sabato 11 febbraio 2017

N. PARDINI: LETTURA DI "L'ETERNO VIAGGIATORE" DI E. ALOISI

IL POEMA DI EMANUELE ALOISI

Naviga sempre il mare il nostro eroe
le vele dispiegando alle tempeste
nella pretesa d’invocare il fato,
i numi di un Olimpo sulla luna         
ad osservare indifferenti sorti,   
un uomo che combatte solitario…

Un incipit che da subito ci mette in rotta verso porti e fari di un lungo corso: mare, eroe, vele, tempeste, fato, Olimpo, numi, un uomo solitario.
Sono questi i riferimenti che mettono in gioco un allungo didascalico-allegorico di sapore dantesco: un essere che in solitario naviga verso mondi a noi vicini ma partendo da sponde di memoria antica, incarnato nella metaforicità di un Cristo redentore che sembra non sempre volgere lo sguardo su certe tragiche e imprevedibili peripezie del divenire umano.
Un poema di misura classica con tutti gli ingredienti di una modernità turbata, affannata, in corsa verso mete di difficile ancoraggio. Un odissaico travaglio tra mari e coste, tra isole e orizzonti, tra civiltà e personaggi, che ne determinano sostanza e dilemmi.
L’eterno viaggiatore: un titolo appetitoso, invogliante; un titolo polivalente, plurimo se riferito alla vicenda umana; al tema del viaggio, del nostos, nostoi, che coinvolge tutti noi in quanto umani, esseri che su questo scrimolo dell’universo siamo ridotti a vivere, con l’animo intriso di dubbi e incertezze, una storia che ci unisce e ci compatta  o perlomeno ci dovrebbe unire per vincere ostacoli che la navigazione ci presenta in un mare purtroppo disseminato di scogli e di trabucchi. D’altronde appartiene proprio all’uomo la spinta alla scoperta, all’avventura e qui sarebbe scontato tirare in ballo il nostro Dante (Fatti non foste…); è  nella sua natura non accontentarsi degli spazi ristretti in cui vive; ambire a travalicare quelle siepi che delimitano il suo andare; la sua voglia di azzurro. E’ così che il Nostro in un poema di dodici stanze affronta quella navigazione che metaforizza l’iter storico dei nostri affanni: Enea orfano mesto, Ulisse, Nausica,  zattera dell’odissea, crociate ad ostentare l’Ostie, luccichii di armature, simulacri abbandonati al vento, le miserie di un eroe qualunque, un pubblico che accetta patimenti ignaro di fratelli e figli, Olocausti, viaggio amaro, carestie nefaste, eroi innocenti, figli di un Dio minore, viaggio redentore dell’Egitto…, tante vicende vicine e lontane che ci martorizzano  e ci inquietano  per le loro esiziali incursioni. Una sintesi spietata e desolante di un viaggiatore ignudo fra tempeste e venti siberiani; àmbiti di  crudeltà, e ribellioni di una natura che tutto affonda e tutto annienta. E’ sufficiente porre la  mente alle disgrazie ultime avvenute negli Abruzzi per caricare il dosso del navigatore di un peso insopportabile: Amatrice e dintorni: neve, fango, crolli, terremoto, morti… E come non può coinvolgerci una memoria tanto trucida come quella degli interventi nazisti contro gli Ebrei? e come non può quella altrettanto disumana degli infoibati? Proprio in questi giorni ricorre la memoria di quelle due stragi: quella dei campi di sterminio nazista e quella dei dalmati istriani. Quindi l’autore con un linguismo melodico e di euritmica sonorità affronta tale viaggio, cosciente della precarietà del tempo, e delle debolezze dell’umana gente: un ossimorico tragitto, se si vuole, fra l’armonia di un canto affidato ad una narrazione di endecasillabi sciolti, e la tristezza che certi accidents, spesso brutali e incomprensibili, scatenano nella nostra entità di esseri umani. D’altronde l’uomo ha bisogno di dare una giustificazione a ciò che accade; rientra nella sua essenza scoprire, trovare, ricercare, e non accontentarsi del semplice fatto di un accadimento, in quanto tale; ne deve venire a capo; deve arrivare al nocciolo delle cose, scoprirne le cause; sente il bisogno di dare delle soluzioni ai perché di difficile risposta; a quelli che vanno oltre il nostro sguardo bieco e miope. Da ciò l’inquietudine di fronte all’impossibile che ci muove verso i misteri; che si fa molla di scoperte e di azzardi: saudade, malinconia, spleen, weltschmertz; sentimenti che scaturiscono dalla coscienza della nostra insufficienza ma anche dallo spirito d’avventura che è nella nostra natura non sempre vòlta, purtroppo, al bene, all’amore, alla comprensione, alle esigenze dell’ambiente, all’etica,  o ancora peggio, al rispetto del diverso, anche perché viviamo in una società dove l’interesse e l’egoismo la fanno da padroni; questa è la vita, e non certo cosa nuova, nel lungo tragitto del divenire terreno. Da ciò le più grandi tragedie dell’umanità: dallo sterminio dei cristiani per mano dei romani, alla diaspora, dalle stragi in Africa per il colonialismo, a quelle nei paesi dell’est per il comunismo, da quelle degli imperi a scapito di democrazie, a quelle di ogni oppressore verso gli umili. Tante vicende di difficile comprensione per una mente calcolata a misure temporali. Viene facile pensare alla dimenticanza di un ente superiore, ad una sua distrazione di fronte a tragedie tanto tormentate e crudeli come quelle di un insieme di naviganti che si fa persona, individuo, soggetto, fattore di bene e di male che lo scrittore sa tracciare con un apporto etimo, vario e articolato; con una scelta verbale di grande efficacia visiva e risolutiva, dacché sa, il Nostro, che per coprire tanto spazio, tanta energia emotiva il linguaggio deve farsi ora asciutto, ora ampio, ora narrativo con l’aiuto di ripetuti enjambements e ora conclusivo. E sono gli annessi sinestetico-allusivi, o ipebolici, o di varia natura simbolico-retorica, a dare consistenza poetica al canto; a farsi oggetto di una creatività  fresca e robusta. Di questo è capace il poeta: concretizzare tanto sentire, tanta storia, in ambito verbale non è certamente facile ma Aloisi riesce a farlo con esperita forza di valenza umana:

