mercoledì 7 gennaio 2015

A. MOSCA MONDADORI: PREFAZIONE A "POESIE" DI NINNJ DI STEFANO BUSA'"

       


Ninnj Di Stefano Busà collaboratrice di lèucade
PREFAZIONE
(di Arnoldo Mosca Mondadori)


Leggendo i versi di Ninnj Di Stefano rimango continuamente stupito.  
La sua poesia è come parola che torna a dare vita al mondo.
Come se la poetessa avesse uno specchio profondo, dove il mondo si sia immerso nel tempo e nelle parole potesse di nuovo prorompere, appena nato. La parola spesso diventa altissima, per dare la possibilità a ciò che ha perso senso di ritrovarsi. Ed è forse solo per questa ragione che può nascere ancora la poesia: dall’anima dell’uomo, da luoghi profondi e inaccessibili, risale il significato della creazione. Così la natura si rivela nelle sue minime manifestazioni e si  sente vibrare la sua grazia. Forse nella parola di Ninnj Di Stefano vi è qualcosa di miracoloso, una specie di patto segreto con la natura e il suo respiro. Alcuni versi sembrano volersi scolpire, come strumenti di rivelazione e di pace:
 “Si spengono i violini dentro la carne”
 “Ti aspetto in punta al cuore, come un richiamo di luce”
 “Ti parlo a un passo dalla carne”

I brani di alcune poesie sembrano poi scaturire come gemiti dello spirito, come enunciati di grazia:
 “Scorrerò l’enigma dei deserti
per riscoprire cattedrali bianche,
o la voce dell’infinito, nel dono
di un pensiero che si levi a Dio.”
            **** 
“S’impiglia l’anima, come una cometa
che filtra il grido della luce e si fa
spora d’altri cieli,
o appena oblìo in calici di brina.”
La sua scrittura non cede mai a nulla di retorico. L’autrice sembra rispondere sempre a un’esigenza di volumi bilanciati. Anche quando le immagini si ammassano riescono a snodarsi sempre, come fossero un groviglio di fiori che sanno poi naturalmente separarsi. In questo senso la scrittura sembra molto vicina agli stessi processi che danno vita alla natura e ai suoi misteriosi andamenti.
 “Tu parlami di soffi appena in boccio,
di conche di basilico e di menta.
La parola che sciogliemmo al vento della sera,
ha steli di magnolia e filigrane, farfalle
che inazzurrano gli orli della terra.”
 La solitudine della poetessa la aiuta a osservare i minimi mutamenti di un mondo di grazia e di dolore, ma non è mai una solitudine che si ripiega su se stessa, è piuttosto qualcosa che trema, che si innalza come una specie di preghiera.
 “Abbruna ora l’infanzia che progettava
pagine di cielo e latte appena munto
all’albeggiare lieto delle labbra.
Resiste solo il frullo d’ali,
qui, dove il dolore è più mite.”
Le poesie di Ninnj Di Stefano Busà potrebbero essere poesie scritte migliaia di anni fa, perché in esse sono nascoste le verità che ci appartengono. Proprio oggi, mentre siamo invasi e tempestati da messaggi web, e-mail e social-network di ogni tipo, avere tra le mani questo libro è un immenso dono. Leggendo avverto il volo di un insetto, l’umore dei fiori e della terra, il senso del sole. Ecco ancora il mondo, con la sua anima lenta, capace di attendere infinite stagioni ma anche con i suoi istanti improvvisi - di una velocità e immediatezza che nessuno può cogliere se non lo sguardo del poeta. Ma non è tecnologia, è altra velocità, è pensiero di creazione.


                    
Crescere in verticale,
vuol dire aderire alla vita,
senza la sofferenza,
custodirne il perdono, la verità dell’oltre.
Gaudio? O solo memoria di una filigrana di pace:
la morte non fa paura, addolcisce il dono,
risuscita dal suo apparente esilio ogni pensiero.
Lì è il segno, (pur minimo),
l’evento che riscatta ogni forma circolare
che gira torno torno all’anima
per giungere al punto di partenza.



