giovedì 9 gennaio 2014

CLAUDIO FIORENTINI: "CAPTALOONA" ROMANZO, e POESIE

SE NE CONSIGLIA LA LETTURA

A cavallo tra il 20X- e il 20X+, la città di Captaloona, sarà teatro di eventi epocali e, tra giallo e fantascienza, il romanzo li narra dipanandosi in un clima sospeso e surreale (ma per questo ancora più reale), esplorando la città, che diventa meta di stralunati personaggi dai quali muoverà una sorta di progetto rivoluzionario. Ed ecco che un fattorino malato di call-center adiction, una operatrice di call center che ha paura degli specchi ma che possiede una voce meravigliosa e un architetto celebre che ha una storia segreta e per questo sarà vittima di un rapimento, partono per questa città, dove trovano i più estremi orrori dello sviluppo edilizio e mediatico. Lì incontreranno una sessuologa frustrata e la sua assistente (una transessuale bellissima), e poi un boss spietato appassionato di videogiochi, un assessore corrotto, un rapitore filosofo e la sua mammina (una vecchietta che nessuno infinocchierà mai) ed altri personaggi tanto onirici quanto veridici, che potrebbero esistere nei sogni, nella realtà, nel presente e nel futuro… Tutti insieme, in questo assurdo percorso, disegneranno i destini della città.
Captlaoona riuscirà a trasformarsi nel migliore dei mondi possibili?
Scritto con linguaggio agile ed ironico, Captaloona esplora le bassezze umane e gli eroismi quotidiani di cui capita di essere ignari protagonisti. Il romanzo è un'avvincente divagazione tra utopia
e realtà e si legge come una profezia e un thriller, catturando l'attenzione del lettore fino all’inaspettato finale.


CAPTALOONA
di Claudio Fiorentini
Kairós Edizioni - Via Nilo, 28 - 80134 Napoli
www.edizionikairos.it
COLLANA SHERAZADE - PREZZO € 14,00



