venerdì 16 maggio 2014

N. PARDINI: LETTURA DI "SERA DI PAROLE", DI FULVIO CASTELLANI



Fulvio Castellani: SERA DI PAROLE
 IBISKOS ULIVIERI. Empoli. 2010. Pagg. 66. €. 12,00

Poesia chiara, limpida, educata dal silenzio ad una frequentazione autoptica dell’interiorità. Educata a oggettivare in semantiche allusioni abbrivi di vertigini esistenziali. Cospirazioni panico-emotive che azzardano sguardi oltre orizzonti impenetrabili per le nostre miopie di esseri umani; oltre autunni  che simboleggiano con i loro sempre più brevi singhiozzi lo scorrere fugace della vita. Ed è questa  la stagione più vicina al tormento del fatto di esistere: alla dualità fra il nostro essere terreni e il nostro ambire al sempre; fra la nostra fragilità e il nostro slancio all’azzurro. Un aveu che contiene brandelli d’anima di ognuno di noi; che si stacca dal contingente e dal personale per innalzarsi ad un sentimento di levatura universale, dove uno spleen di forte tenuta verbale riesce ad evitare l’insidia de luoghi comuni:

E i giorni si aggomitolano
e i pensieri
le pagine di un diario senza parole
diventano ombre
percorsi vagabondi
brevi, sempre più brevi
singhiozzi d’autunno (Singhiozzi d’autunno).

Singhiozzi di una malinconica visione; di una cosciente apprensione del tempus fugit, di una precarietà che inquieta, di una strada che si perde in un misterioso quanto mai inestricabile cul de sac senza ritorni:

A volte allungo il passo
rincorrendo papaveri bugiardi
e mi fermo
a chiedere elemosine
di sorrisi
ma la strada
mai non ritorna
sui miei passi
oltre il naufragio
e la muraglia dei sogni (Oltre il naufragio).

Forse i sogni, sì, i sogni potrebbero proiettare il nostro spirito oltre  la siepe, la nostra condizione di estrema fragilità oltre un realismo crudo e sottrattivo. D’altronde l’atto onirico fa parete della vita, e ne costituisce un momento essenziale, come ne fa parte la morte. E chi dice che senza l’idea di Thanatos la vita potrebbe apparire più lieta. Più vivibile. Non è forse questa idea ad equilibrare i nostri comportamenti; a farci abbandonare a momenti di fuga, legati al quando e al dove del vivere?
Ma c’è l’inverno che corre forte, insaziabile e frenetico a bruciare l’ora calda del ricordo; un ricordo che a volte assume valenza di sfida rigenerante, a volte mera visione della casualità di un fatto:

L’inverno corre
a lunghi passi e altèri
brucia l’ora calda
del ricordo
l’ansimare lieto
di un fazzoletto bianco
al di là del muro
(Senza fare altro).

Ed ecco la nebbia
l’affiorare di un naufragio
atteso
la fredda luce
che s’inclina abbozzando
notti irridenti
ingrigite di un’agonia
mugghiante
da un indugiare pigro
e senza senso.
… (Forse invano).

Nemmeno il memoriale, il sacro patrimonio del nostro esistere, regge in questo impietoso confronto, in questo improponibile rapporto della nostra vicenda umana col tempo. E le parole, le parole di questa sera autunnale, scorrono veloci, incalzanti, libere, avvolgenti, nuove dettate da un’anima tutta intenta a tradurre il suo pathos in un realismo lirico di grande impatto eufonico e plurale. Una parola che gioca con misure ora brevi, ora ampie, con figure di alto simbolismo allusivo, con nèssi intrecciati in costruzioni di apodittica vicinanza per l’ardore espansivo di metafore. Una parola che mai è soddisfatta del suo logos e che tenta ermeneuticamente  di andare oltre il senso del suo valore semantico per agguantare una interiorità che riflette, medita, si sorprende, si illude e disillude. Di un cuore che tenta di nutrirsi di scorse primavere, di fulgidi raggi, creandosi alcòve di riposo, distrazioni da un impietoso e quanto mai inquietante sentimento di redde rationem. Una riflessione che la nostra natura non contiene; l’infinito, la morte, e l’oltre sono misure in cui si disperde l’anima umana. In cui si misura la nostra vicissitudine occasionale. E quante volte in una qualsiasi notte di agosto ci siamo azzardati in sperdimenti stellari senza uscita, senza soluzione: da brividi! Così, breve è il riposo, ed immediato il ritorno a quei perché che non hanno risposte:

