domenica 4 novembre 2012

Vittorio Sartarelli: La bicicletta (racconto)


La bicicletta da corsa

 

Il V Ginnasio iniziò sotto i migliori auspici, avevo superato un periodo difficile della mia vita giovanile, ora bisognava mettere a frutto le esperienze accumulate ed impegnare tutte le energie migliori, sotto lo stimolo della maggiore maturità acquisita. Ero stato sempre un cultore convinto dello sport in genere, anche per educazione familiare, mio padre era stato uno sportivo vero e si era dedicato a diverse discipline, anche agonistiche.
            Ero appassionato, in modo particolare al ciclismo, sin da piccolo avevo avuto regalata una bicicletta ad ogni evoluzione fisica del mio organismo e questa mia passione era sempre stata seguita e secondata da mio padre. Eravamo agli inizi degli anni ’50, il periodo d’oro del nostro ciclismo agonistico, durante il quale due mostri sacri della bicicletta, che tutto il mondo c’invidiava, dettavano la ferrea legge del più forte sulle strade d’Italia e di Francia: Coppi e Bartali. Non credo che l’Italia abbia più avuto dei campioni così.
            Mi piaceva andare in bicicletta e, di questo sport, mi appassionava soprattutto il contatto continuo e quasi osmotico con la natura circostante, era esaltante per me, lo sforzo agonistico per primeggiare sugli altri che con me condividevano questa passione, e lo sforzo fisico che spesso diventava sofferenza, era al tempo stesso, soffrire e gioire, per poi sentirmi gratificato, da ogni piccolo successo personale.
            Con il mio piccolo sogno nel cassetto e con la prepotente voglia di andare in bicicletta, avevo espresso, accoratamente, a mio padre il desiderio di possedere una bicicletta da corsa. Quella che avevo, infatti, era piuttosto mal ridotta e non corrispondeva più alle mie nuove e mutate esigenze. Egli, tacitamente, aveva acconsentito, io sapevo, però, che la condizione necessaria e sufficiente per essere accontentato, era il raggiungimento della promozione.
            E venne il tempo degli esami che furono da me aggrediti, quasi con furore, avevo fretta di liberarmi di questo fardello, il loro esito dentro di me, era quasi scontato, non potevo fallire l’obbiettivo, non era la solita sfida con me stesso, era qualcosa in più, perché racchiudeva in sé il raggiungimento di una méta agognata. Superati brillantemente gli esami, mio padre, visibilmente soddisfatto per il risultato da me conseguito, mi accompagnò nell’unico negozio della città che, allora, vendeva biciclette da corsa ed acquistò per me, una fiammante “Legnano”.
            Quella bici, a quell’epoca, era il massimo che si poteva desiderare, con il nuovissimo cambio “campagnolo”, l’ultima evoluzione della tecnica ciclistica, con il suo tradizionale colore verde oliva, con i profili dorati e le cromature sfavillanti, a guardarla era un sogno, per me, divenuto realtà. Era la bicicletta con la quale correva Gino Bartali, allora una leggenda vivente del ciclismo mondiale, per il suo modo di correre, per le imprese sportive che regalava al ciclismo italiano e per il dualismo competitivo che lo opponeva, costantemente, all’altro grande campione di allora: Fausto Coppi, che correva con una bicicletta “Bianchi”. Quante volte, durante l’inverno, passando davanti la vetrina di quel negozio, mi ero fermato e avevo guardato e riguardato, in una sorta di contemplazione estatica, con desiderio e ammirazione, quel piccolo gioiello della tecnica che era, anche, un modello recentissimo, per l’epoca, di pura estetica ciclistica. Ora, quell’attrezzo sportivo meraviglioso, tanto anelato, era mio.
            Avevo un compagno di scuola, del quale ero anche il migliore amico, che con me condivideva la passione per la bici. Appena vista la mia, se ne innamorò e, in breve tempo, riuscì a farsene comprare da suo padre, una identica. Quell’anno si unì a noi un terzo giovane, romano, figlio di genitori siciliani trapiantati nella Capitale, per motivi di lavoro. Questo giovane, ogni anno, veniva a passare le vacanze nella mia città, in casa dei nonni, nostro coetaneo ed appassionato di ciclismo. Il padre gli aveva regalato una bicicletta da corsa “Bianchi”.