RECENSIONI



CAPTALOONA
di Antonio Spagnuolo


Il titolo del romanzo di Claudio Fiorentini, “Captaloona” (Kairòs Edizioni) non va inteso solo nella sua funzione meramente paratestuale, di semplice curiosa introduzione alla lettura ma come agente polisemico indicatore di sensi nell’itinerario composito delle pagine: un indicativo che replica liricamente e criticamente il meccanismo di imbrigliamento alla lettura, una operazione di scardinamento e confusione gioiosa per cogliere scaglie di quotidianità, tutta in rimandi ed improvvise sortite. Una scrittura densa, particolarmente ricercata per quella sua scelta di fraseggi ed approfondimenti che fanno della pagina una operazione oserei dire apertamente culturale. L’ambientazione è volutamente distanziata, nella seduzione di avvicendamenti all’ombra di una incredibile quanto irraggiungibile città scovata nell’affanno di un  viaggiatore dagli ambigui rapporti. L’espressione rivela una sensibilità moderna molto accattivante e la lettura risveglia con premuraimmagini e trascendenze quasi colloquiali. Non mancano con frequenza asserzioni di carattere filosofico , o di lucida interpretazione del sub conscio, quasi un invito ad astenersi dalle attività positive dello spirito, in cui c’è la fonte di ogni nostro dolore umano, ed educarsi attraverso un esercizio di semplificazione ad un ideale di saggezza che coincida con la sospensione. L’errore quindi non consiste nella sensazione che riceviamo, ma nelle illusioni che accarezziamo, nella ricerca di una immediatezza della levità. 
Il racconto si apre con una pagina introduttiva, precisa nel suo carattere di romanzo poliziesco. Si inizia con la morte di Marc Mullett , sparato a bruciapelo da un tal Sebastiano e ci si introduce nella variegata e variopinta storia di una città caotica e suggestiva insieme- In quarta di copertina ci avvertono che ritroveremo il clima sospeso di un tempo fantastico, e la città di Captaloona è meta di stralunati personaggi dai quali sortirà una sorta di progettorivoluzionario. Un fattorino timidissimo, malato di call-center addiction, una operatrice di call center con la paura degli specchi e una voce meravigliosa, un architetto celebre che ha una storia segreta ed è vittima di un rapimento, una sessuologa frustrata con le vicende della sua assistente, una transessuale bellissima, un boss spietato appassionato di videogiochi. Ci troveremo fra numerosi personaggi , tutti delineati con arguzia e competenza.  Un assessore corrotto, un rapitore filosofo e la sua mammina, una vecchietta che nessuno infinocchierà mai … Captaloona riuscirà a trasformarsi nel migliore dei mondi possibili? 
L’autore sfida la quotidianità che incombe nei personaggi, in un percorso di aspettazione, di affabulazione, di loquacità , inseguendo i recessi degli animi nella dilatazione del reale e nella forte accensione delle emozioni più delicate. Le riappropriazioni delle varie identità, nel rispecchiamento dell’altro, non sfugge al controllo cosciente e va oltreil magico incantamento delle figure, in un crescente auto superamento, senza mai trasfigurare la scena. La trasparenza sembra essere il disvelamento di ogni mistero nel raffinato linguaggio dell’io narrante, ora disincantato ed evocativo, ora testimone involontario della storia e del destino. In alcuni tempi si vive in un alone di presenze – assenze ingigantite dai vapori delle inquietanti visioni confuse nell’ala dell’amore. O si alternano incertezze da affrontare timidamente, da scontrare verso immagini di malaffare, o si inseguono personaggi sorpresi nel tripudio improvviso dell’impazienza. Il pettegolezzo gioca, in alcune pagine , a rimpiattino con l’omosessuale di turno , spiazzando ogni accenno alla sua passata signorilità e confermando le maldicenze che lo avrebbero marchiato per sempre. Una forza sconosciuta sfugge al controllo del personaggio chiave e rivela la necessità di completarsi nel mistero nel quale vorrebbe immedesimarsi. Così circolarità ed infinito, quotidianità eirrealtà, giocano un ruolo centrale nell’alchimia trasversale della parola, come problematica ricerca dell’essersi e del non esserci, del mondo interno e del mondo esterno, della introiezione e della proiezione, qualcosa che è sempre in continuo divenire, per realizzarsi nel racconto policromatico. Insomma Captaloona appare improvvisamente una città di merda, ma esisteva, resisteva e ispirava gli amministratori che la prendevano come modello e volevano imitarne le glorie, che tra alterne fortune, vengono messe in luce nelle pagine del libro. “Ma doveva esserci dell’altro per decidere sul da farsi e costruire un futuro che si sarebbe dipanato tutto intero, se solo ora, in un attimo di intima libertà, avessero consentito di dipanarsi”.  Così avviene anche che Cornelio e Galatea giochino in una indagine che si rivela più grande di loro. L’intuizione rimane sempre il filtro interiore che da vita alla creatività , e sembra intuitiva l’essenzialità della parola , la transività delsegno, o l’assoluto della connotazione che sposta l’orizzonte di attesa al di là della storia narrata. La folgorazione non rimane inappagata e trasforma la ricezione in un percorso che coglie la realtà tra il pensiero emozionale e la seduzione del significante. Ecco che trasalimenti e visionarietà sono delle vibrazioni che attraversano il vissuto dei personaggi , stabilendo gli spazi magici della scrittura. Seguiamo con ansia l’architetto, che non ha riconosciuto la sua cittadina, ormai invasa dal cemento e dall’incuria, e lo troviamo ammanettato ad un  letto, sebbene comodissimo e profumato, comunque giaciglio coatto di un uomo che si scopriva sempre più estraneo alla sua città natale, ed ostaggio momentaneo di un uomo incappucciato. La struttura del racconto, in brevi capitoli attraverso i quali l’io narrante resta collegato ai vari personaggi solo dall’identità dell’ambientazione nel microcosmo del villaggio e non dallo sviluppo della vicenda narrata, la presenza di una vera epropria trama da lieve giallo, costituisce una ottima scelta stilistica del Fiorentini, che richiama ad una narrazione corale, una coerente polifonia nella voce dei vari attori che invadono prepotentemente la sua scrittura, e nei luoghi ove compaiono i controcanti della vicenda. E la vicenda non solo si dipana su paralleli diversi ma anche, come la contemporaneità insegna, su generazioni e stati sociali diversi: sono individui che  si alternano continuamente e che danno movimento in tutta l’attualità di essere non solo uomini e donne, ma ancora elementi che affondano nel controllo del quotidiano. C’è un tentativo di mantenere – quasi in forma di compromesso – le immagini al riparo dall’erosione temporale; senza tuttavia farla scomparire nella dimensione non temporale, e perciò sempre un poco astratta. Non è una scrittura incline a rinnegare la sua provenienza “metafisica”, a farsi custodia di ricordi o improvvisazioni, per non tradire le distillazioni del «senso», perciò nonesitano a, per dir così, frantumare se stesse. In gioco c’è una finzione, fatta di metafore e astrazioni, che modifica con eleganza e ottima cultura le proporzioni e le aspettative, e che rimescola i dati sensoriali con impreviste fratture percettive. i segni rinunciano insomma a farsi verità al posto delle immagini, rifiutano di sostituirsi all’immediatezza della visione creando una dimensione altra:  per cui la vita progredisce non  per cancellare, ma per costruire fantasmi. Una scrittura che non si frantuma ed è una scrittura che ricalca  una realtà «immaginaria» nei suoi tratti spesso sconnessi o incoerenti, frantumati appunto. 
Come ogni thriller che si rispetti, l’epilogo mette in chiaro diligentemente tutte risoluzioni dei vari personaggi presentato nel lungo testo. Dai progetti dell’architetto ai crimini di un tal Collirio, dalla scomparsa di Sebastiano, ad Apollonia e Gregoria, dall’amore trovato di Gaetano ai due giovani Cornelio e Galatea, dalle imputazioniinflitte al defunto Marc, al colonnello in pensione costretto a chiudere il suo call center.

