Recensioni di: Michele Miano, Carmelo Consoli, Pasquale Balestriere, Carla Baroni, Umberto Vicaretti, Sandro Angelucci...


PREFAZIONE DI ENZO CONCARDI  A "NEL FRATTEMPO VIVIAMO", 2020


Già molti anni or sono il Corriere della Sera di Milano pubblicava un articolo letterario, nel quale l’autore riportava un’apodittica affermazione di Eugenio Montale: “La poesia è vita”. Leggendo quest’ultimo lavoro di Nazario Pardini, il collegamento con tale memoria è stato quasi immediato: Nel frattempo viviamo contiene la coniugazione al presente del verbo, dell’azione del vivere. Ed è un amore per la vita incondizionato, che viene prima di ogni domanda esistenziale e finalistica su questa nostra avventura umana, ancor prima dunque di aver scoperto o capito il suo significato, il suo senso: il poeta scommette sulla vita e l’uomo s’identifica con l’artista senza alcuna scissione o dicotomia.
Tante sono le liriche che possono dimostrare tale assunto, a partire da quella intitolata Gioachimismo, con riferimento alla dottrina e al movimento spirituale di ispirazione millenarista generatisi dalla predicazione e dai testi del monaco cistercense calabrese Gioacchino da Fiore (1130-1202) che, basandosi su una interpretazione allegorica della Bibbia, profetizzava la venuta di un’età dello Spirito sulla terra, con il trionfo del Bene e delle virtù cristiane: “Se il Paradiso fosse in terra, / mio Signore, /…/ senza la guerra, l’odio e il patimento, / qui tra le povere cose, / tra l’erba fresca delle mie radure, / o sopra i colli, / tra i papaveri, le spighe e le ginestre / ove io conobbi amore. /…/ Sparirebbero dannati e qui tra noi dominerebbe aperto il Paradiso / col viso blu profondo ed il suo altare / di giada verde come il nostro mare” (Gioachimismo). È l’umana nostalgia dell’Eden perduto dopo la caduta iniziale, sempre secondo il racconto biblico.
Altri componimenti poi fanno riferimento ad un mestiere di esistere, che occupò a lungo anche la riflessione di Cesare Pavese - Il mestiere di vivere - da cui emerge un accentuato clima di solitudine esistenziale: “Passavo la sera seduto davanti allo specchio per tenermi compagnia”. Fuori da ogni equivoco, Pardini sa che esiste il rischio della solitudine, ma sa bene anche che nessun uomo è un’isola e dunque il suo ‘mestiere di esistere’ va in direzione opposta alle conclusioni dello scrittore piemontese, abbraccia la voglia dell’incontro, di natura, di meraviglia, di restare abbarbicato alla vita in ogni modo: “Ho conservato una foglia; / svenata dall’autunno / si macchiava di sangue e non aveva più potere; / l’ho salvata per miracolo. / È lì in un barattolo / sotto vuoto spinto. / Mantiene, sì, l’aspetto / di chi muore, / ma pur sempre un colore senza fine” (Ho conservato una foglia).
Ed anche: “Sarà solitudine, / sarà tristezza, noia, / sarà pesantezza per il bagaglio / dei ricordi che ci portiamo: / la vecchiaia! / Ma pur sempre / l’unico mezzo, / il solo, possibile mezzo / di restare più a lungo / a respirare la vita” (Sarà solitudine). Emerge il realismo dell’autore, impresso anche sullo stile letterario qui opportunamente ad usum populi, ma per nulla mancante di ampi respiri lirici, di vera poesia. Un realismo che si veste di volta in volta di memorie domestiche e familiari, di momenti del quotidiano tra suoni di campane e lavori nei campi, delle storie che potrebbe raccontare il marciapiede, della scaltrezza del tempo che nasconde il suo trascorrere dietro gli eventi della vita così che giunge la fine quasi senza preavviso, della sottile ironia su funerali e morti... Il poeta traccia dunque un campionario di varia umanità e molteplici atmosfere che letterariamente compongono una sorta di ‘zibaldone esistenziale’ in versi, in cui, se volessimo cedere alle formalità classificatorie delle tematiche, potremmo individuare due triadi essenziali: vita-anima-destino e natura-memoria-amore.
