giovedì 17 settembre 2015

N. PARDINI: LETTURA DI "L'ABBRACCIO" DI M. BARDOTTI




Massimiliano Bardotti: L’abbraccio. FaraEditore. Rimini. 2015. Pg. 64. € 10


Poesia segmentata, frammentata, incisa da rattenute, riprese, da frasi a sé stanti, apodittiche, parenetiche, e conclusive, dove il verso, con energica forza verbale, abbraccia cospirazioni di natura sociale, umana, esistenziale, onirica e memoriale. Qui c’è la vita con tutta la sua forza motrice. La terrenità, di cui l’Autore si sente parte, e in cui rinviene la storia delle sue radici: “Ma io amo la terra che fu di mio padre”; l’amore: “Mi tiene la mano/ stretta sul cuore/ una piccola fata”; e tanta spiritualità che prende il via dalle cose minime, da quelle che osserviamo, se vogliamo, in ogni angolo del nostro vivere: angoli di strada, donne nella  notte, altalene nel vento, albergo a ore, affollate stagioni, la cicala che canta, l’aurora celeste, l’urlo del mare, la gente comune, i sofferenti, gli esclusi “La Classe Operaia sta ancora aspettando il Regno dei Cieli”, dove ogni sprazzo della vicenda dà corpo ai battiti diastolici di un cuore spesso inasprito dalle aporie della società; un dire anche ironico, sarcastico, ma mai violento, mai giovenaliano, anche lirico, spesso, in abbandoni a naturismi di simbolica efficacia: “Stiamo appesi alle grondaie/ come gocce di una pioggia che non cade./ Come alibi di nuvola/ se il  sole le sorprende e le sgomina”. Un viaggio, un odeporico travaglio, che attraverso tappe di riflessioni e pensamenti, va in cerca di una luce che illumini il cammino; di una luce che rompa le brume di un autunno tanto simile al redde rationem della vita; di una luce più vicina di quello che si pensi: “Dio è nelle cose più semplici”; direbbe Du Bellay: Felice come Ulisse chi ha varcato i mari, o chi fino alla Colchide si è spinto, Giasone, che poi tornando esperto e ricco di ragione il tempo che gli resta si gode fra i suoi cari!”. E il tutto con una metaforicità e un insieme di figure iperbolico-allusive che rende originale e personale l’architettura stilistica del Nostro; la geografia fisica di un poema aperto a parate di senza tetto, a invidia che corrode, a saudade, dove “un misero bacio può farti perdere la rotta/ nelle partenze e nei ritorni”; e dove il passato, col suo fardello di promesse, speranze, illusioni e delusioni, sta aggrappato al nostro animo facendoci prigionieri: “Un passato di speranza/ che ci rende prigionieri”. Quel passato che ci dà l’idea della nostra precarietà, della nostra fragilità nei confronti di un presente che mai si fa vedere in faccia per delle soluzioni ai nostri irrequieti perché. Resta un racconto abbondante, plurimo, folto di padri e di madri, di affetti e rimembranze, che da soggettivo si rende plurimo, totale, dacché ognuno di noi vi legge una gran parte di sé:

Mio padre era nel sindacato
combatteva una guerra di contratti.
Nessuno sparava
eppure moriva un sacco di gente.
E tu nascevi     
bella come i fiocchi di neve
che cadono ad agosto
in una città sul mare.
Tu nascevi
nuda e vivace.
Rimasero tutti di sasso.
Una femmina elegante
il portamento di una regina…

E soprattutto vi legge il tempo che fagocita tutto: il bene, il male, il giusto, l’ingiusto, l’ordine e il caos:

L’eterno
non è di questi tempi.
Il principio
la fine
ci stiamo in mezzo.
La notte?
Una scommessa…

Per cui lo stesso amore sembra languire nell’eterno cigolio:

Un pasto nudo
nel letto disfatto
di notti vibranti
di gonne tirate sui fianchi.
L’amore veloce
che scalda l’inverno
e muore
lamento
nell’eterno cigolio.


Nazario Pardini 

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