                                         Antonio Spagnuolo

5 dicembre 2013



CAPTALOONA
di Maria Rizzi

Le parole appartengono a tutti finché non riesci a dimostrare di essere in grado di appropriartene. E i romanzi, certi romanzi, sono come la vita: non finiscono mai del tutto. Non terminano quando l’Autore mette il punto finale, perché ogni lettore sente l’esigenza di farli propri  e di reinterpretarli. Questi romanzi non si perdono nel lungo tempo, in quanto rappresentano delle tracce scritte lasciate  dal narratore sulle battigie delle nostre anime, che nessun onda lunga potrà mai cancellare. Se la creatività è il respiro della personalità e rivela il mondo interiore del narratore nel caso di Claudio credo si possa tranquillamente asserire che la sua creatività è un fiume in piena. Il trapezista di idee, di sentimenti, che vive in lui, in “Captaloona” fa le capriole su se stesso, come una girandola. Ci insegna che occorre dimostrare ai nostri sogni che vogliamo davvero incontrarli, senza pretendere che essi facciano tutta la strada per arrivare fino a noi. I sogni hanno bisogno di appurare che siamo coraggiosi. Inventa personaggi dai nomi improbabili, ma dalle storie probabilissime, anche se condotte su un registro surreale: Galatea Malaspina, Cornelio Pesto, Palmira Grattalapesca, Collirio, Penuria, Apollonio / Placido, Gregoria, che conducono esistenze umili, da individui ‘parziali’, come dice l’Autore, ovvero imperfetti, che soffrono per le loro  manie e alcuni di loro finiscono per andare incontro al sogno di un solo individuo, l’architetto Marc Mullet, nativo di Captaloona, che, dopo molti anni di assenza, riceve dall’amministrazione della città l’accettazione a partecipare a un paio di gare d’appalto. Claudio ci introduce nel romanzo allestendo la rappresentazione della società nelle cui vele restiamo impigliati da individui imperfetti, in quanto creati a immagine e somiglianza di Dio, ma non uguali a Dio. Uomini e donne dagli impieghi modesti, chiusi nelle proprie ‘scatole’, nel caso del testo i call center, in cui lavora Galatea e che rappresentano la mania del fattorino Cornelio, che privano dei rapporti diretti e alimentano l’immaginazione, come d’altronde gran parte del mondo virtuale, che sta prendendo il sopravvento nel ventunesimo secolo. Un puro il nostro Autore, che, allestendo con originalità e umorismo esemplari tale teatro, mette in risalto quanto la malafede governi inesorabilmente le relazioni umane. L’equivoco diviene, infatti, la condizione quasi perenne in cui vivono i suoi personaggi, come da lunga tradizione drammaturgica. Possiamo partire senz’altro dalle commedie dei latini Plauto e Terenzio, che si ispiravano alle rappresentazioni greche, tant’è che ne mantenevano l’ambientazione. Si è cimentato in questo genere anche Shakespeare in uno dei suoi primi lavori, intitolato proprio “La commedia degli equivoci”. Goldoni ne è l’autore italiano più rappresentativo. Tale commedia è stata talvolta considerata un teatro minore, in quanto usa l’espediente dell’equivoco per creare la trama e divertire, ma gli autori francesi Feydeau e Moliére hanno dimostrato che è la rappresentazione ironica dell’incomunicabilità umana. D’altronde è stato Charlie Chaplin a dire che ‘la vita è una commedia e, spesso, una commedia degli equivoci’. Nell’Opera del nostro Claudio non esiste la figura del deus ex machinae, che risolve il groviglio di malintesi nel finale. Le situazioni incredibili che vengono a crearsi sono affrontate dai vari personaggi che riempiono la scena e che sanno uscire dai propri panni e inventarsi altri per dare il loro contributo alla causa di Galatea, Cornelio e dell’architetto Marc Mullet.  Captaloona, una città, che in realtà rappresenta un concetto, come scrive lo stesso Claudio, nei ricordi dell’architetto incarna ‘l’isola che non c’è’, il modello di vita ideale, ma nel tempo si è trasformata in ‘un vero schifo’, in uno dei tanti ‘insediamenti umani dal comune denominatore: la perdita del cuore’ – l’espressione è tratta dal testo -. Il viaggio dei nostri protagonisti a Captaloona diviene una discesa negli Inferi, ‘nell’abisso dell’umanità’ – altra espressione di Claudio -. La città, in effetti, rispecchia con qualche paradosso, i luoghi nei quali siamo abituati a vivere. I prodotti di questa società ‘liquida’, per dirla con il sociologo Baumann, che rendono le persone schiave del sistema, tese a considerare i sentimenti al pari dei beni economici. Società di tecnologie avanzate e devastanti, di universi virtuali, di pochi scrupoli e poca anima.