Eccoci dunque a pedinare l’anima del poeta per scoprire insieme a lui e alla sua ricca umanità quale cammino s’intravede nella sua ‘realtà spirituale’: “…L’unica voce / che unisce ogni elemento / è il momento dell’arte, / è il sesto senso / che l’anima / possiede. / È nell’anima / la stessa geometria / molecolare” (La geometria che attorno si distende). Una facoltà - il sesto senso - invisibile: invisibile, ma concreta, non vi è alcuna contraddizione, perché produce elementi tangibili! Ogni poeta profondo lo sa. Ed infatti nell’articolo del Corriere della Sera citato in apertura, lo stesso Montale dichiarava: “Io sono un amico dell’invisibile!”. Inoltre il poeta ligure sosteneva che la poesia tende a far intuire quel quid in più che le sole parole non riescono ad esprimere. E Pardini cosa fa? Ascoltiamolo: “Ho pescato con la rete dell’anima / rumori nell’oceano del blu stellare. / Non sono affogati, / li ho mantenuti in vita / nel vivaio della poesia” (Ho pescato con la rete dell’anima). Con linguaggio analogico ci dice come le sensazioni dell’anima, invisibili, diventano poesia attraverso immagini che vanno oltre la parola. Lo stesso processo avviene in altra lirica, quando è certo dell’esistenza del soprannaturale ascoltando la musica di Puccini.
L’anima non è dunque per il poeta un concetto filosofico astratto, definito attraverso speculazioni teologiche o teoretiche, ma un’energia vitale capace di penetrare in ogni dimensione dell’universo e dell’esistenza, quindi anche nella natura e nel sentimento. È una facoltà della personalità che potrebbe stare tra la voce interiore del fanciullino pascoliano e gli stimoli dell’elan vital bergsoniano. Nella sua visione la natura non ha fine, possiede una vita immortale, è un eterno divenire: si rinnovano sempre le stagioni, i colori, le fioriture, i canti e il suo giorno non muore; essa possiede un’armonia che lega insieme tutti gli elementi. Le immagini sono quelle della sua terra: il colle, il bosco, il rustico, il cipresso solitario, il callare (viottolo di campagna), il mare, il molo, il maestrale… Il canto d’amore ha qui brevi pennellate liriche; dipingono il sogno di un’isola fatata, le fantasie di storie giovanili da inventare con l’amata: “… E col sorriso l’isola accoglieva / solo utopie forgiate per amare” (Stai qui con me); dipingono l’immancabile connubio fra amore e luna: questa comanda il mare, quello il cuore; dipingono ancora il suo potere anche nei confronti della morte: “Pare un’inezia / il peso della fine / se guardo gli occhi tuoi su me posati…” (Pare un’inezia). Per una più approfondita conoscenza della poesia amorosa di Pardini rimandiamo al suo libro I dintorni dell’amore ricordando Catullo (2019), con prefazione di Rossella Cerniglia, la quale sottolinea “una concezione dell’amore fortemente idealizzata”.
Nel frattempo viviamo presenta una seconda parte a cui l’autore ha dato come titolo: Dal serio al faceto. Dal sacro al profano. Egli dice delle liriche di questa raccolta: “Tante portano come titolo Il fatto… Per me è una silloge un po’ diversa dal mio stile: poesie brevi, apodittiche, attuali, e soprattutto motivate da fatti concreti”. Oltre a questo genere vi troviamo anche composizioni che assomigliano a massime, aforismi, detti, proverbi con strofe e rime libere in sciolti versi armonici e sonori: non ci è dato sapere se d’invenzione del poeta o se anche ispirate alla tradizione popolare. Fatto sta che sono veramente facezie godibili che portano al sorriso, oltre che alla riflessione o ad una morale sottesa, come spesso succede per questo tipo di scrittura. Letterariamente esse sono, a mio avviso, collocabili in quel filone burlesco toscano di lunga data, che va da Cecco Angiolieri al Giusti, variamente definito dalla storiografia come ‘realismo comico-sarcastico’ o ‘scherzo satirico’: tutto ciò rientra pienamente anche nel temperamento di Pardini, sempre duale - come lui stesso ha scritto - tra serio e faceto, fra sacro e profano; ed io aggiungerei tra intellettuale e concreto, spirituale e materiale, ideale e possibile.
Tra i motivi più ricorrenti citiamo la vita, l’amore, la gioia, il destino, la speranza, il vino, la solitudine, la morte… ed un paio di esempi per carpirne il clima: “È come un lecca lecca, sai, la vita, / finito non ti resta che lo stecco, / non te ne fai di un becco, caro mio!, / gustala bene prima sia finita” (È come un lecca lecca). “La milza, la pancetta, la coratella, / la bazza, il calcagno e le budella / si lamentano in continuazione / perché messi in un cantone. / Per non parlare poi della chiappa e del rognone. / L’autore cita sempre nella poesia / cuore, occhi, bocca, crini, anima mia, / e in disparte lascia sempre la plebaglia. / Gridano adirati: «L’autore è una canaglia!»” (La milza, la pancetta, la coratella…).
Nazario Pardini, un poeta infine che sa anche uscire da ambienti e modi accademici per andare incontro agli uomini e condividerne il destino, nel profondo dell’io, nelle relazioni con gli altri, nel mistero “del cammin di nostra vita”.
