde all’aria del maestrale
tra il Serchio e la pineta. Nel tramonto           
stagliavano giganti l’arco immenso
che ingollò l’acqua dolce del mio fiume.





Nessun commento:

Posta un commento