Eppure proprio in questo luogo nel quale sperimentano più volte la dolorosa vulnerabilità dei vivi, i nostri protagonisti, insieme a una serie di altri personaggi, che Claudio caratterizza con maestria,
evidenziando la sua capacità di portare avanti il discorso corale, indispensabile per la riuscita di un romanzo, prendono atto che il peggiore dei mondi possibili può essere cambiato. Occorre evitare la trappola del disfattismo. I ‘se’ nella vita rappresentano le patenti dei falliti; si cresce, si cambia con i ‘nonostante’… L’autore asserisce ‘in due si è il doppio di uno’ e trasmette il senso della forza. Due persone possono essere già una folla. Il nostro Claudio ci dona una grande lezione di idealismo rivoluzionario, che prescinde da ogni fede politica. Il Vecchio Saggio, ovvero il Santo Asceta, la figura più affascinante del libro, che dovrebbe essere un fantasma, ma probabilmente non lo è, afferma che coloro che abitano Captaloona e detengono il potere ‘sono come il cemento, come la morte: tenaci, spietati, implacabili… entrano nel cervello, controllano i pensieri, guidano i desideri’ – l’intera frase è tratta dal testo – . E parla di un Dio al quale non importa in che lingua si parli, ma solo ‘che si sia buoni, che si viva con amore e si agisca per amore’ – anche questo estratto è preso dal testo -. Ai potenti fa comodo ‘un Dio utile, ma la bontà non è reazionaria, va al di là del colore della pelle, della lingua, della religione o della fede politica; è il massimo valore, la più grande delle qualità umane’. Sto riportando i brani del romanzo, perché sono convinta che non potrei trovare parole adatte a esprimere meglio simili concetti. Galatea e Cornelio a Captaloona divengono artisti di strada: lei sfrutta l’ugola d’oro, lui strimpella una chitarra e ci trascinano nel sogno di Claudio, che è costellato di fantastiche allegorie. Le fobie dei due divengono le forme più innocenti di normalità, rispetto alla follia cieca di coloro che vivono per distruggere.  Tra le numerose allegorie presenti nel testo mi piace citare quella dell’ascensore, ossia del luogo in cui i due riescono finalmente a baciarsi. Diviene un simbolo di elevazione verso i piani più alti di comunicazione e di felicità. Il libro, si legge d’un fiato e nel finale sfuma nel giallo, per cui non ritengo opportuno narrarne la trama. Tornando ai miei spunti introduttivi e, in particolare, all’assunto che le parole hanno un senso solo se si dimostra di essere in grado di appropriarsene, il nostro Autore, uomo animato da purissima, incandescente passione, non solo si appropria delle parole, ma le veicola con tale destrezza che in certi momenti rischia di perderne il controllo. Ed è lì, in quei passaggi in cui l’ispirazione prende il sopravvento – torno a citare il capitolo del Santo Asceta – che filtra il genio. Per genio intendo il talento assoluto, del quale lo scrittore è inconsapevole. Captaloona è un flusso inarrestabile di verità più o meno emotive, narrate con umorismo, inteso come attitudine a considerare la realtà sotto aspetti bizzarri e singolari, che muovendo il riso, consentono una più ampia e umana comprensione di essa, e concepite a livello stilistico in modo ineccepibile. Leggendolo ho spesso avuto la sensazione che nel corso delle nostre esistenze preferiamo ignorare le verità. Per non guarire. Per non correre il rischio di divenire quello che abbiamo paura di essere: completamente vivi!                                                                                                                                                    Maria Rizzi