Enzo Concardi


PREFAZIONE A "I DINTORNI DELLA VITA. CONVERSAZIONE CON THANATOS"
 DI FLORIANO ROMBOLI

Anche il lettore frettoloso è in grado di constatare la centralità del tema della natura nell’opera poetica di Nazario Pardini, ormai davvero ricca di testi.
Le raccolte più recenti confermano, all’interno di una ricerca artistico-letteraria contraddistinta da forti elementi di continuità ideale e formale-stilistica, tale rilievo primario, non certo limitabile alla semplice frequenza quantitativa bensì qualitativamente prezioso nella sua dimensione privilegiata di espressione oggettivata degli stati interiori, àmbito della manifestazione concreta e coinvolgente delle differenti situazioni etico-sentimentali, nonché momento dell’esplicitazione commossa e meditata di una coerente concezione della realtà.
Questa nel discorso lirico pardiniano appare, fin dagli esordî, percorsa da un’intima dinamica energetica, da un élan espansivo, teso a prorompere e dilagare, insofferente di argini, ostacoli, limiti di sorta. Tale idea si obiettiva, ad esempio, nella potente rappresentazione della piena di un fiume: “Piove a dirotto stamani, ed il Serchio / gonfia il suo letto; è già nelle golene, / tra gli alberi che invocano l’aiuto / frusciando malinconici richiami / col loro ciuffo sopra alla corrente; / niente risparmia l’acqua inferocita, / tutto porta con sé, alla deriva. / Qui dall’argine l’occhio si spaventa / a mirare la potenza che sprigiona: / le barche sradicate dai pontili / corrono in grembo al grosso defluire, / e ciottoli, tronchi, tavole, e ferraglie / si rincorrono in gara verso il mare...” (La piena del Serchio da I dintorni della solitudine, 2019). Dinanzi al moto imperioso della vitalità naturale il primo atteggiamento dell’autore consiste nell’abbandono positivo, in un acuto desiderio di immedesimazione, in un bisogno di fusione panica e disindividualizzante: “… Odori di salmastro e d’acqua smossa, / di erbe trascinate contro voglia, / mi invadono narici. E mi confondo / con tutto quel fracasso naturale: / divento un ramoscello in mezzo al mare.” (ivi, corsivi miei, come in seguito). Ho citato da I dintorni della solitudine (2019), la silloge che avvia un percorso ideativo proseguito con I dintorni dell’amore ricordando Catullo e I dintorni della vita, libri pubblicati in questo stesso anno, a comporre un’interessante trilogia.
Nella prima raccolta emerge altresì il ripiegamento riflessivo, il distanziamento meditativo, magari coadiuvati dal recupero memoriale, dalla riappropriazione intellettuale delle esperienze del vivere, potenziate così nella loro rilevanza morale e affettiva: “Ed il ricordo / l’ho in saccoccia cogli altri. A questo punto / penso proprio di tenerli vicino / ad un cammino ormai giunto alla fine (…) Ogni tanto / me ne riprendo uno come quando / si gioca con i petali sui prati. / È come ripescare un angolino / della vita. È come riviverla / col supporto fecondo dei ricordi. / Allungarla? Chissà…” (Via à vis con la sorte da I dintorni della solitudine). È questo l’altro tratto caratteristico dell’elaborazione estetica di Pardini, coessenziale nell’ordine strutturale-compositivo del suo lavoro d’arte, come in varie occasioni mi è occorso di sottolineare: tale disposizione mentale implica l’aspirazione a un punto di vista personale, all’acquisizione di un abito critico che, concentrando l’attenzione sui “dintorni” di determinate, capitali situazioni spirituali, ne focalizza gli aspetti problematici, ne sonda la profondità sentimentale e intellettuale.
