giovedì 6 aprile 2017

N. PARDINI: LETTURA DI "SEDIA A SDRAIO ABBANDONATA..." DI ANNA VINCITORIO

SEDIA A SDRAIO ABBANDONATA LUNGO IL LAGO. RACCONTI DI ANNA VINCITORIO


Un corposo manoscritto, con cui Anna Vincitorio costruisce una storia di ampio respiro, di ontologici riflessi, che, rimasta in animo a decantare per tempo, esce con dolcezza e forza paradigmatica a brillare di nuova vita. Trentuno racconti brevi dal titolo Sedia a dondolo lungo il lago, che, già indicativo per il prosieguo della lettura, si fa corpo di intricanti soluzioni:  sedia a dondolo: riposo, ombra solitudine; abbandonata: tristezza, memoria, disincanto; lungo il lago: acqua, spazi, ampie  visioni, orizzonti lontani, dimenticanze. Il tutto in una pennellata panico-ornitologica che fa da prodromica apertura ad una narrazione che tanto ha a che vedere con la vicinanza dell’autrice ad una natura semplice, pura, genuina; ad ali di uccelli che spiccano il volo verso un’azzurrità che si declina in simbolo del modo di sentire della Nostra: voglia di volare, di sottrarsi ai paradigmi di un mondo che la scrittrice condanna per la plurivocità delle aporie. Tanta spiritualità, tanto amore, tanta interiorità autobiografica in questa serie di brevi quadri freschi e contaminanti: “Amo e osservo gli uccelli, rapita dalle loro volute. Le ali spalancate svelano piumati spazi bianchi. Amo quell’essere liberi, potersi soffermare su un gotico campanile o su un ramo fronzuto… Amo la loro libertà fuori dal quotidiano. Incontro un merlo che zampetta sul selciato a passo di danza. Ho visto nel verde di Vinci librarsi le tortore e i fagiani. È un mondo silenzioso e ingenuo che non travalica gli altri. Non si impone, trasmette calda gioia e si avvicina al cielo”. Libertà, spazi, cielo, rispetto, volo, umanesimo; slanci verso sommità di ardua tensione meditativa; di frequenze realistico-invasive con riferimenti ad una semplicità tanto complessa da richiamare l’uomo, il suo esistere e il suo azzardo verso orizzonti che appaghino le sue sottrazioni. Questo passo introduttivo è preceduto da versi che traducono, con profonda e armonica liricità,  l’abbraccio con cui Anna avvolge una natura libera, antropologicamente allusiva, nelle sue esplosioni di vita e di amore; allunghi verso azzurri che tradiscano le incomprensioni dell’umano vivere:

idee, solo questo
in un mattino d’estate
Le mie fughe d’uccello
spalancano siepi di gelsomino
e l’aroma spaura e si sperde