CAPTALOONA 
di Andrea Mariotti


Riguardo all’ultimo romanzo di Claudio Fiorentini dal titolo Captaloona, Napoli, Kairòs Edizioni, 2013, inizierei senz’altro col citare un illuminante passo dello scritto che la poetessa e saggista Ninnj Di Stefano Busà ha voluto dedicare al narratore che è pure -occorre rammentarlo- poeta e pittore (in CLAUDIO FIORENTINI E LA SUA TRIADE ARTISTICA; leggibile, sulla Rete, all’indirizzo nazariopardini.blogspot.com/, in data 9/7/13): “In narrativa è spigliato, divertente, ironico, si esprime a tratti alla maniera gaddiana. La sua scrittura molto stringata e parsimoniosa di aggettivazioni, di orpelli, mira al discorso concreto, senza arrangiamenti o infingimenti. Il realismo convive nelle sue opere e vi trasferisce le linee essenziali di una verità dolorosa, ma sorretta da una saggia visuale dell’esistente che si manifesta in ogni circostanza. Lo attraggono le grandi tematiche: l’amore, la morte, la religione, la filosofia affiancate da una visionarietà che scheggia talvolta il vissuto, fomentandolo e di riflesso cercandolo e tentandolo metaforicamente. L’allegoria è anche una delle sue attitudini. La sua pagina narrativa sembra ambientata in un tempo dialogico ma anche diacronico, e si snoda lungo il corso di una ambientazione che riecheggia di molti temi”. La copertina di Maria Rosaria Vado per il romanzo di Fiorentini, sembra in effetti supportare visivamente le suddette osservazioni della Busà; nel senso che in essa si vede eloquentemente contrapposta la tetraggine della città commerciale alla luminosità di quella ideale, a misura d’uomo; in cui svetta, nel cielo senza nuvole, un grattacielo della Musica. Scorrendo poi l’indice del libro, risulta più che evidente la scansione musicale -in movimenti, per l’appunto- che l’autore ha inteso dare ai blocchi della sua narrazione, da leggere -pare suggerirci Fiorentini- tutt’altro che staticamente.
Conversando con l’autore dopo la lettura del romanzo, ho avuto peraltro occasione di ripensare a un grande libro di Italo Calvino del 1972, Le città invisibili; con specifico riferimento a quella coscienza del multiforme -a fronte della complessità del reale- vibrante nelle pagine calviniane, come del resto nel romanzo di Fiorentini in oggetto (rimando immagino lusinghiero per il nostro autore che, evidentemente, ha saputo integrare al meglio negli anni l’innato talento con i succhi vitali del suo andare per il mondo). Restiamo però concentrati un attimo su Calvino: non si potrà certo dimenticare l’intima natura loico-raziocinante del grande scrittore del nostro Novecento; laddove Fiorentini non ci appare altrettanto distributivo, nelle sue pagine; pagine dei tempi attuali, ovviamente, che si fanno carico di una “globalizzazione d’identità, la sua”; cioè di Fiorentini, come osserva la Busà in conclusione del citato intervento. Ma Claudio Fiorentini, a lettura ultimata di Captaloona, rimane comunque intimamente dalla parte di Calvino, a nostro giudizio; alludendo a quella “gravità senza peso” che il grande scrittore riconosce nello stile di autori quali Ovidio, Cavalcanti, Boccaccio, Leopardi, Kundera (per limitarci a pochi ma significativi nomi) nella prima delle sue memorabili Lezioni Americane: Leggerezza; talché, tornando a Claudio Fiorentini, qualsivoglia lettore non potrà negargli per l’appunto detta leggerezza, in chiave espressiva. Leggerezza che gli permette di dispiegare la suindicata coscienza del multiforme (e si pensi, al riguardo, al precedente e felice “giallo metafisico” di Fiorentini, e cioè Il misterioso caso di via Delia da Gilal Gulta, del 2011). Così dicendo, sarà forse possibile osservare più adeguatamente la scrittura efficace e coinvolgente sulla quale Captaloona può contare: aspetto evidente della bravura del romanziere; ma, ben più in profondità, strumento aderente allo spessore umanistico (da scriptor rerum) di un sognatore, Fiorentini, che sarebbe bene prendere sul serio.
“Captaloona non è una città, ma un concetto, eppure non dubito che molte città abbiano caratteristiche simili, o peggiori di quelle qui descritte. Se il mondo, come sembra, va nella direzione di Captaloona, sono guai seri, e vanno risolti sul nascere. Non aspettate che un architetto malato vi coinvolga, non aspettate che un fantasma vi guidi perché quelli, ahimè, non esistono”. Così si legge nella severa epigrafe non a caso anaforata (“non aspettate…non aspettate”) posta all’inizio del romanzo (con lontana e suggestiva eco del viaggio per eccellenza (“Per me si va…”; Inferno, canto terzo, 1-3). A pronunciare questa epigrafe è Ventresca, amico del celebre architetto Marc Mullet e deciso a raccontare la storia dei fitti eventi accaduti a Captaloona partendo appunto dalla fine, e cioè dall’assassinio di Mullet; conditio sine qua non, in sintesi, della rinascita della città. Il lettore di Captaloona non tarderà a prendere coscienza della superiorità indiscussa di Mullet rispetto agli altri attori della vicenda; una superiorità che trascende, a conti fatti, gli eventi stessi narrati nel romanzo. Sicché sarebbe errato ravvisare in Mullet un vitale alter ego del romanziere; in quanto la figura dell’architetto suscita totalmente l’ammirazione dell’autore, poco interessato ad attribuirle profondità di personaggio; così, al dunque, di valenza demiurgica dovremo parlare a proposito di tale figura: in una parola sola, funzione narrativa, apodittica rispetto al flusso romanzesco e finalizzata a farsi sovente portavoce dell’umanistico risentimento di Fiorentini, come ben dimostra l’attacco del secondo movimento del libro, dal titolo L’arrivo (a Captaloona, naturalmente): “Tutto cominciò con l’arrivo alla stazione, un luogo veramente ignobile, ben diverso da quello descritto dall’architetto”. Così la città appare, ivi giunti in treno, a Galatea Malaspina, Cornelio Pesto e al celebre architetto, che