Semmai negli occhi di un eroe, un mondo
che ancora ha un’anima un respiro, pieghe
di tumultuose leggerezze, scogli   
nelle carezze dei sudari, e mani
pronte ad accogliere le croci, madide
lasciate indifferenti alla deriva
di polveri di venti e di consensi,
nel grembo della storia a ritornare.

Nazario Pardini 




L’eterno viaggiatore

                         I
Naviga sempre il mare il nostro eroe
le vele dispiegando alle tempeste
nella pretesa d’invocare il fato,
i numi di un Olimpo sulla luna         
ad osservare indifferenti sorti,   
un uomo che combatte solitario.
E non approda alle lavinie prode
lo sconfortato Enea, orfano mesto
di protettori e di penati Dei,             
di santi da portare sulla schiena  
senza che i lividi della miseria
li abbia scalfiti sulla pelle, un dì.
Continua eterno a naufragare, profugo
nell’acque di un ameno calendario    
dove la bussola del tempo è persa,     
disorientata la lancetta al nord,
dove il magnete di una croce tace
o madido nel legno è inascoltato.
Forse la zattera dell’odissea          
ha perso i chiodi nell’abisso, spettri        
alla ricerca delle membra, carne
per ancorarla ad animati tronchi,
all’orizzonte di un’azzurra sponda
dove non tremano pietrose zolle         
mentre di donna ondeggia la sinuosa  
veste, la voce di un affranto amore
ad emanare l’odorosa ambrosia,
l’ombra pietosa di un materno sguardo.

                        II
Riempitosi il travaglio di sudore,
il calice di un frutto tramandato      
nel pane generoso di una mensa,
nel vino dissetante di una brocca,
continuano gli zoccoli al galoppo
nelle foreste della sete, stolti
nelle crociate ad ostentare l’Ostie,   
l’oblio di sangue e fazzoletti sporchi
d’occhi socchiusi e di lavate mani.
E siedono lucenti sulle selle
le porpore gremite di silenzi,
di sacramenti, fumeggianti incensi    
nelle coscienze d’ombra, ormai dimentiche
di luce, e di una tavola rotonda
dove le briciole della pietà,
della giustizia e della fede gemono,
cadute a terra o in una selva oscura    
ad umettare una smarrita via.


                    III
Ardito viaggia il peregrino eroe
alla scoperta di se stesso, un saio
che gliene mostra errori, il fumo nero
di orrori nauseabondi, e di relitti    
mentre riaffiorano su superfici
di giri e lidi spumeggianti, passi
senza i granelli dell’astuzia appresso,
né della forza di gendarmi e d’onde,
solo di scrigni rivelanti il senso,     
la redenzione di un tragitto breve
nelle parole sussurrate allora,
di cui la bussola riecheggia l’eco,
il fiero luccichio dell’armature
nelle battaglie di città infedeli,     
facendo sorgere una terra santa
dove il sepolcro non contiene spoglie,
(corrispondenza di amorosi sensi)
e di una patria non rimane vigna,
o contadini concimare i solchi   
e mietere parole di conforto,
abbandonando simulacri al vento,
nelle sterpaglie di torrenti e guati.



