giovedì 9 luglio 2015

N. PARDINI: LETTURA DI "NELL'INCANTO" DI MAURIZIO DONTE

Nell'incanto 
selezione silloge per stampa


Molto breve sarà la mia stagione:
fiorirò come la rosa di maggio,
e null'altro resterà di me
se non l'onore ed il coraggio.

Maurizio Donte




Maurizio Donte: Nell'incanto


III-Bolero

Vaga sulle onde un fremere d'incanto,
mentre trema la luce della Luna
e alzo nel vento a te un notturno canto
che flebile s'inizia sotto il cielo;
con arte io vengo a te, mia sola amata,
tu danzi quasi fossi una sirena
nel mare dell'estate che è passata.
Mi ricordo il motivo della danza
ed il tuo passo al muoversi del suono,
lento Bolero, dentro la risacca,
in languide movenze d'abbandono.

Iniziare da questa citazione testuale significa andare a fondo, da subito, nella epigrammatica vicenda del canto di Maurizio Donte. Un canto dolce, estremamente musicale, nutrito di cospirazioni emotive di grande abbandono erotico-intimistico, dove il verso, con tutta la sua potenza ermeneutica, si fa corpo risolutivo degli abbrivi vitali del Poeta. Sì, c’è l’amore, vissuto con plurima collaborazione panica, con espansioni iperbolico-allusive, e con abbracci semantici di urgente vocazione narratrice, ma un amore plurimo, totale, universale che coinvolge la vita nella sua polisemica significanza: il sogno, la realtà, il tempo, la memoria, la pace, la società e quell’inquietudine che nella poesia si fa flauto sotterraneo ad accompagnare il fluire dello spartito: “Mi ricordo il motivo della danza”, una rievocazione che si traduce in alcova rigenerante, in edenico ritorno, in visione incantatrice trasferita in mondi dal sapore neoplatonico, dove tutto è leggero, inviolabile e sonoro come una musica sublimante. Ed è l’endecasillabo - trattato in tutte le salse, in tutte le sue tonalità, a maiore, a minore di sonetti ed odi… - a evidenziare l’esperienza metrica del Nostro; la sua abilità versificatoria, aduso, Egli, al verso nobile del canto: “con arte io vengo a te, mia sola amata,/ tu danzi quasi fossi una sirena/ nel mare dell'estate che è passata”. Un mare d’infinita portata, i cui orizzonti si estendono fino all’inverosimile, fino a traguardi a cui l’uomo non può allungare lo sguardo, data la sua pochezza. E il Poeta è cosciente della futilità del tempo, del gioco delle sue fauci, della sua rapacità e voracità: “E vano è lo sperare che ritorni:/ rapido fugge il tempo tra le dita.”, per questo si affida al memoriale, a quel “passato” che tanto vorrebbe riattivare “in languide movenze d'abbandono”; a un eros che, comunque, non circoscrive il panorama ispirativo del Nostro; dacché la perlustrazione ontologica delle piecès e lo scavo analitico si estendono, a tutto tondo, al bene e al male della vita, col ricorso a uno sguardo impegnato e addolorato su tutto ciò che crea sofferenza; su tutto ciò che si allontana dalla fraternità, e dalla umanità, visto che “Non più vi fosse guerra, ma fraterno/ amore” è l’auspicio più sentito del Poeta:
       
Scende la nebbia e dentro rasserena,
fuori nasconde quel che mi fa male:
ogni pensiero ed ogni sua catena;
l'inutil dire, quello che non vale.

Solo il silenzio, quando il Mondo tace,
spiega la vita, quello che la segna.
Vorrei la Terra fosse tutta in pace
e del Divino amor che fosse degna.

Non più vi fosse guerra, ma fraterno
amore. Si alza invece quel fragore
d'armi che lentamente mi corrode.

Guardo là fuori e l'anima si rode
per tutto il sangue, tutto quel dolore,
io non ho voce e scende già l'inferno.
        
Sentimenti forti, di urgente resa poematica, che confluiscono in un climax esteso e variegato; in un climax che dall’empatia di un animo emotivamente coinvolto si distende fino ad un acuto dolore per un esistere lontano da ogni cosa buona: “Talvolta stanco son di questa vita/ che erra lontano da ogni cosa buona./ Rapida fugge e passa fra le dita,/ senza che nulla la rallenti e suona…”; per tutto ciò che è ingiusto e distante dall’amore; per tutto ciò che di brutto l’umanità ci offre: “Viviamo nella tenebra più oscura,/poca speranza ormai mi lascia il mondo:/ la vita di nessuno è più sicura/ e va l'umanità cercando il fondo…”.  Scoramenti, illusioni, delusioni, gioie, dolori, speranze, e abbandoni: tutto si alterna in maniera piacevole e contaminante e tutto  è affidato all’ausilio di una natura che con i suoi fremiti di nebbie, tramonti, albe, verdi primavere, o autunni decadenti, concretizza e rende visivi gli input emotivi di Maurizio Donte; quegli input che non di rado fanno apparire pessimistico l’animo del Poeta, ma che, al fin fine, lo portano ad inginocchiarsi di fronte alla grandezza dell’Eterno:

Dall’infinito ascolto la Tua voce,
mentre nel vento si ode suono d’onda,
che viene e frange e fugge poi veloce,
da quelle rive, dove il male affonda.

Scivola l’acqua e torna sottovoce
dentro il mare, che sempre l’asseconda:
è questa vita, solitaria croce,
non ho certezza in me così profonda.

Naufraga il dire, mentre il tempo passa,
ed ogni giorno, svelto, torna a sera:
muore speranza ed il domani è vecchio.

Vedo i contorni sbiadirsi allo specchio,
ma nel silenzio quel Tuo dir s’avvera,
se la mia fronte innanzi a Te s’abbassa.

Nazario Pardini 










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