lunedì 6 ottobre 2014

NAZARIO PARDINI LETTURA DI "ZERO TERMICO" DI PAOLO MAZZOCCHINI "




Paolo Mazzocchini: Zero termico. Casa Editrice Italic. Ancona. 2014. Pg. 64

La fine del ghiaccio o l’inizio del fiume

Poesia nuova, straripante, ironica, sarcastica, incisiva, i cui versi, alimentati da una perspicacie metaforicità, abbracciano, con virulenza, gli abbandoni, le rinascite, o il “Rischio/ di afflosciarmi sul declivio finto-/ erboso del sofà, brucando immemore/ abbrutenti tormentoni/ di spot pubblicitari”. “Immemore”. Senz’anima, dacché l’anima vive del suo patrimonio che è la memoria. Sottrazione di una coscienza lasciata alla mercé di un modernismo avvilente e omologante. Una metaforicità, appunto, che, durante il percorso dello spartito, si traduce in allegoria, tanta è la simbiosi  fra significante metrico e significato. Fra intenti etimo-allusivi e impatto paradigmatico. Una vis creativa sapida di vita e di tutti i suoi rocamboleschi scenari: fughe, ritorni, scandalo delle contraddizioni, e, alla fine, simbiotica fusione fra elementi di memoria eraclitea sullo scorrere del tempo, la imperscrutabilità del caso, e l’anormalità di tanti accadimenti in cui siamo coinvolti, o da cui siamo attratti, involontariamente, durante l’anoressia di un inverno che tanto rassomiglia a una stasi del nostro esistere. Zero termico. Riferimento ad un liquido che sta uscendo dal gelo, (“La fine del ghiaccio o l’inizio del fiume” - come afferma l’Autore in un risvolto di copertina -). 
E l’allusione è già ben chiara nella poesia eponima dove gli scheletri di ragno, l’estate, i sogni di neve, l’atarassia invernale, il cervello raffermo, i risentimenti d’antan, il declivio finto erboso del sofà, o gli spot pubblicitari sono ingredienti che simboleggiano con estrema visualità sia la possibile contaminazione della trasparenza del pensiero dagli abbrivi emotivi, sia la instabile fluidità della coscienza nella cristallizzazione del verbo. Un verbo che tramite nèssi di urgenza meditativa riesce a seguire con potenza espressiva i risvolti della vicenda umana:
eroi ed antieroi, umano e disumano, guerra e vita, reale e irreale, assoluto e relativo, contingente e necessario, con un ritmo incalzante e coinvolgente. Sì, una generosa combinazione di contrapposizioni emotive e verbali che costituisce il leitmotiv dell’opera. Dacché l’autore è spinto da una esigenza:  ricerca dell’etimo e della parola; l’esigenza interiore di traslarla oltre il senso per equivalere gli input filosofico-intellettivi. E tanti i messaggi sulle aporie di una società liquida fatta di viandanti sperduti. Riferimenti ad un mondo parossale, irrazionalmente distribuito, alogico, inconcludente, sul cui terreno “posavamo prima/ sicuro il piede dei nostri/ pensieri, di far scintillare ai nostri/ occhi /…/ il filo delle spade sospese/ da sempre sopra i nostri/ mollicci crani di neonati”.  Ed è l’iterazione del possessivo “nostri”, a concretizzare nel verbo la sottrazione di una partecipazione primaria da parte di un iter sempre più disumano. Il ritratto di una realtà cruda  dipinta in bianco e nero, partendo dai minimi particolari che ne costituiscono la struttura portante. Anche nel confessare l’amore il Nostro è spinto dalla necessità di intraprendere vie antiliriche, paradigmi esistenziali concretizzati in formule lontane anni luce da sdolcinatezze erotiche: “Perché/ da sempre distinguo l’odore opposto/ del male e del bene più/  che un segugio la traccia/ dello sterco o del sangue./ Per l’ironia tua lenta/ e benigna che da me storna/ le orde della comune follia/ quotidiana ed abita limpida/ le umili rocche/ dei sapienti. Per questo/ in me tu vivi”. Un linguismo generoso e modernamente intrecciato, non solo da un punto di vista metrico, ma proprio per i suoi interscambi azzardati; per i suoi incontri divoratrici del comune senso di far poesia.  Dove la sostanza creativa, fonica e cromatica, la pienezza ontologica, legata alle sue strutture oggettive e reali, evitano con maestria l’insidia dei luoghi comuni, modulando le parole con ironia, o con crudi riferimenti ad una verità ultrattuale: “Ci piace, e non vorremmo/ mai pensare che la polvere/ di fabbriche campi quartieri/ sputata oggi dal vento/ sui nostri davanzali/ non è già più/ la stessa di ieri”. Un fluire paratattico che denota la voglia di dire, di confessare, senza armamentari retorici, situazioni, anomalie, forgiate in pensieri netti e densi. Una ruggine che tutto contagia dando l’idea di un tempo che fugge e tutto corrode; di un oblio che si mangia la stessa memoria: appuntamenti mancati, ricette mediche scadute, un pullover anchilosato, un polsino liso: “atomi di spossata/ ruggine zampillano/ nella lama di luce/ sghemba dell’abatjour”, o una bellezza divorata dai rigagnoli sozzi di un tombino: “Presto/ è un pianto diffuso/ dirotto. Si strugge in un amen/ (di pudore,o di rabbia?)/  la corolla di ghiaccio,/ di botto precipita/ nei rigagnoli sozzi/ che un tombino divora”. Anche se trapela da questi versi una piena coscienza della caducità dell’essere e dell’esistere; una consapevolezza della miseria del mondo e degli uomini che non si rendono conto che la  vita è il tempo prestato dalla morte: “Il buio che segue/ la luce non è mai/ identico al buio/ che l’ha preceduta”, non è che ne fuoriesca un sentimento di nichilismo, o di pessimismo senza ritorno. Affatto. Qui c’è l’amore, la speranza, il sogno e soprattutto un grande attaccamento alla vita. Perché il poeta la vorrebbe migliore, la vorrebbe pulita; ma è a lei, al fin fine, che rivolge il suo canto. Un canto zeppo di forza rievocativa, a cui il Poeta dà tutto se stesso, nella speranza che urli ai quattro venti il suo disappunto per tutto ciò che non ne è  degno:

Non rido più della vetusta fede
nel tempo circolare udendo intimare
usurai canuti, tecnosnob, ammuffiti
capitani di sventura che a guadagnare
la proda verde del mondo nuovo
indietro tutta si punti la prora     
della sfasciata nave…
Non rido più. Anzi, non so
se la nausea o la pietà prevale (Non rido più).


Nazario Pardini

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