martedì 23 dicembre 2014

N. PARDINI: LETTURA DI "AMORES" DI G. BUSCA GERNETTI




Giorgina Busca Gernetti: Amores
Youcanprint. Tricase (Le). 2014. Pg. 52.

Un crescendo verso un eterno che tradisca la precarietà del nostro esser-ci


Orfeo e Euridice

Una plaquette elegante, con in copertina  l’Amor vincit  omnia di Caravaggio ed in quarta una delle poesie più contaminanti sia a livello contenutistico che formale. Una plaquette che, con il suo prodromico impatto, ci invita a sfogliarne le pagine per avvicinarsi alla sostanza e potenzialità creativa di Giorgina Busca Gernetti. Amores, il titolo; richiamerebbe all’opera di Publio Ovidio Nasone, considerando, per di più, la frequentazione letteraria dei classici, e il saggio uso che la Nostra ne fa nel riattivare il loro messaggio in chiave moderna. Originariamente l’opera dello scrittore latino era composta da cinque libri, in seguito ridotti a tre, come il numero delle sezioni di questa silloge: Eros, Meminisse iuvat, Amores. Ma è necessario dire, da subito, che mentre in Ovidio si tratta di elegie, poesie d’amore, d’occasione ed epicedi, privi di pathos e di una figura femminile a dare unità all’opera (c’è una Corinna con contorni molto vaghi e appena accennati), nei versi della Gernetti avviene il contrario: c’è un lui e c’è una grande forza spirituale, umana e passionale a fare da leitmotiv, a conferire organicità e compattezza all’ensemble del “Poema”. Un amore plurale, di grande forza attrattiva. Quindi lavoro personalissimo a livello strutturale e vicissitudinale, vissuto e ri-vissuto con grande rendimento creativo. E proprio da qui, da questa citazione testuale vorrei iniziare, da questa poesia che tiene in sé tutta la duttilità lessico-fonica e euritmica; tutta la generosità semantico-allusiva dell’Autrice:

Eri di fronte a me; eri vicino
tanto da inebriarmi
con l’ardore improvviso del tuo sguardo.

Ho tremato. Ho temuto
che le tue braccia mi stringessero
come l’edera verde
s’avvolge al tirso, come il molle acanto
recinge d’armonia
un’erma solitaria in un giardino.
Perché ho temuto ciò che anch’io volevo?
(…)
Nella penombra del viale deserto
ti allontani in silenzio,
forse tremando ancora come io tremo.
Forse anche tu rimpiangi quell’istante
non còlto per la  nostra esitazione (Esitazione).