Nella Lettera ad una amica mai conosciuta premessa ai componimenti riuniti ne I dintorni dell’amore lo scrittore si dichiara credente (“…L’avrà (Pneuma) lo Spirito Santo questo potere di infondere tutta la sua forza sulla materia per evolverla in bene? Io ci credo. Sono un credente. E non mi pongo tanti interrogativi…”), dopo aver esordito con un’immagine a lui congeniale secondo che si è in precedenza documentato: “È proprio vero, il fiume scorre, portandosi dietro ciottoli, acque chiare, torbide, detriti, piene, e bonacce. E tutto va a finire in un mare immenso, infinito. Avrà funzione catartica quel mare, che all’apparenza pare chiaro e brillante, poeticamente tanto vicino all’eterno? Potrà purificare tutto? La portata del fiume è pesante. Pesante quanto la nostra memoria…”
Rammento un verso di Charles Baudelaire, poeta molto caro al nostro autore: “Homme libre, toujours tu chériras la mer!” (Uomo libero, ti sarà sempre caro il mare!, L’Homme et la mer, da Fleurs du mal, 14, v.1); se la seconda silloge risulta sostanzialmente monotematica, incentrata com’è sul motivo dell’amore, l’idea del mare - come ha evidenziato nella lucida prefazione Rossella Cerniglia - vale un’istanza idealizzante e unificante i varî momenti di un sentimento che unisce alla passionalità istintiva, edonistico-sensuale (“Il profumo del corpo / ed il tuo seno, / rosa d’aspetto / e marmo nel suo tatto, / in me sopite voglie / destano ancora / e rotonde e compatte / nelle mani / stringo le forme tue.”, Il profumo del corpo da I dintorni dell’amore) l’ambizione di darsi misure superiori di immensità e di transtoricità: “…Son fuscello / che si annulla nell’aria mattutina / portato sull’onda dell’aria leggera / del novembre. Forse rincaserà / l’anima mia in fuga negli abissi. / Ritornerà in prigione nel suo corpo, / riprenderà i suoi occhi per mirare / l’immensità del mare, / per pensare di nuovo che la vita / è quel fuscello breve / che dimena / in un’immensità che ti rapina…” (In un’immensità che ti rapina, ivi).
Il rientro dell’animo nella dimensione corporea e quindi il recupero di un’ottica storicizzante e relativizzante rendono comunque lo scrittore toscano - anche attraverso la stimolante mediazione dei testi di Catullo - consapevole della caducità della vita umana e quindi pure dei rapporti d’amore: “… Così passiamo Delia. Noi saremo / polvere e cenere sotto quei fiori / o sotto il gelo che l’indifferenza / porterà sempre a mietere l’estate. / Fuge quaerere, Delia! Amiamo, amiamo / e ancora amiamo. / Facciamo d’ogni tempo primavera.” (Ode, ivi). L’intonazione oraziana intride di malinconia lo spunto conativo e partecipativo tipicamente pardiniano e dispone il lettore a quella “conversazione con Thanatos” di cui constano i versi de I dintorni della vita.
Può sul momento sembrare curioso che un complesso di liriche intitolate alla “Vita” si richiami con insistenza e sistematicità alla “Morte”: nondimeno l’interesse critico-intellettuale ampiamente dimostrato riguardo alla seconda si risolve e contrario nell’apprezzamento e nella valorizzazione dei pregi della prima.
L’antitesi vita/morte pervade da sempre il pensiero e le forme dell’arte degli uomini, se gli antichi Greci riconobbero nel “pensiero della morte” (μελέτη ϑανάτου) l’origine stessa della filosofia; e un poeta moderno fornito di una robusta cultura classica, Giovanni Pascoli, mise in risalto nell’epilogo di quello che è il più noto e forse meglio riuscito dei Poemi conviviali (1904), L’ultimo viaggio, l’effetto psicologicamente angoscioso ed eticamente devastante dell’assillo costante della morte: “Non esser mai! Non esser mai! Più nulla / ma meno morte che non esser più!” (XXIV, Calypso, vv.52-53, cioè: ‘è meglio non esser nati, che nascere e vivere una vita tormentata dalla continua preoccupazione della morte’).
La tradizione teorico-culturale ha nel tempo concepito al proposito differenti strategie difensive. Per esempio un pensatore stoico come L. Anneo Seneca raccomandava di familiarizzarsi progressivamente con la prospettiva della fine individuale, rilevando il carattere liberatorio (“Qui mori didicit, servire dedidicit”, ‘chi ha imparato a morire, ha smesso di essere schiavo’) del contenimento e della crescente limitazione degli impulsi che legano alla vita: se non è possibile sradicarli, si deve almeno ridurne l’efficacia vincolante (“Una est catena, quae non alligatos tenet, amor vitae, qui ut non est abiciendus, ita minuendus est”, Epistulae morales, III, 26,10); si tratta di una posizione che Bino Sanminiatelli, un raffinato prosatore della mia terra di Toscana, ha attualizzato e ridefinito in termini esistenzialistici nelle splendide pagine dei suoi Diarî: “Sentirsi vivere significa (generalmente e mondanamente) dimenticare la morte. Sentirsi vivere, invece, non è altro che sentirsi morire (…) A me non interessa tanto l’uomo nei suoi rapporti sociali quanto l’uomo di fronte alle cose della natura, all’amore, alla morte, all’esistere dell’universo” (da Quasi un uomo, 1968), giacché con la morte “crolla nel nulla l’illusorio sodalizio creato da vivi. Ritroviamo la solitudine della nostra preesistenza.” (da Ultimo tempo. Diario (1967-1976), 1977). Nazario Pardini non ignora di certo la presenza dolorosa e disorientante della morte, la sua azione distruttiva e deprivante, come è ribadito in questi versi tramite la sequenza anaforica: “Morte - Lo sai che prima o poi faremo i conti. / Verrò da te da anima negletta, / ti toglierò gli affetti, le memorie, / ti toglierò la vista, e quel che è peggio / ti toglierò il pensiero. / Raccogli i tuoi bagagli, preparati alla fine, / saluta la tua terra, i luoghi sacri / dai quali hai preso tutto...” (Dialogo con la morte).
