lunedì 17 marzo 2014

N. PARDINI: RECENSIONE A "PAESE", DI A. IZZI RUFO

Antonia Izzi Rufo - Paese
Il Croco
I quaderni di POMEZIA-NOTIZIE. 2014

Si soffre per strade desolate, per abbandoni, per silenzi estenuanti o per solitudini incise solo da un vento che onde rincorre tra l’erbe


Un vero crescendo wagneriano, una disarmonica armonia pucciniana che partendo da note intrise di solitudine, sconforto, tristezza, decolla verso àmbiti rigeneranti, verso approdi di cromatiche memorie, con  un do di petto nel finale da lirica rossiniano; con un acuto di perspicua valenza emotivo-visiva in un addio alle cose care che ci hanno fatto compagnia negli anni verdi delle nostre primavere; alle mura che hanno ascoltato i nostri lamenti, i nostri gridi di gioia o le nostre preghiere. Sì!, un addio di sapore manzoniano che sa trasferire il personale in una sfera universale, oggettiva, facendoci leggere quello che di più umano c’è in ognuno di noi:

… Addio, dolce rifugio
che mai avrei
voluto lasciare.
Te cielo, te luna,
voi stelle non saluto:
vi vedrò ancora,
da altro luogo,
e del mio borgo vi chiederò,
della mia casa,
sbarrata e abbandonata>> (Addio, monti!).

Insomma una dualità compositiva da tempus fugit  virgiliano; da panta rei eracliteo: “… non ci si bagna mai due volte nella stessa acqua di un fiume”; un polemos tra gli opposti che rende ancora più efficace e più incisiva la rinascita memoriale di un Paese che torna a vivere traslato in un sogno più reale del reale. Di un Paese che ri-nasce da sé e per sé, per quello che è con la sua fisionomia, con il patrimonio della sua naturalezza, con una solitudine che non è più qualcosa di sottrattivo, ma configurazione del nostro essere, del nostro proiettarsi verso orizzonti che sorpassano una siepe. È questo il Paese che rappresenta le nostre inquietudini, i nostri smacchi vicissitudinali. Sì, perché qui c’è la realtà del vivere, il presente, ma anche lo slancio al passato che si fa oltre, tramite la scalata di un’anima che tende a raggiungere l’azzurro del cielo; di un cielo in cui si staglia un dolce rifugio che mai la Nostra avrebbe voluto lasciare. Un vero simbolo, un vero abbrivo emotivo che fa dell’umano un focus indirizzato al repêchage. A ripescare, forse, quei tratti del nostro esserc-ci che si traducono in prolungamento di vita, arma a volte vincente per sconfiggere il tempo, l’ora che fagocita tutto e che ci rende estremamente fragili.
         Paese è il titolo di questa silloge pubblicata in I quaderni letterari de Il Croco. Poemetto tematico che si avvicina con un prosodico dire esplorativo a immagini di forte tensione partecipativa. Dove i versi liberi e spigliati, dolci e mansueti, obbediscono diligentemente ai comandi del sentire. Si ampliano, si riducono, si intensificano, si colorano per farsi tatuaggi di un cuore incastrato tra le rughe di un borgo, di un colle, di un Rio, di un monte.
         Si soffre agli inizi. Il polemos è tutto qui fra la poesia della prima parte e quella successiva. Sì, si soffre per strade desolate, per abbandoni, per silenzi estenuanti, o per solitudini incise solo da un vento che onde rincorre tra l’erbe:

Corri fuori di casa
appena puoi
perché il freddo
tra le mura t’opprime,
la solitudine.
Siedi al sole, riposi
e l’ansia ti prende:
non vedi non senti,
né persone né mezzi,
solo il vento che onde
rincorre tra l’erba,
uno stanco stridio d’uccello
e d’un aereo il rombo lontano… (Paese).

Si soffre per il vano e melanconico sopraggiungere di un camion di frutta inutilmente strombettante:

Primo pomeriggio.
<<Mele pere,
pomodori broccoletti>>
rimbomba invitante nell’aria
la voce dell’altoparlante.
Arriva strombettando
il camion della frutta.
(…)
“Questo è un cimitero”
grida al vuoto il venditore
<<Eppure è un bel paese!>>… (Sbircio dai vetri, della  finestra).

C’è questa Tristezza, con la T maiuscola, c’è questa cinerea Solitudine:

S’accompagna alla Tristezza
la cinerea Solitudine,
alla Malinconia,
cede alla Riflessione,
sull’Enigma indugia del poi,
cerca conforto in Coloro
che più non sono… (Solitudine).

Solo la presenza di amici animali riempie in parte il vuoto che il tramonto accarezza con le sue mani di pesca:

È bello avere amici
cani gatti uccelli:
colmano essi il vuoto
dei giovani andati altrove
in cerca di lavoro ( Tutti amici).