E il cuore si fa specchio
di ricordi e di momenti
irridendo il rotolare rauco
di domande senza risposta (Dietro la siepe).

Sì, una nebbia che tutto nasconde; una luce fredda; un naufragio atteso; una notte che chiude un travaglio fatto di attese:

Ed ecco la nebbia
l’affiorare di un naufragio
atteso… (ibidem).

E alla intensità emotiva di una vicissitudine esistenziale si alternano input ispirativi di spontanea potenza creativa:
il sentimento erotico, con tutta la sua pluralità espansiva e umanamente coinvolgente:

Non servono parole
alla voglia di amarti
ma indugio ancora
ad addolcire il sogno
con la dolce fragilità di una parola sola… (Dolce fragilità),

il panismo simbolico, e tutto il suo potere oggettivante  col ricorso a realtà ora tenui, ora sfavillanti, ora decadenti, ed ora dolcemente vicine al consumarsi di una storia:

D’azzurro
m’inonda il sole all’alba
svestendo ombre e silenzi
ciarlando brioso
al respiro leggero
di una voce che lenta
s’apre alla luce del cuore (Nudità),

il linguismo, e la cospirazione di una parola che si fa sempre più fluida e generosa nell’accostare autunni a vicende troppo umane:

La colpa è di nessuno
se la parola scivola via
leggera e assente
come foglia secca
al respiro dell’autunno.
… (La colpa di nessuno).

E c’è il silenzio, sì, il silenzio questo grande collaboratore rumoroso a parlarci della vita, della sua invadenza mortale, in un colloquio stretto e serrato, raccolto e meditativo:

Ma è più facile ch’io perda
per la strada
l’incendio di un sorriso
e che finisca per accogliere
le mie ceneri
in un fazzoletto di silenzi (In un fazzoletto).

Insomma un’opera che in tutta la sua plurivocità ci dice dell’uomo e del suo esistere.  E ce lo dice prendendoci per mano e portandoci a gustare sprazzi di sapido naturismo senza mai cadute di stile; dribblando il sentimentalismo coll’esperire controllatissima effusività: tintinni di campanacci al pascolo, tepore di un bacio che l’erba sugge da una campanula raminga, autunni che vestono con l’oro della loro vetustà richiami mortali, albe che frenano magie di onde dal respiro lieve, o dolci brezze che corrompono tempi screpolati. Un abbraccio al mondo tutto intero, alla sua totalità in un impeto di amore. Sì, anche se il Nostro sente che “Non c’è scampo/ al grigio dell’autunno/ al brivido che sgretola/ risvegli e inutili bagliori”, anche se affida spesso a questa stagione tutto il suo taedium vitae, dacché meglio di ogni altra ci dà l’idea dell’indebolirsi di un ciclo, al fin fine lo fa perché in lui c’è questa ribellione verso un mondo che ci ha voluti umanamente fragili e impotenti. E questa ribellione non è altro che il frutto del suo forte legame alla vita. Del suo grande amore per essa che, alfine, traspare chiaro dal sottofondo dell’opera;  da  ogni  manifestazione  del  suo  percorso umanamente disumano, semplicemente complesso, ma veramente unico e ineguagliabile:

E allungo il passo
di rinnovato stupore (Stupore).
                                                
                                              Nazario Pardini
13/05/2014          









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