non mancherà di osservare poco più avanti come oggi ci sfugga “il senso della convivenza tra cemento e libertà”. E proprio Galatea Malaspina e Cornelio Pesto sono di gran lunga i personaggi, anzi, le vitali creature che maggiormente mi hanno convinto, del  romanzo; anche perché in Galatea e Cornelio si incarna nel modo più efficace a mio modo di vedere e come preciseremo la carica utopica diffusa nel libro. Galatea (si noti il mitologico nome che rimanda alla “bianca”, una delle Nereidi amata invano dal ciclope Polifemo); Galatea Malaspina, stavamo dicendo, entra subito in scena nella narrazione: “per riscattarsi da una vita magra e grama” (e si osservi, qui, la doppia aggettivazione frutto d’anagramma felicemente congegnato da Fiorentini; uno scrittore dotato di una vis ludico-linguistica capillarmente attiva all’interno delle vicende da lui narrate). Ma come entra in scena Galatea in Captaloona?  Presentandosi nello studio del celebre architetto per un posto di assistente nel suo staff. La giovane donna, “protagonista vocale di un misero call center”, pur titubante di fronte al “maestro”, finisce per assecondarne le catalizzanti pressioni a seguirlo a Captaloona, per scoprire le carte di loschi gruppi di potere localmente operanti  (e suggestiva è la pagina che quasi ci fa sentire la voce stupenda di Galatea impegnata a cantare ‘Na sera ‘e maggio, con l’architetto ad ascoltarla “estasiato”). In effetti, la pagina accennata risulta ai nostri occhi importante in quanto, sempre in essa, irrompe nella storia il giovane fattorino Cornelio Pesto, romanzesca creatura uscita viva dalla penna del narratore. “Timido e impresentabile”, perdutamente innamorato di Galatea, il giovane Pesto, inzuppato d’acqua, ha la sfortuna di fare il suo ingresso nello studio dell’architetto nel bel mezzo dell’esibizione canora della donna, peraltro in accappatoio a causa dei suoi vestiti fradici di pioggia; donde “la sagra del malinteso”, che però ferisce l’animo di Cornelio, fino ad indurlo a scappar via umiliato; non senza moti di malignità e maleducazione rivolti a Galatea e Mullet. Cornelio Pesto, con le limpide parole del romanzo “era un ragazzone ingenuo, facile preda dei trabocchetti che tende ogni giorno il mondo contemporaneo, e delle seduzioni insite nelle mille angherie diffuse dei mezzi di comunicazione. Per un lungo periodo della sua giovinezza non aveva fatto grande uso delle sue qualità, divenendo il ritratto di una società malata, un giovane solitario e scontroso che aveva paura di parlare con la gente e si chiudeva a riccio…Tuttavia aveva una vita sociale, sebbene discutibile: era, forse suo malgrado, un esperto di numeri verdi, di quei numeri cui fanno capo fantomatici call center…”. Non a caso abbiamo riportato quasi per intero l’iniziale caratterizzazione del personaggio; trattandosi a nostro avviso di uno dei punti più felici del libro, laddove bastano a Fiorentini pochi tocchi per rappresentare fluidamente, con “gravità senza peso”, ossia con la suddetta leggerezza, quell’insidioso autismo neppure così nascosto in tanti giovani d’oggi e che in Cornelio Pesto costituisce un humus destinato tuttavia a fare i conti con l’esperienza vitale del multiforme, in una città come Captaloona. Facciamo un passo avanti, focalizzando la nostra attenzione sul capitolo Ali del Sud, incluso nel terzo movimento del romanzo (dal sottotitolo Dove si dipana l’intreccio). L’aria si è fatta pesante a Captaloona, dopo l’incontro di Mullet e Galatea Malaspina nel palazzo del Comune con l’inquietante burocrate dal nome Penuria; e, soprattutto, dopo il rapimento dell’architetto da parte di “brutti ceffi” per un faccia a faccia con il “temibile” Collirio, l’anima dannata della città. Netta, a questo punto, la nostra sensazione di trovarci al cospetto del capitolo più bello e decisivo del libro. Vediamo il perché.  Cornelio Pesto incontra Galatea, ossia la donna dei suoi sogni, “in quell’ignobile distesa di catrame e lastroni di cemento”; che così si è rivelata nel frattempo ai due la città di Captaloona. Lui, Cornelio, artista del pedinamento, con lo sguardo per terra, si trova adesso irrevocabilmente di fronte alla schiettezza di modi e parole della donna (non più rassicurata dalla stabile e povera monotonia del call center dove lavorava). E Galatea, allora “saggia, manifestò una debolezza per dare all’uomo la possibilità di rendersi utile”, leggiamo nel romanzo. L’uomo non può più rimandare una lotta quasi epica contro i tortuosi percorsi della sua ripiegata fantasia; in quanto Galatea Malaspina gli è ora di fronte in carne e ossa; ed eccolo quindi confessarle la sua dipendenza dai “numeri verdi”; per prendere atto che l’immagine della donna da lui costruita durante le lunghe telefonate del passato non coincide con quella reale di Galatea ora davanti ai suoi  occhi. “Vagheggia/ il piagato mortal quindi la figlia/ della sua mente, l’amorosa idea,/ che gran parte d’Olimpo in se racchiude”, ci dice Giacomo Leopardi in Aspasia (versi 37-40), canto napoletano del 1834 e relativo al suo infelice innamoramento per Fanny Targioni Tozzetti (vissuto dal grande Recanatese nel suo precedente soggiorno fiorentino). Ma, tornando a Galatea e Cornelio, come non prendere atto della umanità rispettosa della donna che suggerisce “sottovoce” all’uomo, senza dileggio alcuno, di “vedere un professionista”; non scartando l’ipotesi che “quelle storie”, ossia le vite degli altri immaginate da Cornelio potrebbero avere una dignità editoriale? C’è in effetti poesia, in queste pagine di Claudio Fiorentini, la poesia della vita che avvicina gli umani “confusi e legati a migliaia di mondi diversi”, per dirla con le parole di una famosa canzone di Francesco Guccini risalente ai primi anni Ottanta, ossia Bologna; sì, perché il nostro Cornelio Pesto, eroe negativo per eccellenza, avverte che “era una delle rarissime volte che a lui capitava di parlare con qualcuno che fosse fisicamente presente, e scoprì che gli piaceva farlo”. Ad un certo punto l’uomo afferma: “Comunque non quadra”: quanto basta per provocare la reazione esasperata della donna; la quale, avendolo sentito pure parlare di specchi (non essendo a sua volta immune da manie) e trovandosi soprattutto di fronte alla lentezza imperdonabile del suo interlocutore nell’accantonare sogni e immaginazioni, eccola esclamare con foga; “Ma qui non quadra niente, niente, capisci?”