domenica 16 febbraio 2014

MARIA RIZZI SU: "SONO NATO NEL MESE DEI MORTI", DI L. BARTALINI




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SONO NATO NEL MESE DEI MORTI

Un romanzo che coinvolge, incatena, commuove, del quale cito
le caratteristiche dominanti:

1)   La scrittura a due voci… che sul finale divengono tre.
2)   L’assenza di nomi di battesimo.
3)   Il carattere di saga.
4) La capacità dell’Autore di uscire da se stesso per calarsi nei protagonisti.
5)   Lo stile nuovo, originale, sanguigno, d’impatto immediato.

Un libro come “Sono nato nel mese dei morti” è difficile da porgere. Proverò ad attenermi ai punti che ho elencato e che rappresentano gli espedienti stilistici e contenutistici che lo rendono superbo. L’autore lascia narrare la storia, che si srotola dal 1938 al 1964 dal bimbo, che entra in collegio a cinque anni e dalla mamma, costretta a fare la scelta di separarsi da lui dalle condizioni disagiate di vita. L’aspetto che lascia interdetto il lettore è la capacità di un uomo di calarsi perfettamente negli stati d’animo, nei pensieri, nelle reazioni del piccolo e in quelle della donna. E seguendo le emozioni del bambino prendiamo atto che esistono esperienze alla quali è difficile dare nomi. Le parole sono come reti: speriamo che coprano quello che intendiamo dire, ma siamo consapevoli che non possono trattenere tutte le sfumature di sofferenza, di rabbia, di stupore…
Il bambino ha il modo di elaborare gli eventi tipico dell’infanzia. Pensa e, troppo spesso non dice. Comprende e rimuove. Si adatta alle situazioni perdendo frammenti di se stesso.  La madre è donna complessa, dilaniata da sofferenze antiche e dalla separazione dal figlio, che equivale alla rottura di un secondo cordone ombelicale. E’ anima in pena, sbattuta dai venti avversi dell’esistenza. La caratterizzazione dei due protagonisti è talmente accurata, profonda, che si ha la sensazione di ‘vedere’ il bimbo e la donna, di entrare nei loro universi con pudore e con sentimenti diversi: tenerezza, stupore, rabbia, dolore autentico. Il libro non si pone davanti al lettore, ma ‘dentro’ al suo sentire. Lo assorbe e lo rende il terzo inconsapevole protagonista. E facendo riferimento alla seconda caratteristica, ovvero all’assenza dei nomi di battesimo dei protagonisti, a mio umile avviso, rappresenta l’escamotage che dà carattere universale alla storia. Il bimbo e la madre si sdoppiano, si moltiplicano: divengono infiniti simboli di separazioni, di scelte disperate. Quando si ama qualcuno si è soliti ripetere il suo nome, come se fosse al sicuro nella propria bocca. La donna non pronuncia il nome del figlio come sceglie di non guardarlo negli occhi, di non voltarsi a salutarlo quando lo lascia davanti al portone del collegio, in quanto si sente già come se qualcuno la tagliasse a fette, frugasse nella sua intimità, strizzandole il cuore, i polmoni, i reni, scovando il grembo divenuto di colpo sterile. Il bambino ha un solo nome per chiamare la donna e lo ripete fino allo sfinimento: la voce si rompe, come le onde, sulle sillabe… Ma la donna sognata, evocata, chiamata è senza nome di battesimo. E per il piccolo è logico che sia così, ma l’Autore fa sì che nessuno nel corso del romanzo le dia un’identità di donna. Resta la solo e sempre ‘la mamma. Colei che ha gesti, profumi, che è musica d’arpa dolce e straziante, ma non ha nome di donna. Il romanzo si snoda attraverso il tempo tramite le esperienze del bambino, che cresce in collegio e segue gli anni della guerra. E’ ambientato a Napoli, una città che viene colpita duramente dalle vicende belliche e il bimbo, entrato ormai nella pubertà, sperimenta i bombardamenti, le corse nei ricoveri, la coscienza della morte, atrocemente democratica, come le malattie, che non risparmia nessuno. Il capitolo intitolato “Natale con le bombe” termina con pennellate innocenti, ma al tempo stesso strazianti, atte a trafiggere l’anima: “Un passo dopo l’altro torniamo verso il collegio spingendo il carretto che si è fatto terribilmente più pesante con la sensazione di essere diventati vecchi”. Parlo di saga, in quanto il testo copre la vita del protagonista fino all’ età adulta. L’uomo poco più che trentenne è sposato e la voce che si sostituisce a quella della madre è quella della moglie. Incredibilmente il registro non cambia. La donna sembra il continuum della figura materna. Conosce i tormenti interiori dell’uomo che ama, ha vissuto una sorta di passaggio di testimone con la donna che l’ha concepito e che si è ricongiunta a lui prima di morire. Ha appreso da lei segreti e dolori e possiede il codice d’accesso agli stati d’animo del marito. L’autore s’immerge nel proprio romanzo in modo totalizzante. Sembra scrivere una vicenda autobiografica… e, al di là dei periodi storici che non coincidono, resta il dubbio che molti degli eventi narrati possano essere stati vissuti da Luigi. Ma è poi importante appurarlo? Sinceramente credo sia rilevante solo prendere atto della capacità creativa di uno scrittore, che sceglie una saga, sceglie di incarnare le vite dei protagonisti, di dar voce a paure, solitudini,  ricordi. E proprio per quanto riguarda i ricordi, nell’immaginario infantile sono confusi, sovrapposti e possono essere evocati solo da flash back: una rissa alla quale il bimbo assiste in collegio risveglia la memoria delle violenze perpetrate dal padre, dedito all’alcool, sulla mamma; il profumo stantio dei fiori appassiti evoca la morte della sorellina. Luigi caratterizza in modo ottimale il figlio, fino all’età adulta, la madre, fino alla morte, ma anche il padre, nella sua inconsistenza di uomo e di genitore e la moglie, una comprimaria nell’infinito dramma edipico di cui la mamma resta la protagonista indiscussa. Ma forse il verbo ‘caratterizza’ è riduttivo per un Autore che entra sotto la pelle dei suoi personaggi, che si libera della propria identità per lasciare che esistano le loro. Luigi scrive in stato di autentica ispirazione e di profonda tensione. Dietro la sicurezza semantica si avverte il fervore doloroso che brucia tra le pieghe del suo cuore come una febbre. L’uomo che troviamo nelle ultime pagine del romanzo è assediato dai demoni dell’infanzia, dell’adolescenza. Lo rincorrono come lupi affamati e lo mordono… impedendogli di redimere il futuro. Un romanzo che rivela una tragica, ineluttabile verità: non si può essere bambini se non te lo concedono e non si può essere uomini sereni se non si è mai stati bambini. Concludo con lo stile. L’Autore mostra padronanza dell’ars narrandi, è innovativo, sa adattare il linguaggio alle due voci portanti del testo, risulta sempre morbido, denso, capace di sfumature liriche, forse inconsapevoli, ricco di pathos e capace di stuprare i luoghi comuni e la retorica.

                                                        Maria Rizzi


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