 Brani, caldi e umanamente vicini, che, raggruppati in espansioni tematiche, sono uniti da un filo rosso che lega ogni sezione: VITE DI DONNA 1 (A mio padre, Subite violenze, Ricordo e amarezza), VITE DI DONNA 2 (L’invito, Il giorno dei morti, Presagio, Verso Lisbona, Quel mercoledi di febbraio); EVOCAZIONI (Il quadro, Il ritorno, I tulipani, La caccia, Sequenze, Volano ancora le colombe, La Pasqua,    Il salto, Blu,Il ballo); LUOGHI (Alice’s Restaurant, Il bar di Dario, La moto e la piscina, San Salvi, Sul selciato, Diversi o migliori, Il salto, Fiume, Potrebbe essere  amore, Affittasi); SOGNO (I due viandanti, Vittime); VITA DI DONNA 3 (Sedia a sdraio abbandonata lungo il lago) che, con valore eponimo, contiene input esistenziali, afflati vitali,  solitudini esistenziali, questioni che fanno da leitmotiv nel tragitto della narrazione. Tante le vicende trattate, tanti gli accadimenti che segnano i passi della vita: esistere, violenze, memoriale, immagini e volti di ritorno, inquietudini, abbandoni, amori, incontri, delusioni, illusioni, dolcezze profumate di antiche stagioni, sogni. Un modus  vivendi, inveniendi, un riportare alla luce episodi, che, nel tentativo di prolungare la vita, ci rendono anche coscienti del tempo che passa con certe vicende segnate da ferite profonde, in cui la stessa vita è un  gioco di perdite e conquiste, di dolori e di soprusi tornati a memoria pur contro la nostra volontà. Spaziare a tutto tondo è il proposito di Anna; far leggere il suo racconto, che si fa racconto di tutti, è il suo obiettivo. E ci riesce appieno soprattutto per il suo linguismo armonico, paratattico, apodittico, conclusivo; sciolto, convincente  e arrivante per la brevità dei periodi e per una morfosintassi laconica e penetrante nel suo dispiegarsi in sequenze di plastico equilibrio: narrative, introspettive, descrittive. E quando si descrive, quando ci si abbandona a luoghi del vissuto, lo si fa per dare forza e luce a personaggi che hanno ruoli determinanti nel succedersi dei fatti. Già ebbi a scrivere a proposito della sua “per vivere ancora”: “Una narrazione chiara, semplice, arrivante, persuasiva e pervasiva, quella della Vincitorio. Chi avesse letto la sua poesia non stenterebbe di certo a riconoscervi quell’animo snello, pulito, ambizioso a mantenere in vita stagioni ora burrascose ora lucenti del suo vissuto. E qui c’è tutto il patrimonio umano ed oltre; ci sono riflessioni, memoriale, saudade, realismo, luoghi compagni dell’amore, amori compagni di luoghi, personaggi, figure, aspetti che non possono morire, così come muore un autunno con le sue foglie arrugginite. Non è di certo azzardato parlare di prosa poetica; di contaminazione poematica: sembra proprio che da questi racconti in diacronica successione ogni tanto faccia capolino la virtù versificatoria di Anna e che questa virtù manifesti la sua presenza con calore e ardore, con grazia e riservatezza, con pennellate di colori e ondate di malinconia.  La realtà vi è con tutta la sua forza rappresentativa…”. Proprio così: non è azzardato dire che la vèrve poetica contamini la sua prosa: musicalità, concisione, male di esistere, introspezione, e tanto animo in una verbalità fatta di esplosioni intime, spontanee,  ora amare, ora lucenti di albe, e di tramonti. Ma è soprattutto la parola, le connessioni, gli incastri a richiamare la sua poesia, la brevità e il simbolismo del suo dire poematico.

Da

A mio padre:

“… Memoria, ideali, patria, guerra, battesimo del fuoco, tardi autunni, antiche foto, personaggi lontani nel tempo, padre bambino, sguardo intenso:
… In uno degli armadi Biedermeier  dell’ingresso… ho trovato una scatola rossa e un pacchetto legato con nastri azzurri. La scatola era piena di antiche foto, alcune a me sconosciute di personaggi lontani nel tempo, altre che avidamente prendevo tra le mani per ricostruirne il percorso. Ti ho ritrovato, padre, bambino… A quei tempi si amava la patria, gli ideali, l’odio per il nemico, e tu partisti, ragazzo del ’99 per la guerra. Battesimo del fuoco a diciotto anni…”. Con in finale una poesia di plurale intimità tratta da Trama verde sull’aia, 1986

A mio padre:

Il tempo ha spezzato quelle scale
dove il celeste bagliore si spense
                                            con un grido
fluidi calarono i falchi sul sole
e fu ambra di parole pensate, mai dette
Tu ora non più sembianza ritorni
voce azzurra di dentro e schiudi le mani
                                            al mistero

A

Presagio:

Stefano, gli amici, nonna Elena, la madre, il padre, il presagio: “… Mi devo sbrigare… mi è stato detto che morirò a trent’anni…”, il brevetto di volo, l’incidente aereo. La madre che cerca il figlio in ogni dove e un viale che l’accompagna con il suo mesto panorama:
“… In un cassetto un suo quaderno di scuola dove lui scrive: “Per tutti i bambini c’è un angelo custode. Riuscirò a vedere il mio ?”. La madre continua a vivere nelle ombre del passato. Nei suoi occhi, gigli che si sovrappongono e sul suo viso passa un soffio lieve come una carezza. Lui c’è; non è mai andato via. È nella sua casa per sempre.”. Qui un certo sperdimento di malinconica intrusione fa di questo brano una impennata emotiva di toccante realtà.

