lunedì 13 aprile 2015

N. PARDINI: LETTURA DI "DI STANZE E VOCI" DI A. MAGNAVACCA



 Anna Magnavacca: Di  stanze e voci (poesie ritrovate 1959-2014). Edizioni Helicon. Arezzo. 2015. Pg. 128

Tanta spontaneità, tanta semplicità, tanta effusione di amorosi sensi, in queste composizioni che riguardano rimembranze e non solo degli anni passati della nostra scrittrice. E per un critico che ha seguito i diversi momenti del suo percorso stilistico, viene da sé fare un raffronto. La conclusione è che in questa silloge sono già presenti, in nuce, tutti quegli stilemi emozionali,  contemplativi, e fonici che caratterizzeranno, in maniera più evoluta, il panorama contenutistico-formale di Anna Magnavacca. E credo opportuno rifarmi a due citazioni, in particolare, per dare sostanza alla mia lettura:       
Anassimandro: “..Principio di tutte le cose è l’àpeiron (infinito, illimitato, indeterminato) che comprende in sé tutte le cose e a tutte le cose è guida. Immortale e imperituro. Da dove infatti gli esseri hanno l’origine lì hanno anche la distruzione secondo necessità…”.
Socrate: “..Conoscere è ricordare..”.
Perché queste due citazioni. È presto detto: lì è la poesia di Anna. Da queste sorgenti zampilla. Da questi rivoli parte per confluire nel grande fiume dell’anima, della vita, dell’esistere. E cosa è questa misteriosa e quanto mai antica arte se non che memoria? e che cosa se non che volo, aspirazione, azzardo fonico-verbale verso azzurri che dilatino all’infinito la nostra immaginazione?  E tutto prende forma da una realtà contingente, quotidiana, minima che ci dà la consapevolezza delle nostre miserie; delle nostre ristrettezze; dei quadri, anche, che luccicano nella loro pienezza simbolico-rappresentativa: Burrasca, Il tempo, Attesa, Alba, Nella strada, Alle acacie…:  

(…)
Tutto è fragile come voi.
Soprattutto l’effimera felicità dei viventi,

dicendoci di quanto  grande sia l’amore, e di quanto sia appesantito il nostro animo dalla sua presenza che aumenta a mano che le lontananze del luogo e del tempo ci separano dalla fonte. È da quelle che partiamo, è da quelle che sentiamo il bisogno di elevarci ai disegni imperscrutabili che tengono volti, suoni, e immagini sfuggitici e che tentiamo con forza di ricuperarli al nostro esistere. Volti di padri, di madri, di amici; suoni di voci uscite da antiche primavere, di suoni ascoltati in decadenti autunni che tornano con evocazioni assordanti per dirci che esistono; e che hanno covato nella nostra anima per tempi immemorabili. Eccolo l’àpeiron verso cui cerchiamo di volare. L’apertura che contrasta con ogni forma di chiusura;  quel mare senza limiti che tanto sa d’infinito; o quel cielo sfacciatamente azzurro con cui ci misuriamo a rischio di perdere la nostra identità. D’altronde è il cruccio di noi esseri umani quello di esistere come piccole larve con occhi che guardano lontano. Qui è l’ossimorico travaglio della  nostra terrenità; della miopia della nostra vista nei confronti del tutto. E allora ci aggrappiamo alla memoria, al repêchage di fatti e parole per sottrarli alle fagocitazioni del tempo; forse così, col tenere in vita amori plurali, totali, ci illudiamo di vincere quella clessidra che ci misura; di perpetrare oltre, tutto ciò che è relegato al consumo dei giorni:

Una valigia di ricordi – fiori lontani –
ma i ricordi pesano e la valigia
diventa pesante, troppo pesante
nel breve spazio di una vita.
Dimenticherò la valigia
i miei girasoli no.
Non può il ricordo spegnere
quella luce che incanta la vita (Nuda s’alza la vigna).

Rientra nelle corde di Anna rivolgersi alla natura a che concretizzi in vece sua le forti vibrazioni vicissitudinali. È a essa che affida questo compito di intima metaforicità; una vera fusione metamorfica fra gli elementi figurativi e gli intenti emotivi della Nostra:

(…)
La sera  non vedo stelle fiorite
ma soltanto un cielo freddo e lontano.
Qualche volta mi tiene compagnia 
un misterioso fiore
che si sfoglia lentamente.

Franati i giorni di girasoli e papaveri… (Si parlava…).

Solitudine,  malinconia, sentimento di dolce saudade che scorre  nel substrato della stesura poematica; ed ogni elemento concorre ad uno scopo: a ritrarre, a mettere sulla carta un’anima con tutti i suoi travagli esistenziali. Un realismo lirico di efficace resa melodico-ontologica. Punte di vis creativa che oggettivano con sperdimenti emotivi il fatto di esistere; e in cui è facile per ognuno di noi ritrovarsi.
Sì, riconoscersi in questo diario polimorfico; in questi appunti di vita che tanto dicono, con la loro spontaneità e il loro caldo disordine, di questa vicenda irripetibile; della scia che lascia ogni giorno a noi poveri mortali spersi fra cielo e terra:

(…)
Sempre al solito anche la mia casa.
Libri ovunque e montagne di parole
un po’ azzurre e un po’ nere.
In fondo-nel mio profondo- amo questo
disordine di cose di spazi di parole
e l’ombra invecchiata di un violino
che sale… sale e s’impiglia con il cielo.


Tutto mi parla della vita (Forse è vero…).   

Nazario Pardini

Nessun commento:

Posta un commento