mercoledì 11 maggio 2016

FRANCO CAMPEGIANI SU "FERMATA DEL BUS" DI CLAUDIO FIORENTINI

Franco Campegiani, collaboratore di Lèucade

Claudio Fiorentini, collaboratore di Lèucade




Fermata del bus, di Claudio Fiorentini
(Ciampino, "Il Piccolissimo" - 10 / 05 / 2016)

Fermata del bus, di Claudio Fiorentini, è la storia, scritta in prima persona ma non autobiografica, di un manager aziendale cinico, egocentrico, che, bersagliato da una girandola di amare e comiche vicissitudini, viene infine sopraffatto da una crisi devastante di valori, da cui esce profondamente rinnovato. E' questa la storia, dunque, di uno smarrimento esistenziale che si snoda con vari colpi di scena, in un crescendo rossiniano, per buoni tre quarti del libro. Ma è anche la storia di una rinascita interiore, di un'innocenza ritrovata, che prende corpo nelle ultimissime pagine con parole sobrie e senza indugi retorici, in una disarmante semplicità.
Il protagonista non ha nome, è un uomo qualunque, uno dei tanti di cui la storia non parla (e neppure la cronaca), la cui humanitas è comunque paradigmatica. E' l'esempio vivente di ciò che dirà un personaggio secondario del testo il vecchio, leggendo ad alta voce alla fermata del bus: "Vedete, si può essere un uomo insignificante, un pessimo marito, un padre mediocre o una nullità al lavoro, ma c'è sempre un momento, un magico momento in cui qualsiasi uomo, per quanto il suo passaggio sulla terra possa apparire inutile, si annovera tra i molti eroi che popolano questa terra e di cui non si sa nulla".
Fiorentini ama i toni bassi, non quelli ridondanti e retorici, non i compiacimenti sentimentali e patetici, e presenta con asciuttezza, con moderazione, il rinsavimento di un uomo che, dopo tanto squallore, ritrova il gusto per la vita, per le cose semplici, per i sentimenti puliti, elementari. Ed è la stessa misura con cui tratta, nel primo tempo del racconto, situazioni squallide e grette, scene morbose, rancorose, dense di meschinità. Neppure in tal caso l'autore indulge agli eccessi, al gusto per il tragico, per il fosco, per i turbamenti psichici. La scrittura è lieve, sobria, limpida e frizzante, piacevolmente incline all'umorismo sottile e surreale.
La seriosità è al bando (la serietà è un'altra cosa). All'autore piace giocare, ma il suo - ce ne rendiamo conto pian piano nel corso della lettura - è un gioco serio, non un gioco puramente evasivo. Lo svolgimento è cronachistico: praticamente  un diario, distinto per i vari giorni della settimana, la cui azione si protrae per tre settimane, con un'appendice brevissima che ritrae l'autore ad un anno dalle vicende narrate. Scrittura spassosa, esilarante fin dalle prime battute. L'auto del protagonista, finita contro un albero, è dal carrozziere, così lui è costretto a prendere l'autobus per andare al lavoro. L'azione inizia così.
Sulla banchina incontra gente di cui non avrebbe sospettato l'esistenza, come quel vecchio che legge, appunto, e che sghignazzando annuncia la fine del mondo; o come la signora piacente con cui familiarizza sperando in una tresca amorosa; o come il ragazzino con lo zaino che puntualmente lo spintona, ma con cui si sforza, malgrado tutto, di essere educato. E scopre l'esistenza di una tacita, stravagante e libera associazione, i cui adepti, dietro l'esempio del vecchio, scrivono e leggono a turno le loro storie. Un'umanità che lo infastidisce e che lui cerca di ignorare (con esclusione della signora, s'intende, per ovvie ragioni). Lui non ha tempo da perdere, ma è gente, quella, con cui deve pur condividere quei momenti della giornata. E si sforza di essere conciliante, accomodante, "per non essere scortese".
Questa locuzione, "per non essere scortese", è ripetuta molto spesso nelle pagine del libro, come un ritornello della falsità e dell'ipocrisia, delle sproporzioni tra il pubblico e il privato, della maschera imposta dalle convenienze sociali. "Buongiorno, buonasera, come va?, eccetera": non è vero interesse per l'altro, che in realtà si vorrebbe ignorare e di cui si farebbe volentieri a meno. Non è rispetto, ma adeguamento bugiardo al piattume, alla banalità, allo scialbore. Tutti uguali, tutti fatti con lo stampino, fotocopie l'uno dell'altro, senza autenticità e senza originalità. Il quieto vivere, il livellamento, il ritratto della massificazione e dell'omologazione, della società liquida in cui viviamo.