                        IV
Amaro il viaggio dell’eterno eroe,
ahi  quanto scorre questo viaggio amaro  
che il ciottolato del percorso muta,
nel letto di un ruscello itinerante,
il muschio delle pietre del fondale
nei cocci di un riflesso scivoloso
di un vetro dall’oscura riflessione
o nella nebbia di accecate vite    
per non guardare la coscienza in faccia
(dietro i sipari di svariate maschere)
ma negli sbagli di chi siede a fianco,
di un pubblico che accetta patimenti    
e avvezzo non si accorge di un fratello
di un uomo vivere il suo tempo, un figlio
la storia ripercorrere di un padre:
nelle tempeste dello stesso mare,
nelle speranze dello stesso cielo,      
nelle miserie di un eroe qualunque.


                          V
Anonimo l’eroe, che ha sulla pelle
un numero cifrato, e sulla fronte
spine, di una corona senza l’aurea
luce, né le preghiere ai piedi, simili      
che non decifrano la stessa carne
ma che continuano a mangiarla ignari,
facendo scioglierla, siccome neve
evaporando odori, e di memorie
giorni, la vanità di un’impossibile       
ragione, e la certezza di ricordi
nei fotogrammi di momenti assurdi
nelle radici di innocenti fiori
recisi tra le mani di bambini
sui campi di progenie inaridite    
nei freddi grembi, e dentro gli occhi vuoti
di chi è rimasto, morto, a sopravvivere;
di uomini, di eroi qualunque, donne
di aver la colpa nelle vene, il sangue
(appartenente ad uno stesso padre)      
la dignità di andare incontro a morte,
di risparmiarla a qualcun altro, forse
per non scordare il nome, un Olocausto
il corpo di una vittima immolata
il Verbo di qualcosa che rimanga.             


                          VI
Amaro il viaggio dell’eterno eroe
quando la bussola sconvolge il senso,
la sofferenza di un tramonto all’alba,
quando del suono di campane in festa
funesta torna ridondante l’eco               
nel triste annuncio della nebbia fitta
resurrezione di cancelli aperti,
fischi di treni sui binari in mare
emettere vapori di vagoni,
sudori di calvari tra le spume,               
sugli alberi di ulivo e delle barche.
È un uomo nuovo a navigare i mari
che non ha il nome di un Ulisse, ahimè
la voce di un Omero, il viaggiatore
vento, la scia di sangue nel destino                      
di un pesce gigantesco che sprofonda
in basso, e dal profondo delle fauci,
assaporato di un cordone il nodo,
ascende al cielo tra le braccia aperte
di un padre lieto di abbracciare il figlio       
e togliergli l’arpione dal suo collo.


                       VII
E  giace sulla sabbia la carcassa
(nel ventre sigillato di un cavallo)
della speranza navigata al largo
di eroe che ambiva ad arrivare intero                        
senza trovarsi frantumato, numero 
riemergere nell’acqua delle dune,
tra palme soleggiate di miraggi
e nel silenzio di una luna in cielo,
quando l’arsura disperata in gola,    
la solitaria sensazione umana
squarcia le tenebre della sua voce.
Anonimo il valore del bottino
rimane memore dei suoi compagni
di un’isola, di un vecchio pescatore       
che ancora credono alla pesca, a un uomo
dando alle maglie di una rete il senso
l’identità di un nome, ed il rispetto
ad una storia uguale, a un sofferente
vinto, che dà valore a un vincitore            
quando si nutre di parole, pane
(spezzandolo in memoria di una cena)
e non del pesce che gli puzza accanto
nell’amarezza delle spine, dentro.  


                        VIII
Amaro il viaggio dell’odierno eroe                           
quando ristagna, sempre uguale, l’acqua
che si alimenta di un digiuno nero,
del grano del raccolto del dolore!
Mentre respirano da vasi ed urne
respiri e muffe di cantine vuote,                     
insipida la carne sui banchetti
tra i denti di cannibali affamati,
riaffiorano voraci tra le spighe
(vestiti di famelici progetti)
i roditori della vita altrui,                        
dispensatori di dolori e fame,
di carestie nefaste, a contadini
eroi costretti a digiunare ancora,
infliggersi il fetore delle spine
immortalando sugli altari gli anni       
dimentichi nei secoli dei secoli.
Non sempre al fresco della mente gli uomini
conservano le ceneri del tempo,
estinte nel calore delle fiamme,
nel ghiaccio dell’inverno dei sepolcri,     
nelle stagioni a naufragare amare
e pungersi di spine tra le siepi
per adornare all’orizzonte i raggi
dei fil di ferro di tramonti rossi.