Una poesia ampia, distesa, folta, i cui versi, con la loro eufonica armonia, cristallizzano gli abbrivi emotivi della Poetessa. E lo fanno con la solita architettura metrico-verbale con cui Ella si dona al canto; un intreccio di endecasillabi e settenari tra loro legati da un inanellamento di Enjambements che volge ad una narratologia di grande intensità umana; tutti motivi ispirativi, tutte risorse poetiche che ho avuto il piacere di sottolineare più volte nelle mie letture: memoriale, panismo simbolico, equilibrio fra dire e sentire, versi dalla solida tenuta euritmica; e qui amore; Eros; dacché di un canzoniere si tratta, di un canzoniere d’amore intriso di speranze, decisioni, indecisioni, melanconie, timidezze, che, poi, alla fin fine, combinate insieme, tanto hanno a che vedere con la vita, col suo consumarsi terreno fatto di minuzie, e di grandi eventi, ma soprattutto di slanci verso zone inarrivabili, verso azzurri indefinibili per il nostro essere umani. Per la nostra diatriba ontologica, pascaliana fra  rien et tout, fra la nostra terrenità e la proiezione dello spirito oltre gli orizzonti che demarcano la nostra vicissitudine. Quindi un canzoniere che si fa, con la sua complessità esistenziale, foriero di una plurivocità emotiva che si amplifica, e che si estende, pur personale, alla storia di ognuno di noi. Un crescendo verso un eterno che tradisca la precarietà del nostro esser-ci. Questo il grande merito. Di parlare a tutti, o meglio ad ognuno, con un messaggio di perspicua sapidità disvelatrice. La Nostra ha covato nell’anima immagini e sguardi di antiche stagioni; un volto che, decantato in alcove premurose,  torna a vita rivestito di stati d’animo nuovi, rinfrescati, ingranditi, anche, dacché l’immagine è sempre qualcosa in più della cruda realtà.  E la natura occupa un ruolo determinante nella vis creativa della Nostra, facendo da supporto concretizzante a una necessità di parlare; ad emozioni con cromie e figurazioni che diano sostanza al sentire: l’edera verde, il tirso, il molle acanto, l’erma solitaria in un giardino, il viale deserto, rappresentano visualizzazioni di desideri, solitudini, esitazioni, rimpianti di una storia mancata, sofferta. Afferma un poeta francese (Ronsard): “L’amour fait d’un actime son eternité”. Ed è proprio quell’attimo fuggente, quel momento sfuggito, a bussare al nostro cuore per dire che esiste con tutta la sua potenzialità. Determinando rimpianti, anche, per una esitazione umanamente comprensibile; nostalgie, melanconie che si tramutano in terriccio fertile pour des fleurs de poésie in cui permane Solo un’immagine a nutrire  e saziare un animo tutto vòlto a una celeste illusione; l’amore non teme barriere né spazi infiniti; neppure la  morte. Un’aspirazione a spazi eterni, ad un Eros che può vincere con la sua potenza rievocativa le sottrazioni di Thanatos. Un amore “che veglia lontano, che soffre” e che arriva ad odiare le pareti “che incombono sull’animo,/ duro carcere buio/ per una colpa sconosciuta/ da scontare per giorni inesorabili,/ grigi di piombo”. Dove l’animo stesso denuncia il bisogno di un metro più libero, di un verso meno vincolato a canoni metrici, per esternare tutta la sua intensità epigrammatica, tanta è l’urgenza di dire. E lo fa con picchi poetici di rara bellezza:

Buia è la  vita senza amore, è vuota
come guscio, in inverso, di cicala
che con il canto l’estate allietava
nell’ardente calura (Senza amore),

lo fa raffigurando questo stato emotivo ora in un’eclissi:

L’eclissi dell’amore
nuda riduce l’anima,
senza più speranza di foglie
tenere e verdi,
senza più fiori
né profumata primavera (Freddo),

ora in un’immobile Erinni

La disperazione,
muta ed immobile Erinni,
starà sulla soglia
della vita che spegne il suo lume,
della morte che annienta (Verrà la  morte),

che assume il significato di una contrapposizione, di un un polemos degli opposti di  sapore eracliteo fra vita e morte, fra luce e buio, fra gioia e dolore; e si sa che sta tutta nello scandalo delle contraddizioni l’anima della poesia;

ora in un lago:

Il lago
fremeva e s’increspava
sotto lievi e sonore
folate di vento
(…)
Le tue parole
cadevano dolci nell’aria,
dolci a udirsi
per chi le bramava
e temeva
che non fossero vere,
che tutto fosse solo un sogno
labile e lieve (Sulla riva del lago),

dove la natura, umanizzandosi, freme e si increspa in un tempo imperfetto che sembra dare perpetua continuità all’azione;

ora in un tiglio:

Ricordi quel tiglio odoroso
dalle vivide foglie?,

dove il memoriale si fa alcova, riposo edenico per un’anima alla ricerca di sé e del suo bene.
 Finché tutto si fa presente, vita; tutto dà segno di forza ed immortalità; un’ascensione spirituale che dal dolore giunge a quel dio eterno che è Eros:

E’ un dio immortale Eros, il Fanète
che rivela ed illumina l’immenso.
Non può morire la forza vitale
che l’universo genera e sostiene,
perpetua dei viventi ogni famiglia
ed anima lo spirito (Non è morto l’amore).

Quel dio che Lucrezio immortalò nel suo Inno a Venere:

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quotiamo genus omne aniumantum
concipitur vitisque, exortum, lumina solis,
te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli,
adventumque tuum, tibi suavis daedalatellus
summittit flores, tibi redent aequora ponti
placatumque nitet diffuse lumine caelum.

Nazario Pardini

  

1 commento:

  1. Meraviglioso commento!. Gratias ago plurimas excellentissimo Nazario.
    Giorgina BG

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