Il poeta però sul fondamento del proprio vitalismo naturistico si oppone ad essa, inveisce con durezza contro di lei: “…Non hai alcun rimorso, / morte nefanda, morte senza scrupoli, / morte che veglia anche sopra i mari, / per captare innocenti forse in preda / di terrore e miseria? Tu che scorrazzi ovunque, / sui colli, le città, sulle montagne, / sui paesi nascosti alle intemperie; / proprio tu, morte, presente in ogni dove…” (E quella imbarcazione?); “…Tu non hai passione, / sei nata senza cuore, né potrai provare / il bello di una storia. Solo morte; / la tenebra, l’oscuro, i cimiteri, i loculi infecondi sono lì / che attendono il tuo passo desolato (…) A te è negato ogni volo in cielo, / dacché conosci solo l’ipogeo…” (Se ti guardi dattorno); “…Come faranno a vivere, lurida morte, / morte lurida che indifferentemente / ti accanisci da sempre sulla gente / innocente e perbene (…) Per dirti quanto è vile il tuo trascorso. / Vivi senza rimorso?” (Senza rimorso).
La rima dell’ultima citazione - piuttosto isolata in un contesto lirico dominato dal verso libero - rinsalda l’aspro giudizio e un antagonismo irriducibile: “…C’è già nell’aria clima di sereno / anche se il mare continua il travaglio; (…) Ma i dintorni riprendono il colore, / aprendosi in segno di speranza. / Questa è la danza / a ritmo di natura; / danziamo la ballata delle gialle gramaglie; / invidiosa sarai, morte, / dinanzi ai nostri salti…” (Mi sembra che il vento).
Dalla correlazione antinomica risulta pertanto un elogio della vita (“Non scriverò di certo della tua / falce nemica, né del tuo volto / macilento e avvilito, stamattina. / Non avrai il privilegio di occupare / la testata di questo poemetto / che racconta la vita, le memorie. / Scriverò, al contrario, della gioia / che zampilla dattorno per i prati / indifferenti al tuo potere maligno; (…) delle ardite primavere che sempre / impavide ritornano a tradirti / coi tessuti cromatici vibranti/ all’asolo di marzo. Tradimento! / Mi piace tutto quello che si oppone / all’impertinenza della tua presenza, / morte...” (Non scriverò di certo, morte), della sua forza tonificante, dei suoi valori (l’amore, la poesia) capaci di vincere la morte: “…A dicembre quel ramo ebbe la gioia / di vederli cresciuti, forti e rossi, / cachi rotondi come il sole a sera; / ma poi cedette. L’ho rivisto quest’oggi / secco tra i rami, inanimato a terra. / Un simbolo d’amore e di preghiera, / che ti ha fregato, morte, / annullando la lama della sorte.” (Un ramo secco a terra); “… E la parola / fedele obbedirà / alle risacche pronte / a essere risolte in tatuaggi: // ‘Vola oltre la morte / e amami ancóra come io ti ho amata / e non lasciar che il mondo ti contamini / togliendoti dall’anima quel succo / nato per trasformarsi in poesia…’ ” (Infangare Calliope).
Interrogandosi assiduamente intorno ai misfatti della morte (“…E poi dove sei andata? A chi è toccato? (…) Tu non lo sai ? / La conosci la storia di mio padre? / oppure l’hai falciato come tanti, / senza chiederti niente?…” (E tu, quando morì mio padre?), l’autore non si nasconde le responsabilità degli uomini nello spargimento del sangue, nella diffusione del lutto e può altresì concedere che Thanatos aiuti paradossalmente la vita liberando le creature dal dolore (“Forse a questo punto hai fatto bene, / sono d’accordo con te questa volta. / Soffriva da tant’anni; il male lo rodeva. / Gli leniva il dolore la morfina. / Era un urlo perenne (…) Forse ha trovato pace; io non so/ cosa succede dopo, ma senz’altro / ha smesso di patire. Oggi ti approvo.”, (Oggi ti approvo, morte), ma la sua opzione convinta a favore della vita non è mai posta in dubbio.