                  IX
Dall’alto nevica, vicino, il cielo                        
la manna bianca della provvidenza,
scendendo lieve senza far rumore
e tinteggiando di ogni cima valli,
lasciando agli occhi panorami, scialli
mostrare i segni delle ragnatele,                             
spettri di figli e di pennelli andati
alla ricerca delle ignote tele,
dove dipingere profili e croci
pastori e volti di presepi cari,
fecondi muschi di fontane, odori                              
di bucaneve germogliati altrove.
Discesa in piena, sotto i ponti, l’acqua
continua ancora a trattenere il fango,
scalfite ai nodi dalle tarme leste                        
radici meste di strappati rami,
cesti di grappoli farina e latte
svuotati sui canneti delle sponde
tra fronde spoglie di piangenti salici,
cariati roditori rincarnati                                      
che rodono mutevoli cortecce 
sui fragili sentieri dei riflessi.                     
Ahi quanti fiocchi sono scesi invano,
quanti ne scendono sui vetri opachi!

Clessidre piene di granelli, mani                
che tracciano gli aloni alle finestre
figli di uomini senza padrone,                                 
di un Dio minore, o forse umani eroi.


                         X
Nel mentre grondano frontali foto
nelle cornici in bianco e nero, sangue
dei contadini degli aratri e i solchi,
respirano le tempere sui quadri
i fumi di miniere e di lucerne, 
di vecchie ciminiere abbandonate.
I vomeri s’intingono negli oli
per rovesciare tra le zolle asciutte
(con vanghe ritemprate di colori
e calli ammorbiditi dai sudori)
fantasmi d’erba verdeggiante
per rimembrare e masticare cibi,
sapori di lupini ritrovati
nei pezzi di una barca alla malora,
rigurgiti malefici e concimi
di stomaci opulenti e radioattivi.
Ritorna al pascolo la vaccarella
magra stecchita, assieme alla fanciulla
a bere rame alle grondaie, fame
di mine e vittime, di eroi qualunque
caduti corpi o nelle crepe, semi
di girasoli e interminati giri,
graffiti laceranti di caverne,
scolpiti nelle lacrime dei resti
che ancora aspettano restauri, spatole
a togliere le pietre dai sepolcri,
le bende dai brandelli delle case.
Discende lenta opalescente manna
sul grido della gente silenziosa,
senza padrone o provvidenza aliena,
nel gesto generoso delle mani
che mostrano sinfoniche le piume
di un nido le lenzuola senza canto. 


                          XI
Ahi quanti canti in questo viaggio amaro
nel mal di mare e di risacche eterne,
sui dondoli dell’onde logoranti,
tra i ciondoli di corde e di ricordi,
di polveri cangianti sui granelli   
delle battigie leggendarie, meste
di arpeggiatori e di sirene grida,
pianti echeggianti di conchiglie, vite
infrante da tempeste interminabili
sul muro degli scogli dell’oblio!   
E mentre s’odono le pietre urlare
e dalle nuvole cadere l’alghe,
le perle variopinte di coralli,
continuano le cinta a riapparire,
le braccia delle ancelle a scomparire   
ed assordare, tra le chiome, orecchie
fuggevoli agli inviti di Nausicaa,
al grido forestiero di infelici.
Il fuoco si cementa tra i mattoni
siccome intonaco contro le insidie,   
per chiudere i cancelli dei rumori
dei viaggiatori mendicanti, poveri
eroi fantasmi di pirati, mostri
di aver la colpa di una bocca, sogni
finiti nelle fauci dei risvegli;      
di aver la colpa e sulla fronte un occhio
diversi i grani di rosari, chiodi
lubrificati dalle mani ai piedi,
nei fili raddrizzati dalla pioggia,
tra pali di ignoranza e pregiudizi.   
Ah...potessero le alghe germogliare
il dono di parole e di coralli
il viaggio redentore dall’Egitto
di un popolo le perle di radici!


                          XII
Trapassa il viaggio dell’eterno eroe   
sciogliendosi nel fuoco dell’inverno,
(siccome neve di un ricordo al sole)
nei giorni tristi in riva al mare, lacrime
che bagnano memorie sulla terra
davanti a lapidi crollate, cuori              
giardini di cipressi sulle pietre
nei cardini degli occhi dei cancelli.
Non vogliono le orme delle scarpe
le impronte delle mani rimanere
sui lividi di veli e di prigioni, 
nei campi sconfinati di stermini
o negli abissi naufragare amari.
Semmai negli occhi di un eroe, un mondo
che ancora ha un’anima un respiro, pieghe
di tumultuose leggerezze, scogli   
nelle carezze dei sudari, e mani
pronte ad accogliere le croci, madide
lasciate indifferenti alla deriva
di polveri di venti e di consensi,
nel grembo della storia a ritornare.









1 commento:

  1. Non ho parole per esprimere l'onore, non solamente di essere su Leucade, ma di esserci, e accompagnato da una simile recensione. Grazie prof. Pardini. Emanuele Aloisi

    RispondiElimina