. “Se qualcuno l’avesse vista in quel momento, l’avrebbe amata e temuta. Una donna che si espone è l’enigma più meraviglioso che a noi uomini può capitare in sorte di risolvere”; osserva il narratore con lucida partecipazione.  Ma Cornelio, inventandosi una pacatezza a lui sconosciuta, mette a parte Galatea dei suoi dubbi più che fondati circa la sorte dell’architetto, sicuramente rapito in quanto temuto dai potenti della città. Galatea rimane “quasi affascinata” dall’eloquio disordinato ma non insensato dell’uomo “trasformato in giallista di successo”; e qui bisognerebbe dire della tenerezza di Fiorentini nell’osservare con sagace discrezione le sue romanzesche creature all’atto di convergere al centro di quel quid (di alto potere nutritivo per le sorti del romanzo) che così potremmo qualificare: la ragione solidale, scaturita dalla crescente complicità discorsiva di Galatea Malaspina con Cornelio Pesto, nelle pagine oggetto della nostra riflessione. Ragione solidale e dialogica sostrato delle grandi narrazioni d’ogni tempo; ciò che assicura credibilità, nella fattispecie, alla carica utopica (cui abbiamo già fatto cenno) vibrante nel romanzo Captaloona. “ E andar via no? Lui non rispose, lei ci pensò su, poi capì che fuggire sarebbe stato un atto di vigliaccheria, una rinuncia prematura, proprio quando la vita stava per prendere strade impensabili. Ah, la mania di essere protagonisti, il sapore dell’avventura che ora stavano pregustando, quello ha un valore inestimabile, meglio rimanere. Sì, d’accordo, una donna indifesa e un maniaco complessato non sono certo la combinazione migliore per un romanzo epico, ma, nonostante le loro limitate forze, almeno potevano provarci. E poi se l’architetto era in pericolo, avrebbero potuto tentare di tirarlo fuori dai guai. Sì, sarebbero rimasti. Non lo disse”. Ancora un indugio, più tattico che strategico da parte di Galatea, ed ecco finalmente Cornelio “vinto dal coraggio”, chiedere alla donna:  “Vuoi tornare al tuo lavoro…immergendoti…nelle solite abitudini…oppure vuoi divertirti a combinare qualche pasticcio a Captaloona insieme a me?”. I due, ormai affratellati dall’afflato che Erich Fromm chiama filìa nel suo celebre saggio L’arte di amare (laddove la intende quale premessa di un eros durevole, vale a dire l’amore costruttivo) i due, dicevamo, rimangono pertanto nella città abitata da santi eremiti e loschi trafficanti; cercando per prima cosa di calmare lo stomaco brontolante con il menù “Ali del sud”; così come leggiamo in conclusione del capitolo del libro. Un capitolo al cui interno -lo affermiamo convinti- noi cogliamo l’umanistico spessore del sognatore Claudio Fiorentini ; al quale la leggerezza dello stile “serve” per concretare la sua aspirazione a quella città ideale -la vediamo nella copertina del libro- fatta di luce, di azzurro, e di musica; e contrapposta all’altra resa oscura dalle polveri sottili del malaffare consacrato al vizio e al denaro. Sicché, in sintesi, alla lettura del capitolo in oggetto, ben al di là dell’intreccio che si dipana, noi avvertiamo una scossa narrativa dovuta all’intelligenza del cuore di Claudio Fiorentini;  tale da elettrizzare i suoi personaggi -Galatea Malaspina e Cornelio Pesto in primis- e di conseguenza noi lettori, intimamente rallegrati dalla percezione di quel bene in apparenza oggi disperso eppure radicato in profondità: il senso dell’umana solidarietà. Bene prezioso da risultare -così efficacemente evocato dal narratore- il fondamento, nel libro, di quella carica utopica fatta di creatività, buon senso, allegria di mente; allo scopo di voltare le spalle a Pluto, il dìo della ricchezza e dei centri commerciali che ottundono l’immaginazione “primo fonte della felicità umana. Quanto più questa regnerà nell’uomo, tanto più l’uomo sarà felice. Lo vediamo nei fanciulli”; come osserva Leopardi nello Zibaldone in un passo del luglio 1820 (pagina autografa 168). Tornando al romanzo di Fiorentini è giusto, a questo punto, parlare di messaggio segnatamente positivo di cui esso si fa carico; in vista degli umani non più disintegrati sine die nell’intimo e nelle relazioni sociali (a fronte di quei “guai seri” cui fa cenno la già ricordata epigrafe del libro).
Naturalmente si compie qui un’ingiustizia nei confronti di un romanzo come Captaloona, nel tacere della sua diacronica complessità abilmente padroneggiata dall’autore al quale dovremo addebitare -a voler cercare il pelo nell’uovo- solo una certa lentezza, all’inizio, all’atto di far partire la macchina romanzesca (in termini di tecnica narrativa, come una sorta di prevalenza del processo di produzione rispetto al prodotto finito). Cosi dicendo, tuttavia, alludiamo davvero a trascurabili lacerti non integrati nella carne viva di una narrazione al cui interno la bravura di Fiorentini finisce poi per nascondersi del tutto, per far parlare direttamente i suoi personaggi, “cattivi” e “buoni” (molti dei quali da noi deplorevolmente non citati); personaggi a conti fatti vitalisticamente trasfigurati dal divenire; ossia da una vera e propria poetica della trasformazione alla base del romanzo. Come non essere grati, in conclusione, a Claudio Fiorentini di fronte a un libro come il suo Captaloona? in tempi cupi come gli attuali, questo romanzo ci offre un sorriso ricco di saggezza e di amore per la vita.