Stante il contrasto di fondo di cui si è detto è consequenziale il fatto che nei componimenti de I dintorni della vita assuma una funzione strutturante la figura dell’antitesi e specificamente quella costituita dalla compresenza conflittuale di buio e luce: “…ma il tempo non ci fu: / venne per te una sera non sperata / anche se amavi tingerla / coi buoi della Maremma. / Venne oscura per te che amavi il giorno” (Lettera al fratello scomparso); “Racconteranno con le loro storie / i luoghi dove io conobbi amore, / per contraddire con la loro forza / il nero vuoto della tua esistenza. / O primavera! / Torna fulgente sopra i verdi prati…” (Non scriverò di certo, morte)
Pardini, che altrove si è notato, ha affermato di essere credente, confida poi nella sconfitta finale della Morte, nel trionfo della Vita, in un tripudio di luce: “Si aprirono i cieli, / la luce incoronò valli ed abissi, / e tutto fu chiarore (…) Dovunque fu un abbraccio / di fratelli, madri, padri; / sugli avelli dei tanti cimiteri / nacquero fiori; danzarono le anime / rinate a nuova vita (…) Fu gioia. Fu luce attorno, accecante, / nelle case, sul mare, e per le vie (…) Vinse l’amore, e nella notte / si accese la lampada divina, / grande, enormemente forte, / più che d’agosto la calura estiva. / Più che di giorno la gloria del Signore” (Si aprirono i cieli).
Floriano Romboli


I DINTORNI DELL'AMORE, RICORDANDO CATULLO 
Collana di testi letterari Alcyone 2000 – Editore G. Miano
PREFAZIONE DI ROSSELLA CERNIGLIA

I dintorni dell'amore, ricordando Catullo, la più recente opera poetica di Nazario Pardini, proposta nella memoria del grande poeta latino, è anch'essa divisa, come la precedente, I dintorni della solitudine,  in tre sezioni; è inoltre preceduta da una Lettera ad un'amica mai conosciuta, testo che ne richiama subito alla memoria un altro, che immagino vicino al sentire e alle intenzioni del nostro autore. Si tratta della poesia di Luis Cernuda, dal titolo A un poeta futuro dove troviamo gli stessi interrogativi, le stesse incognite, lo stesso bisogno di colmare il vuoto e la solitudine interiore e di trovare un senso alla propria vita che rintracciamo nel testo di Nazario Pardini. Vi compare anche l'immagine di uno stesso fiume che porta in Uno vicende ed esperienze umane - metafora dell'esistente da cui precisamente prende l'avvio il testo in prosa del nostro autore. Ma, al di là di questo, un unanime respiro connette le due scritture: un tono epistolare intimo e confidente che con movenze accattivanti ed emblematiche, si innesta in una concezione dell'amore fortemente idealizzata, a testimonianza e suggello di una visione poetica e di un credo artistico che rimane a fondamento della loro opera.
   Il testo di Pardini si apre, come già detto, con una lettera che prende l'avvio dall'immagine di un fiume che trascina, insieme alle sue acque chiare, tutto ciò che incontra sul cammino, fino al mare infinito.
   Ed è, per l'appunto, una metafora della vita: il fiume che porta nell'immensità del mare, ovvero nella totalità dell'Essere, bene e male insieme a tutte le contraddizioni e le antinomie che connotano il contingente: il nostro essere, e quella realtà limitata, parcellare, conclusa che sembra fronteggiarci, ma che ci costituisce nel nostro essere più proprio, essendo una con noi.
    Il poeta, che si interroga intorno a questo “fiume”, si interroga sul senso dell'esistere, e in altri termini si chiede  dove andiamo, a cosa siamo destinati, e che senso abbia la vita umana in quanto costruzione di qualcosa a cui - nel bene o nel male - siamo chiamati.
   Quando “foscolianamente” ci induciamo a pensare nei termini di una nostra eternità laica, dicendo che ci eterniamo nella memoria dei posteri, credo che intendiamo dire anche questo: tutte le esperienze  e conoscenze dell'uomo sono fiumi, rivi, torrenti, che confluiscono nel grande, sconfinato mare della conoscenza che è nuova creazione e nuova vita. Un mare, dunque, che mescola la ricchezza e multiformità delle tante acque che affluiscono in lui, riportandole ad Unità. Riportando il multiforme e difforme ad Unità, cioè a nuova realtà e a nuova vita. Pertanto, l'uomo è parte integrante di un processo che estende l'opera divina, anche in forza del suo “libero arbitrio” - che non è assoluto, ma condizionato, anzi spesso pesantemente condizionato - ma è comunque quella facoltà di scelta che mette in moto il divenire, e che contraddistingue il suo pensare e il suo agire.
   A proposito dell'Amore, un tema che riveste vitale importanza in quest'opera, il poeta afferma che non debba mai allontanarsi dall'ideale della Bellezza, e dunque dalla Poesia. L'Amore, infatti, primo attributo divino, è il principio che informa l'universo. È Pneuma, spirito, energia del cosmo, che costituisce anche la nostra parte divina, la quale, tuttavia, nell'attuale civiltà sembrerebbe messa da parte, dimenticata in qualche oscuro canto di noi stessi. In questo concetto che lega insieme Amore ed  Arte, il Bene e il Bello, possiamo rintracciare quello della Kalokagathia che esprime l'essenza di quello spirito dell'arte greca, da Nietzsche definito apollineo.
