lunedì 15 dicembre 2014

DIEGO ROMEO SU "LA VITE E LA VELA" DI GIANLIVIO FASCIANO




La Vite e La Vela
Di
Gianlivio Fasciano

Di questo breve romanzo si posso dire tante cose, ma io ne dirò solo alcune per non annoiare troppo con il mio sproloquio, anche perché a parlare preferisco che siano sempre i libri e non le persone, in quanto di solito i libri dicono cose più interessanti delle persone…
Il primo punto che mi ha colpito di questo libro è sicuramente lo stile, uno stile che in certi sensi è più attrattivo della storia in sé, non che la storia sia noiosa, ma di certo lo stile del Fasciano è sicuramente molto particolare. Dinamico e impetuoso, non si ferma mai, ti fa correre dietro la storia, che di solito è sempre più avanti di te di qualche pagina e così ti ritrovi a percorrere quasi 600 km in poche pagine e non ti sei accorto di come hai fatto… (qui devo dire che in alcuni punti ho faticato parecchio a stargli dietro, addirittura mi veniva il fiatone…).
Altro elemento singolare e accattivante sono i paragoni. Paragoni assurdi, senza senso, eppure al tempo stesso,  esplicativi. Colgono il nocciolo della similitudine in maniera così calzante che alla fine pensi che il concetto non poteva essere espresso in nessun altro modo.
Uno stile che in alcuni punti mi ha fatto pensare molto ad un altro illustre napoletano: Erri De Luca.
Ma un buon libro non può definirsi tale se accanto a uno stile accattivante non ci fosse anche una bella storia.
Quindi ecco che siamo a Napoli città magica, piena di vicoli e di bassi, dove una ragazza, Linda, lavora in nero come lavascale nei condomini. Attorno a Linda si sviluppa un’umanità varia. Amici onesti, amici disonesti, amici ingenui, amici buoni e amici approfittatori, amici innamorati, amici gay, amici rivoluzionari e amici politici. Insomma in una città in cui Linda stenta a trovare i confini dei quartieri, vi è un umanità senza confini.
La storia, nella prima parte, ha tre scenari ben definiti: il palazzo dove Linda fa le pulizie e dove impara a fumare le Ledy come veicolo aristocratico di evasione sociale, la rotonda in cui aspetta il suo amico Mino, rotonda infestata dai regni del male, come quello del perfido ferramenta, che solo Linda riesce a domare, e il balcone del suo appartamento, da cui ogni sera intrattiene comizi  con i suoi vicini di balcone.
L’Autore descrive una città in cui si vive forse un po’ troppo ai limiti dell’umanità e della legalità, in cui non si riesce più a capire quali siano i propri diritti e soprattutto i proprio doveri. Così alla fine di un incidente sul posto di lavoro, Linda acquista la consapevolezza di dover cambiare, di dover capire ma soprattutto di dover prendere in mano le redini del suo destino, che come un fiume in piena, rischiava di travolgerla. Pensa, medita, legge e come spesso accade dopo che si è letto, si pone delle domande. Domande che necessitano di una risposta. risposta che non può essere trovata a Napoli, perché ormai Napoli è irrimediabilmente compromessa dalla vita di Linda.
Ed ecco quindi che la donna compie il tipico errore che facciamo tutti quando non riusciamo più a reggere il peso dei nostri problemi.
Scappiamo.
Scappiamo lontano nella stupida illusione che la felicità, quella vera, sia sempre lontano da noi, sempre lontana dal posto in cui viviamo e da Napoli Linda scappa lontano fino ad arrivare a Trieste. Trieste che con Napoli e i napoletano non ci “azzecca” proprio nulla, ma è proprio lì che lei pensa di poter ricominciare da capo scrollandosi di dosso quella sua indolente napoletanità.
Nulla di più sbagliato, perché come sovente accadde, il destino ha un grande senso dell’umorismo, avvolte anche cinico ed ecco che se non è lei a tornare sui suoi passi, sono i sui passi che tornano su di lei. A poco a poco, infatti, si accorge che tutto quello da cui voleva scappare, dal suo datore di lavoro, dal suo affascinante politico troppo onesto per fare il politico e soprattutto da Mino, sono anche loro approdati a Trieste con lei.
A Trieste, dove si svolge la seconda parte del romanzo, si consuma un'altra grande tragedia, - perdonatemi il termine così forte - il fallimento del voler cambiare la propria condizione sociale attraverso la violenza e la lotta armata. In un periodo di fermento politico e sociale, di manifestazioni tutt’altro che pacifiche, Linda realizza, in un senso quasi Verghiano, che non ci si può elevare dalla proprio condizione sociale e non si può cambiare il proprio destino con la lotta armata.
Al contrario, realizza che solo attraverso la cultura e il sostegno reciproco, passando attraverso il dialogo fra le varie parti sociali (qui rappresentato dall’incontro fra Silvan metalmeccanico e capo del movimento di protesta e Giustino politico onesto e mediatore fra gli operai e il governo), si può veramente cambiare la propria condizione, ma soprattutto capisce che non è scappando dai propri fantasmi che si risolvono i problemi, perché tanto prima o poi loro torneranno a bussare alla  porta, ma solo affrontandoli a viso aperto senza averne paura.
Finisco con un solo un appunto, puramente di stile (ma soprattutto puramente personale), forse avrei evitato la scelta di non dare un titolo ai vari capitolo del libro.


Diego Romeo 

Nessun commento:

Posta un commento