sabato 12 dicembre 2015

N. PARDINI: PREFAZIONE A "DA OMBRE E MEMORIE" DI P. SCATENA



Prefazione a Pierangelo Scatena: DA OMBRE E MEMORIE. ETS. Pisa. 2015

Si sta in questa luce soffusa
che illumina d’ombra i pensieri,
si cerca un motivo o una scusa
disposta ad assolvere ieri…

Questi i versi incipitari di un “poema”, che, con tutti i suoi affondi analitici, ci offre una visione di efficace plurivocità sull’essere e l’esistere. Qui la voce dello scrittore. Qui la sua anima; la sua meditazione intimistica alla ricerca di una verità difficilmente raggiungibile data la pochezza del nostro essere umani.
Qui l’eufonica armonia di un canto che fa della parola il tutto; dei suoi sintagmi tasti di un piano per intermezzi da Manon Lescaut: le parole "Mostrano il loro legame con la musica... La parola nasce dal ritmo, come la musica. La poesia utilizza il ritmo in modo letterale e la filosofia, che non canta, si muove sulle tracce del ritmo e attraverso di esso vede. Vede il Ritorno. Vede l'Enigma"  afferma Carlo Sini; il viaggio; quello della   silloge di Pierangelo Scatena che si distende su uno spartito vario e articolato dove les pièces, con euritmica sonorità, si fanno concretezza di un sentire carico di vita. Sì! Qui c’è la vita con tutta la sua polisemica significanza: l’amore, il  sogno, il memoriale, e la piena coscienza di un tempo fuggevole e ingannevole; di un tempo che passa portandosi dietro gioie, speranze, illusioni, delusioni, fughe e ritorni in un confronto assillante fra l’esserc/ci e la morte. « Il male, dunque, che più ci spaventa, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c'è lei, e quando c'è lei non ci siamo più noi » affermava Epicuro. Ma è proprio quel patema a regolare gran parte delle riflessioni e dei modi di vivere. E in questa plaquette sono tante le immagini scampate a Thanatos e rimaste a riposare nell’animo del Poeta. Immagini che dopo lunga decantazione tornano a vivere cariche di nuova empatia; di suggestioni e fremiti che arricchiscono il logos del canto. Parafrasando Jules Renard, possiamo dire che nella casa della poesia la stanza più grande è la sala d’attesa. Una sala che si fa patrimonio del nostro esistere, a cui attingere sempre più frequentemente col crescere delle primavere. Ed è proprio il memoriale, che,  sempre più pesante nel tempo, ci suggerisce ombre e luci, voci e volti divenuti substantia di un percorso vicissitudinale carico di pathos. Il Poeta se ne fa carico, lo rivive con saudade, senza mai scadere in una lamentatio becera e melliflua; evitando insidie di luoghi comuni, armamentari retorici ed epigonismi. Dacché è il suo stilema innervato di figure lessico-foniche e iperboliche, di costrutti solidi e originali, a fare da argine a tanto sentire:

Come specchio riflesso da uno specchio
il mio nulla compongo.
Mi sgrano in questi giorni di dicembre
ad uno ad uno tesi            
alla fine dell’anno,
ai doni del Natale, a rare feste
che accendono memorie.
Si rimpiangono assenti,
le notizie di chi non ci ritorna,
la poca vita d’altri che fu nostra
e lentamente smuore.
Mi stringo dentro un attimo di freddo,
divento assai più piccolo
di quest’anno che ormai corre alla fine.

Un inanellarsi di settenari e endecasillabi che accompagna, come una romanza di melodie ed acuti, un melanconico iter attraverso luminose o brumose tappe che hanno segnato tutta una storia. Sta qui la grandezza di questa silloge, nella sua urgente confessione, che, giorno dopo giorno, trova parola, logos, innesti, insiemi di cospirazioni verbali per dare corpo e visività ad un’anima carica di tensione orfica, dai toni, anche, epico lirici. Un equilibrio fra dire e sentire che è fondamentale per una buona poesia. Per un  canto che ricorre a tutti gli stratagemmi metrico-sonori per allungare lo sguardo oltre. Oltre il verbo e la sintassi stessa dacché il lemma tradizionale non è sufficiente a coprire gli spazi che la poesia chiede; ed è così che assonanze, consonanze, allitterazioni, allusioni iperboliche, rime, metonimie, anafore, e tanti accorgimenti stilistici permettono di allungare il tiro oltre la demarcazione fra umano e disumano,  dicibile e indicibile:

(…)
E sono calmo. Sono come sempre
vicino al mio sorriso, all’indicibile (Stasera con il cielo).

Fino allo smisurato affollamento di canzoni e speranze, di corse in fuga e amici ritrovati che ritorna vivido con polisemica potenzialità creativa:

A volte e all’improvviso
giunge la tua memoria ad incontrarmi.
Mi sembra allora di volerti dire
come tutto ci perde e lascia un segno
che più a lungo scompare.
Le tante strade che vagammo assieme,
la tenerezza che ci scambiavamo
quando poteva il gesto ammorbidirsi
nel cavo dei pensieri,
gli incontri fine pioggia, il cineforum,
canzoni anni sessanta, le speranze
discusse fino all’alba,
le corse d’auto in fuga verso il mare,
gli amici ritrovati ed altro ancora
che attorno mi riaffolli… (Come sarà).

Un memorare caldo e impetuoso. Un concatenarsi di fatti e profumi che fanno volgere la mente indietro per ripescare almeno le rimanenze di quello che fu. E il tutto che fluisce in un lirismo di coinvolgente spessore; verticale e orizzontale, dacché la poesia del Nostro è di una epigrammatica forza analitica che si trasferisce agilmente nelle vicende di ognuno di noi; in quello che ora siamo:

E siamo qui al calar di prima sera,
cullando un infinito che dispera
sull’ondeggiante limite del mare
e sull’estremo nostro navigare.

L’errore di noi stessi è in ogni cosa
dove la mente posa.
 Nell’oltremondo ormai ci apparteniamo.
Azzurro il cielo, azzurro il tuo vestito,
ma quell’incanto che era in noi, svanito.

E il mare ci racconta cosa siamo:
questa è la terra, questo il divenire
e il nostro un altro inutile sfiorire (Cosa siamo).   

Sì, questo siamo. Un momento passeggero in un cosmo che indifferente gira e si muove provocando col suo agitarsi il nostro inutile sfiorire. E anche se tutto è azzurro, - azzurro il cielo e azzurro il tuo vestito – manca quell’incanto di un’età che il tempo ha fagocitato
con la sua rapacità. Un filo di pessimismo nel sottofondo dell’opera scorre facendo da leitmotiv. Ma bisogna anche dire che il tentativo c’è, nel Nostro, di oltrepassare la caducità del tempo e del luogo; per affondare il suo essere laggiù, nel notturno sussurrio delle stelle; oltre gli orizzonti che demarcano la nostra precarietà; laggiù dove il cielo finisce:

Immergermi laggiù
dove il cielo finisce,
dove tu sei lontana
come dietro la vela
la sua scia che svanisce (Laggiù).

Per ritrovare alfine quella parte di sé che lo completi “… prima che il ricomposto/ sereno della notte lo (ci) cancelli”.    

Nazario Pardini 















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