   Nello stesso testo, inoltre, partendo delle premesse che l'autore va sviluppando, si fa strada l'idea di una poetica ben definita sulla base, non nuova - perché mai risolta e sempre, di epoca in epoca risorgente - di una quaestio a carattere  concettuale e linguistico che contrappone, in ambito letterario, il valore del “Nuovo” a quello dell'“Antico”-
   Pardini opta per una concezione in cui l'“antico” si innesti sul “nuovo” per dare nuovi germogli, nuovo frutto, nuova vita all'arte. Ma anche dove l'antico possa intendersi come il terreno, l'humus, il sostrato, la base feconda e intatta (eterna) della poesia che verrà dopo: una poetica che pienamente condivido.
  
   La prima sezione del libro, quella che dà anche il titolo all'intera silloge, sembrerebbe una rivisitazione dello schema amoroso catulliano delle Nugae, che costituiscono la prima parte di quel Liber di 116 componimenti poetici a noi pervenuto.
    Nelle Nugae vivono le alterne vicende della passione amorosa del poeta latino per una donna cantata col  nome di Lesbia - nel riecheggiamento del mito e del fascino della poetessa di Lesbo, Saffo.
   Anche nella prima sezione della silloge pardiniana trovano posto le vicissitudini di un amore nel dispiegarsi di momenti e tappe che in qualche modo richiamano ed intersecano il paradigma catulliano che procede dalla passionalità e fedeltà amorosa fino alla tragica constatazione del disamore e dell'abbandono finale. I componimenti di questa prima sezione non hanno titolo e sono separati tra loro da un asterisco.
   Questo attraversamento di momenti e di stati d'animo dispiega, anche nel nostro autore, un corollario di sentimenti ed emozioni, finemente elaborati, che stempera, tuttavia, e ammorbidisce i toni della passionalità più accesa di certi carmi catulliani.
   Le liriche pardiniane hanno lo stesso andamento tematico, e tutto è rivissuto e rivisitato nello spirito e - per certi versi - nello stile catulliano che è quello amoroso per eccellenza - anche se di un amore che ha i connotati e le sfumature peculiari dell'anima del poeta: connotati e sfumature che indicano una consonanza spirituale che attraversa il tempo per divenire nei due autori, afflato, visione, emblema  di uno stile che è misura di vita e immagine di una realtà.
   I componimenti sono brevi e, come i carmi catulliani delle Nugae con continui riferimenti alle personali vicende amorose. Si innestano nel tessuto dell'opera richiami più puntuali, e parziali rifacimenti di alcuni dei testi più rappresentativi del poeta latino, come è nelle pagg. 33, 45, 47, 48, e forse in qualche altra ancora.
   L'incipit di questa prima sezione è dato da versi pregni di amara dolcezza e del senso di ogni fatale declino che - sempre all'insegna dell'amore - conduce alla ricerca di una vita che sia più vera ed essenziale. I paesaggi sono un riflesso dell'anima, un esempio è fornito dalla pag.38: mare e spiaggia, pensieri e immensità che recano connotazioni dell'anima “...e un'aria grigia / ricopre i miei pensieri. (…) brusio di poca gente / ma tutto è vuoto /non mi consola niente.” 
   Natura  e  paesaggio  sono,  del  resto,  lo  sfondo  costante  dell'opera,  che  i  versi dispiegano   in ampia e variegata fenomenologia. Vivono sovente della dimensione del ricordo, e aprono a scene in cui si mescolano note passionali che vagheggiano sogni lontani (pagg. 37 e 39).
   In alcuni componimenti di questa prima sezione incontriamo una dolcezza che sconfina, a volte, nel gesto voglioso e irruento come pure avviene in qualche testo del poeta latino. Il personaggio centrale, è una Delia/Lesbia che ci riporta alla donna amata da Catullo, e che, come la Lesbia catulliana, si mostra a noi di riflesso, attraverso i sentimenti che suscita nel nostro poeta. Gli stessi versi aprono talora a suggestioni e vagheggiamenti di un passato arcaico in cui l'immagine femminile era accostata a quella della divinità, e vi si effonde una malinconica dolcezza che pare emanare dalla natura e dal paesaggio ed irradiarsi in palpito e in levità che si fanno canto di delicata elegia.