Da

Il ritorno

Dove le memorie la fanno da padrone in un racconto di struggente saudade:
“… Nella bruma del mattino le luci del Mediterraneo, la carezza del blu sfumato di verde, le case arroccate, l’erosione legata all’angoscia di un amore perduto. Un’età diversa “senza più grida”. L’attracco e il tonfo dell’àncora. Lì con cocciutaggine per voler rivivere un amore assoluto e misterico, frutto di lotte e di angosce che si era concretizzato tra sabbie dorate, cupi profili dei monti circostanti e giovani braccia avvinte…”

A

La Pasqua

La chiesa, il piattino del povero, la dolce arroganza della giovinezza, ricordi, la stazioncina di Elephant Castle, “A quei tempi  per me una chiesa significava arte e conoscenza…”, “Solo il viaggio contava dovunque e comunque per sfuggire alla realtà contingente…”, memoriale che torna impietoso in un giorno di Pasqua a rievocare tempi e momenti, forse felici, ma distanti e sfumati. Ed il presente: Vinci, la casa di Anna, e lei che parla a lungo con un uomo cordale che ha vissuto in Inghilterra e che con il suo inglese la riporta a primavere  lontane con le sue storie per lei legate al tempo dell’uva e dell’amore. Il commiato verso la quiete e il silenzio: “mi giunge col vento il tubare sommesso di un colombo. Risuonano festose le campane. Mi sono però  dimenticata di portare l’uovo per la benedizione di Pasqua”.

E su su  fino all’ultimo brano che con ritmo incalzante segna l’approdo ad un porto di incognite e insicurezze:

Sedia a sdraio abbandonata lungo il lago

Dove assenze oniriche, rievocazioni, vertigini familiari, tentativi di ritorni, fanno da cammei, da quietudini verso cui la scrittrice si incammina per colmare distanze; per vincere il tempo che con la sua ingordigia distrugge armonie di affetti, alcove di amore, dolori di altre stagioni. E torna il memoriale imperioso a prendersi la scena con Ilena, autoritaria,  il pulmino di una città che non ricorda, il giardino nell’ombra, e l’attesa di lui con le mani odorose di legno. Poi su una sedia a rotelle. “Perché” “dov’è la mia casa?”.  “Eppure mi pareva di avere camminato tanto; c’era un bosco e l’acqua, ma non era il mare… Quel mare… dove? Com’era il posto? C’era la torre e quella buca d’acqua verde, sì, la buca delle fate. Ma dove sono andati i bambini?”. Con un lungo sorriso l’uomo la guarda e le stringe le mani tra le sue. “vieni, è tardi, ti portiamo a dormire”. Lei si alza insicura e lo guarda negli occhi: “ma tu, chi sei?”.

Un racconto da brividi, tracciato da una mano onesta, da un’anima netta che gronda storia, emozione, sensibilità, vicissitudine; da un’anima accoccolata, disumanamente insicura, con là una sedia a sdraio abbandonata lungo il lago.
Quello che poi richiederebbe un discorso a parte, una nota non di secondo piano, riguarda i contorni ambientali di cui Anna si serve per avviare le sue storie di  pathos, passione, melanconia, struggimento, riflessione, meditazione. E la natura, con i suoi paesaggi, monti, orizzonti, viali, cieli brumosi… si impossessa della penna della scrittrice in funzione di un preludio o di una concretizzazione delle sue calde storie:
“Un turbine di foglie nel gelido vento di un autunno che si preannunziava con piogge improvvise. A terra, specchi d’acqua disseminati, riflettevano ombrelli   e passi frettolosi…” (Presagio).
“E’ una ventosa giornata di febbraio. Il freddo si proietta all’interno della stanza…” (Quel mercoledì di febbraio).
“Il treno scorreva lento nella notte. Gli alberi e la bassa in movimento si allungavano e dilatavano assumendo forme inconsuete che turbavano i pensieri di Emanuele…” (Il quadro).
“… i viali, gli alberi che nell’avanzare dell’autunno si colorano di giallo e di marrone mentre scompare il verde e al suolo uno scomposto frusciare di foglie secche che invadono i prati verdissimi, bagnati di rugiada… (La moto e la piscina).
Insomma un “romanzo” che dice dell’uomo, del suo esistere, del suo inquieto sopravvivere, dell’esserc-ci, in questa terra illuminata dal sole, e inumidita da nubi, ora disseminate, ora affagottate, in un cielo che promette acquazzoni. Un viaggio fatto di tappe umanamente vicine che trae dalla realtà ogni occasione per slanci in vertigini azzurre; in campi nascosti di questa vita che ci guarda in faccia. Questo è.
D’altronde tutto non si può dire come non si può dire tutto sull’esistere ed il mistero che lo circonda.
A voi la lettura.


Nazario Pardini

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