Oltre la soglia…c’è? Forse?
Anche se non sappiamo...il nostro Dio umiliato

A chi non crede e lo cerca,
a chi finge di credere, ma è sordo ai suoi richiami…




Un attimo dopo la morte siamo nell’ipotenusa,
nell’eclisse più cupa della pece,
il burattino col filo spezzato,
l’occhio cieco della luna che smuore,
(di sua morte naturale, che altro?)
Sei tu Dio l’acqua che tracima?
o il fiume che scorre lento, a fatica,
ma per cotanta sete non c’è acqua a dissetarci.




Chi tu sia carne o eternità
non serve a chiarire il peccato,
ad orientare lacrime e grida del mondo,
profumo dell’unica terra che possediamo,
dell’unico luogo che non conosciamo...
Questo volevi, che gli angeli
reggessero l’inferno con le loro ali? ...
Desti loro il fuoco per ustionarsi,
il dubbio per non credere ai tabernacoli.
Ora l’insonne disperazione apre il vomere:
la terra si accende di amore pagano,
si mimetizza con ali di carta,
l’incipitario rovello della tua assenza,
morte apparente, ci presenta un conto salato.
Solo la pietà ora mostra il suo volto
in cui l’anima si perde.




Il mio verso non ama farsi Poesia,
smagarsi forse, quel tanto che basti
per incrociare il gorgo dei silenzi.
L’infinito nulla “ centuplicato
di una misericordia che non serve
si veste di cielo per adescarci.
Violentemente amputati, ci attrae
la bellezza consumata
delle nostre infinite sfioriture...
Eppure,

pare sciogliersi da qualcuno o da qualcosa
il lievito del mondo.
Ognuno come cristallo si vena del suo male,
rimargina la ferite, si ritrae
davanti all’unica salvezza.






Cercarti senza requie,
a questo ci hai chiamati? Eppure,
in qualche modo è sicura salvezza,
di animale ferito che cerca la sua tana.

Tutto depredato dal profondo,
sempre più frammentato dalla tua assenza
ogni cosa pare sciogliersi dalla sua antica grandezza:
le forme che tu esponi ci danno: scacco matto.



Silenzio che sfiora all’insaputa
ogni possibile segno,
questo voler trovare le orme dei tuoi piedi.
Alla cieca, senza direzione, brancoliamo
in cerca della possibile traccia.



Il Relativo e la Forma incarnati
nell’uomo, nel suo primordiale morire,
                                 nell’infausta solitudine dei vivi,
il frammento della mortalità.

Ogni cosa attratta dalla luce
si fa Luce essa stessa, creatura a tua immagine,
per reggere l’impatto coi cieli,
senza precipitare...




Dal cratere di dolore,
dalla sostanza atomizzata emergiamo,
talvolta,
per annegare nel magma delle nostre piccole morti,
con una intemperanza che ci fa nudi,
carne di ogni cielo, o forse solo,
punto focale di ogni resurrezione...



L’uomo si cimenta ogni giorno
con l’orgoglio, precipita nel fondo
della disperazione, si fa murena senza mare,
traiettoria di vento, ala di colomba e corvo
per una ipotetica salvezza.


Ci hanno detto: “morto per rinascere alla necessità
della nostra salvezza”, non ne vediamo
il miracolo, ne intuiamo solo l’intenzione.



Straripiamo nel fuoco della miseria,
che ci affolla segretamente ogni morte.



La vita non può essere ciò che trapassa,
senza perturbamento...
Perciò mi parli anima mundi,
pienezza di soffi e brezze
che l’onta perdona di ogni nefandezza,
distillato di rovi,
tutto il patimento si contrae sul tuo volto.



L’inconoscibile che fiorisce e fruttifica.
Eppure, spendiamo ogni luce nella profanazione,
a cercarti, a chiamarti,
mentre perseveri nel dono di salvezza:
sei la spiga e l’ombra, lo stelo e la rosa,
la grazia e il perdono. Ma dove sei?

luce nella luce,
essenza creaturale dell’essere(ci).
vigilia d’avvento che divora la morte...



Pane e miele alla tua mensa,
non abbiamo altro luogo, all’infuori
della cittadinanza celeste, accoglici.
proteggi la nostra ignavia... 

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