Da qui parte la Nostra. Dai minimi particolari, dalle piccole cose - messaggi rievocativi comunque -, che tendono ad ingigantirsi per concretizzare le emozioni dell’esistere.
         Ma c’è, anche, e soprattutto, la Natura; e il suo apporto è determinante per la scalata della Rufo che con  l’effetto rigenerativo di frescure di ossigeno, e cinguettii di “piccole italiane” ritrova se stessa. E lo fa coi tramonti iridei, con le sere terminali, con le vergini primavere, i palpiti verdicanti che rendono eternamente viva e sapida di vita quell’assenza che sembrava dominare sul tutto. Non è così! Non è più la mancanza a dominare. Perché il dio Pan prende per mano la poetessa e la porta fra gli àmbiti più reconditi, pur sempre familiari, del Paese; là dove ancora puoi ascoltare la pace:

... ascolti la pace
nel cielo turchino,
una pace infinita,
del silenzio il respiro,
la musica dolce dei rivi
che scendono a valle
dai monti,
lo stormire del vento
tra le fronde,
il coro giulivo
d’uccelli in concerto
e nell’aria
aspiri profumo di puro,
di menta origano timo,
rosmarino,
di verde, di terra,
di fiori d’ogni colore (Eppure…).

Un’ode di sapore tibulliano: “Hoc mihi contingat”. Una natura generosa, vivace, tenera, compagna eloquente  che si impadronisce dell’animo della Rufo e lo intrufola  nelle sue alcòve profumate di effluvi d’aria sopita:

… Stormisce il vento tra le foglie
argentee degli ulivi,
intonano i torrenti sinfonie,
motivetti allegri scandiscono gli uccelli
e i fiori soffiano effluvi nell’aria sopita (Rifugio).

Dove:
Al primo ti svegli
mattino di maggio
e vedi le rondini
che giocano in aria,
atterrano virano in alto
(…)
il cinguettio delle “piccole italiane”
e il tuo cuore che batte,
che batte felice (Brio).

Ed è facile sperdersi in paradisi di memorie colorate per sottrarsi alle ristrettezze del presente. In quelle possiamo estendere i nostri voleri fino a trovare quietudini di largo respiro; come è facile sperdersi in sprazzi di cielo, di terra, di mare, di campi di neve:

Non segue natura
l’evoluzione,
non cede
al cambiamento,
torna a fiorire
in primavera,
a scaldare
il mare d’estate,
a produrre
frutti in autunno,
a coprire
di neve in inverno.

Ed ormai la Nostra è presa. È posseduta dalla sua terra che sembrava inquietarla, e che ora rispecchia con la sua metamorfosi l’alter ego del vivere. E vola con ali d’aquilotto sul monte Castelnuovo, che la  chiama, le parla, e la invita a riposarsi sulle sue cime; vola lungo la riva del Rio, sfiorando le sue acque sapide di una storia:

In ogni tempo s’è aggrappato
al mio sasso Castelnuovo.
Era una volta a Santa Lucia,
ai miei piedi,
lungo la riva del Rio;… (Parla monte Castelnuovo).

E vola instancabile sul monte Marrone, invocandoci di seguirla alle grotte di Centrillo:
Troverete sui miei fianchi
la grotta di Centrillo
detto “Il gigante buono”… (Parla monte Marrone).

Ogni angolo del suo milieu la riconosce, e le comunica il proprio affetto, la propria vicinanza. 
E tutto si fa festa. Una festa sana, pulita, gioiosa, anche se un po’ malinconica. Una di quelle feste che si svolgevano una volta in paesi dove era facile essere vicini e fraternizzare. E in questo Paese è rimasta la tradizione della fratellanza, forse perché ha mantenuto un che delle cose buone di altri tempi; forse perché, non troppo omologato, non troppo frettoloso nei ritmi di vita, ha conservato fra le sue vecchie mura quel sapore di ammicchi giovanili negli occhi vissuti. E la Rufo, alla fin fine, ne è felice, e gioisce di poter danzare coi pochi vecchietti rimasti, sdentati, e vacillanti, pur cosciente di un tempo che svuota e che fugge:

… si scherza si canta si suona
e infine si balla.
Si sfrenano, sorridono tutti,
anche i vecchietti (Che buffi!)
sdentati, e vacillanti (Festa).

Perché lì c’è il suo cuore; è in quella casa:

…rifugio costante,
dei nostri depositaria
segreti,
parte è divenuta di noi
    (…)
dei tesori
dell’animo nostro,
dolore ci costa
abbandonarla,
pianto e rimpianto.

E la sua storia fra quelle mura.

             Nazario Pardini

18/01/2014

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