            Si costituì, così, tra noi il più affiatato e completo terzetto ciclistico della nostra città, in realtà, a quell’epoca c’erano pochi giovani che disponevano di una bicicletta da corsa così prestigiosa come la nostra e chi la possedeva, era un corridore professionista. La definizione di affiatato terzetto ciclistico, corrispondeva esattamente ai comuni interessi, alla comune sviscerata passione per il ciclismo che avevamo e, infine, era completo perché, sia insieme, sia singolarmente, poteva esprimere le migliori doti atletiche di un corridore ciclistico. Il mio amico e compagno di scuola era un ottimo passista, io ero un interessante scalatore ed il nostro amico romano era un perfetto cronoman.
            I percorsi stradali che sceglievamo per le nostre “uscite” erano tutte comprese nel circondario provinciale della  città di Trapani, tuttavia, spesso e volentieri era privilegiata la scalata al vicino Monte Erice ai cui piedi, appunto, sorgeva la nostra città, vuoi per la bellezza dei luoghi, vuoi per la natura circostante, irripetibile e quasi incontaminata, vuoi per la difficoltà tecnica del percorso. La bicicletta, in fondo, al di là di quello che può essere il suo utilizzo a fini sportivi ed agonistici, è un perfetto strumento ecologico per tutti, piccoli e grandi, possono usufruire di questo attrezzo per attraversare parchi, giardini, passeggiate lungomare, godendo del contatto con  un ambiente esterno salubre e bello da vedere.
            L’uomo ha bisogno del contatto con la natura, nella quale s’identifica come espressione suprema di essa, la vita stessa di tutti noi non avrebbe futuro senza la natura che ci circonda, in tutte le sue manifestazioni. Gli animali, le piante e l’aria che respiriamo sono linfa vitale per la nostra salute e la sopravvivenza, nostra e dei nostri figli. Oggi, purtroppo, viviamo nelle città troppo caotiche ed inquinate dalle auto e dagli scarichi industriali, è necessario quindi accostarsi quanto più è possibile alla natura, cercando di ritornare alle origini dell’uomo che in essa ha trovato la culla della sua vita.
            Per ritornare alla nostra bicicletta, con questo meraviglioso attrezzo sportivo, affrontavo spesso, in compagnia dei miei amici, la scalata al Monte Erice. Allora, eravamo all’inizio degli anni ’50, le due strade che consentivano l’accesso alla Vetta, erano ancora con il fondo sterrato, non avendo ancora mai conosciuto l’asfalto. E si andava su a fatica, lungo i tornanti che s’inerpicano sulle pendici del monte, per noi che amavamo lo sport, sapevano di Stelvio e di Izoard e ci davano l’illusione di ripetere le imprese dei nostri campioni. Ogni volta era uno sforzo immane, un sudore ed una sofferenza notevoli, ma il raggiungimento della Vetta, ci ripagava ampiamente.
            Quell’atmosfera di pace bucolica, il silenzio, l’aria serena, tersa, profumata dalla resina dei pini, si sposava con il nostro desiderio di riposare, dopo un’estenuante fatica che, tuttavia, per la passione sportiva che ci animava, era goduta come un piacere dell’anima. Sotto di noi, fin dove poteva spaziare il nostro occhio, si poteva ammirare il paesaggio da favola che, ogni volta, si offre con una spontaneità ed un’immediatezza unica ai visitatori che giungono in quel luogo mitico.
            Fra mare e cielo, Erice ci veniva incontro con il profumo delle sue secolari pinete, con la magia delle sue viuzze nitide e silenziose, con l’affascinante bellezza dei suoi cortiletti fioriti e addormentati. Sospinta dal vento, giunge a volte dal mare una nebbia che avvolge la vetta e, alternativamente, s’infittisce o dirada, suscitando con le sue sfumature i fantasmi di un passato antico ed eterno.
            Alla fine, se avessimo avuto un’età più adulta e la volontà di farlo, avremmo potuto scegliere d’intraprendere la carriera sportiva ed agonistica, ma, a quindici anni, ci accontentavamo semplicemente di divertirci, in fondo, in quelle piccole sfide tra noi, non era molto importante chi vinceva, bastava che avessimo potuto esprimere la passione che ci animava e ci spingeva a fruire di uno sport nel quale ci identificavamo e che consideravamo un valore aggiunto alle opportunità che la vita ci offriva. 

                                                                       
Vittorio Sartarelli

 

 

 

           

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