Amiamo nasconderci, chiuderci nella nostra mattonella, nell'illusione di non avere ripercussioni. Invece le ripercussioni ci sono, perché ci nascondiamo a noi stessi, o tentiamo di farlo con risultati fallimentari. Possiamo infatti nasconderci agli altri, non a noi stessi, perché l'inconscio ci ritrova. L'inconscio non vuole mordacchie e spezza ogni briglia, con scossoni paurosi, con mostri e fantasmi, con esplosioni irrazionali su cui il nostro autore giustamente ironizza per sdrammatizzare. Ed ecco all'improvviso la crisi. Giunge con passi felpati, non la riconosci. Una sensazione di vuoto improvvisa rivela l'insensatezza del tran tran quotidiano: "Mi sento incompleto, mi manca qualcosa".
Per compensare, il protagonista si tuffa nel lavoro, si porta a casa il lavoro, si ritira nello studio, ma è un disastro. Il tablet, su cui sono i dati per lavorare, annega nel caffè e resta inservibile. Il giorno dopo va in ufficio come un robot; poi esce dall'ufficio, va con Lor, una collega, con cui automaticamente consuma un atto sessuale. Torna a casa: solite cose. Si sveglia al mattino: solite cose. Ma se qualcosa di diverso accade, come quella mattina che alla fermata del bus non trova nessuno, se ne rammarica. L'abitudine è una droga, non se ne può più fare a meno. E la sensazione che manchi qualcosa si fa sempre più pressante.
La moglie e l'amante (Lor, che a sua volta se la fa pure col capufficio) sono entrambe incinte. Lui, certo di essere sterile, le tratta da troie entrambe: "Questo mondo ignobile, popolato di cretini e sgualdrine, e io che devo combattere con loro tutti i santi giorni". Intanto però compare anche Ivana, una sudamericana conosciuta durante un viaggio che costituirà il perno involontario del suo rinsavimento. E poi ci sono altre donne, come la moglie del carrozziere e la signora del bus di cui abbiamo parlato, con cui non succede niente, ma che alimentano le sue fantasie sessuali. Oltre alle donne che gli complicano la vita, ci sono altri problemi, come la macchina, la station wagon che, appena ritirata dal carrozziere viene di nuovo ammaccata, per finire poi in fiamme dopo un serio guasto meccanico.
Ed ecco l'orologio svizzero di alta precisione che all'improvviso smette di funzionare. Tutti gli oggetti, tutti i feticci (donne comprese) che riempiono la sua giornata si sgretolano e anche sul lavoro le cose non vanno bene, con il capufficio rivale in amore. La scrittura si fa sempre più nervosa, la punteggiatura ansimante, per seguire l'affastellarsi onirico di tante situazioni paradossali. E di tanto in tanto il vecchio che si tuffa sulla scena con i suoi deliri apocalittici. Per non parlare dell'atletico pedone che chiede scusa per essersi lasciato investire, e ci manca poco che ringrazi i suoi investitori. In tanto frastuono, il protagonista, sopraffatto dal vuoto e dalla noia, dice a se stesso: "Non succede mai niente qui, tutto uguale".
L'assurdo invade le pagine in un umorismo non sghignazzante, ma freddo e controllato. Nel suo ufficio il protagonista piange e si dispera, quindi si addormenta e sogna la sua anima sotto forma di una bionda dolcissima che gli si concede. Prima di andarsene, la donna gli dà una rivista con sei pagine mancanti: sono le foto di Ivana, la sudamericana assassinata da uno spasimante che gliela aveva contesa. E di nuovo il vecchio con la sua fine del mondo: compare e scompare. Intanto, dalle analisi impostegli separatamente dalla moglie e dall'amante, il nostro risulta fertile, non sterile come aveva sempre creduto e sostenuto. Le cose si complicano, con le due donne incinte e con il nostro che ha l'ardire di prendere appuntamento, via internet, con una "bella quarantenne calda e vogliosa".
Una trappola comicissima che finisce in un furto, con la casa devastata e svuotata. Mi rendo conto che sto raccontando tutto il libro e questo non si deve fare. L'epilogo almeno non lo racconto, con la crisi ed il pianto catartico di un uomo che all'improvviso si chiede: "Perché non ci vogliamo tutti bene e la smettiamo di farci del male?". E poi finisce in terra "a fare i conti con se stesso". E' questo che gli mancava, in fondo: la compagnia di se stesso. Lo ritroviamo dopo un anno completamente rinsavito, sensibile alla natura e alla famiglia, rispettoso del prossimo e di tutto ciò che gli respira intorno. Amico anche lui di quell'allegra brigata che passa il tempo a inventare e a raccontarsi storie: usanza che cambia radicalmente la vita di chi la pratica, facendogli scoprire la socialità, qualche valore umano da condividere fraternamente.

Franco Campegiani

    

1 commento:

  1. Eccome non essere contenti di questa bellissima recensione... Grazie Franco e grazie Nazario!
    Spero che chi leggerà il libro vorrà commentarlo!
    Grazie
    Claudio Fiorentini

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