                                                       Andrea Mariotti
Ottobre 2013




POESIE



Da "Incauta Magia del Mentre" (Kairòs, 2012):

In questa scalza notte
Felpate idee sorvegliano
Qualora illudermi volessi
Che ancora esiste Dio
Quiete d’intanto si dilata
Mentre apostata palpito
Denso e buio
Mi trangugia
Ch’io mi perda e non travisi
Quanto ancor resta sconosciuto
A far di vita semina
Perenne.



Insudiciarmi di vita
In queste borgate
In queste strade rumorose
In questi cumuli di terra e foglie secche che
tappano i tombini
Da lì con un prodigio risalire
E muovere la vita con le mie gambe fino ad
esserne vittima
Fino a fondermi in lei come io solo posso farlo
E nascere nuovo al mondo
Morendo all’apparenza
Per non cedere uno solo dei miei attimi
All’attesa.



Dal Blog di Antonio Spagnuolo
  
Quando la luce finirà
noi non saremo ciechi all’abbaglio
di quel terrore
e solo potremo credere
allora come non mai in quel laccio di fede
nascosta e limpida
come da notti e giorni
e tempi andati
e vibratili fibre che ci impediscono
                            ora come sempre
                            di volare


Quando la luce finirà
e d’improvviso un altro degrado
sarà lì a convincerci che la follia
forse non era tale
e che il tempo non è bastato a farci capire
che matti si è savi e savi si è stolti
così come ci vediamo oggi
e forse non immaginiamo una possibile fine
ci ritroveremo allora
per un solo attimo
                   eterno, vero, solido
                                    ... a pentirci

 
  
Profilo dell’autore


Sono nato nel 1959, quando neanche le macchine da scrivere facevano parte del corredo di una casa. Roma, a quei tempi, era ignorante e incontaminata, ora è solo ignorante, ma pur sempre meravigliosa. Ho viaggiato tanto per lavoro e per mie vicissitudini, ho messo piede in più di quaranta paesi, patrie, terre, universi… ed ho vissuto in Messico, Francia e Marocco. Ovviamente, tutto questo mi ha segnato, e sebbene abbia cominciato a scrivere nella lingua che ho studiato, lo spagnolo, l’italiano è la mia lingua. Ho cominciato a scrivere quando ho scoperto la musica, la chitarra, il mondo e le donne… se parliamo solo di scrittura, ho cominciato con la poesia, come quasi ogni adolescente, solo che da grande non l’ho tradita, e l’ho esplorata nel suo essere sperimentale… da lì il mio primo libro, pubblicato a trentatré anni, che contiene trentatré liriche sperimentali, il titolo? “Da comunque Uomo”. Ma non mi bastava la poesia, volevo altro, volavo alto, e allora ho cominciato con i racconti, poi con i romanzi. Ne ho pubblicati sei: “Ovvero, la porte del Mare” nel 2002, “Io parlo Jazz” nel 2004, “Il faro di Bighlise” nel 2007, “La stella e la sua luce” nel 2008, “Il misterioso caso di via Delia da Gilal-Gulta” nel 2011 e “Captaloona” nel 2013. Nel 2012 ho anche pubblicato una seconda raccolta di poesie, “Incauta magia del mentre”. Di premi (minori) un po’ ne ho vinti, e me ne vanto, dato che il mio unico vero sponsor è la mia volontà. Del resto, uno scrittore dopolavorista come me, prima di spiccare il volo deve percorrere tanta di quella strada che c’è da diventar matti.
Per pubblicare, come tanti altri autori validi e non, ho usato il mio ego, e con esso approvato spese immani che mi hanno fatto accettare offerte di editori a pagamento. Ebbene, sono passato per le forche caudine dell’APS (A Proprie Spese), ma poi ne ho avuto fin sopra i capelli (e di capelli ne ho ancora molti, nonostante l’età), e mi sono rivolto ad un agente, che mi ha insegnato molto. Ma poi, ahimè, si rimane sempre nel gran calderone, e nonostante l’esperienza e la qualità, il successo di vendite è minimo. Per questo mi sono messo anche a fare il pittore, esponendo i miei lavori in Italia e all’estero, con la speranza di riscuotere maggiori successi che sono sempre lontani da quello che raccontano le cronache fantastiche dello showbiz. I miei libri nascono da un appunto, da un’idea, da un sogno. Spesso i sogni li trascrivo, poi li faccio crescere. Comunque un appunto di dieci linee non è certo un romanzo di sessantamila parole, sebbene quest’ultimo venga da lì. Comunque, per un romanzo mi occorrono circa due anni di lavoro, approfitto dei miei frequenti viaggi, e scrivo, riscrivo, correggo… diciamo che la parte più importante, dopo aver covato personaggi ed eventi per mesi e mesi, è la sedimentazione, poi la rilavorazione, che richiede modifiche di dettaglio minuziose e riletture periodiche. Insomma, il lavoro è tanto. E poi, ci vuole comunque un bel coraggio… ecco quello che ci vuole. C’è chi esce con gli amici, chi va a ballare, a bere una aperitivo, a passeggiare, e c’è chi invece gli amici li descrive. L’invenzione è il mio mestiere. Mi capita di preferire di starmene di fronte al computer piuttosto che andare a ballare. Noioso, no? Ma a me piace. Per essere più precisi, sono uno splendido cinquantenne che adora le sue figlie, piccole, perché mi sono sposato grandicello. Dimostro meno anni, ma questo non è un bene, perché fatico a sopportare che certi giovanotti mi diano del tu. Mi piace la musica, sono un collezionista di vinili ed un ascoltone incallito. Non sopporto le canzonette, trovo che la musica pop sia tutta déjà vu. Adoro la classica, il jazz, il tango… quando vivevo in Messico mi sono fatto flebo di blues e peperoncino. Mi piace leggere i russi, non mi piacciono i gialli, non sopporto alcuni blasonati autori che vincono premi prestigiosi. Mi piace il cinema, Fellini, Scola, Mikalkov, Kieslowsky, Chaplin… non sopporto gli splat e i bumbumbum… odio gli effetti speciali e le esplosioni che durano venti minuti, con grida e panico che si diffondono tra il pubblico, e angoscia a fiumi che ti porti a casa, e chiudi a tre mandate per paura che qualche mostro intergalattico ti spii mentre ti lavi i denti. Insomma, mi reputo un rompiscatole volubile di grande raffinatezza.
Se avessi un motto, forse non lo direi per timore a dovermi ricredere… tuttavia, tento di riassumere la mia vita pensando che ogni giorno può essere l’ultimo, ma dato che forse oggi non è ancora l’ultimo, diciamo che oggi è il primo di quello che resta. E chissenefrega se resta un giorno, o se ne restano centomila. Intanto mi do da fare, poi si vedrà! Ora veniamo alla mia opera omnia. Perché comprare i miei libri? Diciamo che si comprano per leggere. Con la lettura si deve esperire un brivido, un dubbio, un rimpianto… qualcosa di profondo. Ma ciò che caratterizza i miei ultimi libri è un tocco di elegante ironia. A leggere i miei libri, ci si diverte e si ride, senza cadere nel tranello dell’intrattenimento, perché non sono banali.

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