sabato 4 ottobre 2014

NAZARIO PARDINI: LETTURA DI "NEOPLASIE CIVILI", DI LORENZO SPURIO


Lorenzo Spurio: Neoplasie civili
Edizioni Agemina. Firenze. 2014. Pg. 64
                                      
Le lacrime di un popolo
scivolano copiose, per un momento;
quelle di una madre
non trovano fine (A una madre).

È da qui, da questo assunto che si deve iniziare per entrare nel focus, nella plurivocità di questa polisemica plaquette.
Mi tornano a mente alcuni versi di una mia poesia dedicata ai fatti di Nassiriya dove furono trucidati diciannove soldati italiani in missione di pace:

Le diciannove bare
avanzano lentamente
su affusti di cannone
per le strade di Roma. Abbiamo pianto.
Ma il pianto delle mogli e dei figlioli,
delle madri e dei padri è ben diverso.
Per  noi sono un’idea quei ragazzi,
una fotografia. Ma quelle donne
presero fra le braccia i loro corpi,
li hanno partoriti,
strinti nella notte (da Nazario Pardini: Nassiriya, in Scampoli serali di un venditore di arazzi. The Writer. Milano. 2012).

Poesia ampia, duttile, corposa, quella di Spurio, i cui versi, di arrivante nerbo significante, abbracciano con forza plastica gli input socio-lirici, le emozioni di un autore stupito e sconcertato di fronte ad un mondo zeppo di “Neoplasie” che lo rodono poco a poco e lo consumano. Molti gli spunti: il suicidio di uno scrittore “per sdegnare il tormento/ di gravosi e disoneste leggi/ contro natura, che spaccano/ la Sacra Famiglia…”; Piazza Tahirir, fumo denso e bambini che rubano il mare con occhi bagnati; il villaggio accecato dal sole/ sporco/ demolito/ e asfissiante aria di morte in Kalashnikov d’estate; la resistenza del popolo ucraino in L’Aiuto non dato (Maidan) contro la politica filorussa di regime; un bambino con strani lividi al volto presagente futuri di morte e mari purpurei; Verità talmente vere da non credere realmente di inciuci dorati all’ombra del Palazzo; il fumo canceroso delle favelas di San Paolo; la nuda frontiera del mondo che vede impavidi cecchini uccidere soldati amici; le bombe a Port Stanley, nell’isola delle Falkland; la denuncia di stupri nella repressione militare in Turchia; il tragico inabissamento di una nave nell’Oceano Pacifico. Insomma donne stuprate, oppressioni, arroganze, ingiustizie sociali, vite trucidate, amori devastati, madri nel cemento, popoli alla mercé di guide dissennate e autoritarie, ambiente, natura degradata da un uomo che imperterrito continua il suo cammino irrazionale ed egoista, credendosi immortale. Uno sguardo a tutto tondo, con occhio critico, su ciò che avviene o è avvenuto da non molto sulla nostra tormentata terra. E il tutto osservato con mente lucida e cuore palpitante, zeppo di Humanitas e di passione; con la piena coscienza della vita e del suo fuggire; dell’ora e del dove. Sì, della precarietà del presente, e di una vicenda che gli uomini dovrebbero ritenere sacra, considerando i limiti entro cui è stretto il nostro cammino. Un forte impegno civile che, partendo da dati reali, da fatti storici, da accadimenti esiziali per errori umani, allunga lo sguardo oltre la siepe che delimita lo spazio ristretto di un soggiorno e considera la vita come un tempo prestato dalla  morte.
Il linguaggio è incisivo, spietato, anche, nel tentativo di farsi corpo dei subbugli emotivi. Nel tentativo di concretizzare emozioni e riflessioni scaturite da bagagli vicissitudinali rimasti a macerare in un’anima sensibile e scossa da disumani accadimenti. Qui tutto è fruibile e privo di quegli armamentari retorici che, non di rado, fungono da orpello alla comprensione del testo; ogni pièces va diretta al cuore, evitando l’insidia dei luoghi comuni, e nutrendo lo spartito metrico di potenza e sostanza creativa, di versi dalla solida tenuta; modulando e affidando la parola al supporto di intrecci di una narratologia da labor limae di memoria oraziana.         
 Fino ad un atto finale in cui l’Autore s’inginocchia e bacia la terra chiedendole scusa; un atto che ogni uomo dovrebbe fare nel  riavvicinamento alla madre eterna:

M’inginocchiai e baciai la terra
chiedendole scusa;
impastai terriccio e saliva
e nel mentre dall’alto
una pioggia acuminata
m’infilzò dappertutto
e mi rigenerò.
Poco più in là, Atropo
scorciava fili senza pietà
e stanca
si reggeva ad un fuso
impolverato (Colloquio).

Una rigenerazione che Spurio spera tanto nell’uomo.

Nazario Pardini


1 commento:

  1. Nazario, come sempre la tua nota critica è focalizzante e significativa per l'autorevolezza delle tue impressioni e del tuo giudizio complessivo sull'opera.
    Al suo primo volume di versi, Spurio non poteva trovare miglior recensore.
    Ninnj Di Stefano Busà

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