   Così la nostra Delia/Lesbia, trasfigurata, diviene ninfa vagante per i boschi, che ci appaiono intramati di elementi vegetali e umani: “ ...tingevano i capelli / i raggi rossi / penetranti tra i rami / e i butti smossi. / Olezzava il salmastro e  la tua  pelle...” E poco più avanti,  in un altro componimento: “(…) Forse non giungi, Delia, / ché più non mi ami? (...) Ma dal fondo del bosco, / ninfa vagante, / dal fondo del viale / verso i miei dubbi / muovi le tue grazie (...) ed io respiro / il tuo dolce profumo, / il tuo sospiro.” Una mescolanza visionaria in cui la bellezza femminile compenetra e anima la natura. E questa, a sua volta, si mostra come la degna cornice entro cui cantare la donna amata. Ma in essi si insinua il dubbio della fedeltà amorosa della donna, che ci riporta alla parabola catulliana, prima ascendente, poi declinante, di un amore che ci appare, nel suo incedere, fatalmente segnato.
  Comunque - al di là delle affinità che accomunano i versi dei due poeti - le vicende amorose sono, nelle loro opere, diversamente contestualizzate e il sentimento che le anima dipende dall'apporto complessivo delle singole esperienze di arte e di vita. 
    L'immagine della donna amata riflette, in ognuna delle due opere, atmosfere che appaiono consone al suo tempo, così la vicenda dell'amore tenero e appassionato del poeta latino riceve l'impronta nuova della realtà che vive nel nuovo poeta: e l'”Antico” trova un prezioso innesto nel “Nuovo” che avanza.
   Nella seconda sezione del libro Di vita, di mare di amore, i temi affrontati sono esplicitati nel titolo. E il primo componimento sembrerebbe, appunto, un inno alla vita e alla natura, tradite e devastate dall'uomo. Delle quattro strofe che lo compongono, le prime tre presentano l'anafora del verso iniziale “E noi ti demmo morte” a ribadire con enfasi e immagini di brutalità, lo scempio operato su di esse dall'uomo. D'ora in avanti, infatti, anche in considerazione dell'opera nefasta dell'uomo su di esse, percepiremo il sentimento dell'autore mutare, e i paesaggi e la vita intera ci appariranno, nei versi, disabitati, inquieti, silenti...  “(...) Mi prende il largo spazio: / sono il nulla e il nulla si dilegua / nel vento salmastro dell'immenso./ Non odo più la bàttima né provo / sogni e tristezze in questo diluirsi / del cuore nel mio mare.”
   Anche nei versi di Chissà per quali mete, troviamo lo stesso abbandono, lo stesso senso di vuoto e dismissione che si riflette nello sguardo che si allarga alla campagna “ Spentisi i girasoli, ammorbiditisi / i colori della mia campagna / resta un canto che accompagna / i rintocchi di una campana funebre. / Questo rimane di un'intera stagione: / un suono lento e peso /che rinnova un trasporto; / seccumi senza scricchi / per assenza si sole; / viti disabitate; / uccelli che svolazzano nel vuoto, / immemori di nidi.” Il senso di una morte incombente emana da questo lento sfiorire della natura, dallo spegnersi dei colori accesi dell'estate: cenni che divengono segni e simbolo dell'inesorabile fine di ogni cosa.
   Alcuni versi, come quelli di Ignoto verso il mare hanno poi un andamento lento e riflessivo, modulato, si direbbe, su una meditazione che proceda sugli stessi passi del poeta “E' febbraio. Non vedi per i campi / traccia di paesani; tutto è fermo. / Persino lo svolare attende l'ora calda...” L'occhio osserva la natura che lo circonda, minuziosamente, in una calma riflessiva che conduce al ricordo di un tempo lontano, di una giovinezza colta nel dolce e amaro sentimento del nostos. Il presente, infatti, non vive più delle grandi speranze di allora: “ (…) “A te mi dono / mese di nostalgie! Di quando a sera / ci si accostava al fuoco con un animo / già pronto ad incontrare primavera: (…)  E ti rivivo, / seppur la mia speranza / non cova rami in fiore”
    In altri momenti, l'interiorizzazione del paesaggio è dovuta a un sentimento di vastità panica che abbraccia il Tutto, tutto il paesaggio in un unico afflato, e la terra in un sentimento filiale: “Nessun pensiero / mi assalirebbe di dolore o di paura / sui sentieri di campo solitari / di papaveri tinti e di ginestre. / Volerei felice tra le reste / scricchiolanti di calura estiva / alla deriva / in possesso dei suoni e degli afrori /della mia madre antica.” E l'uso ottativo del condizionale avverte, appunto, dell'insanabile distacco tra la realtà e il desiderio.
   Ritorna spesso, come in E' l'aria di novembre, il parallelismo tra il trascolorare della natura e il declino della vita umana, già rilevato nei versi di un'altra silloge I dintorni della solitudine: “ (…) Resta / un silenzio che ingloba nel suo manto / la stanchezza del mondo. (…) Qui respiro il riposarsi fragile dell'aria, / lo scorrere caduco di stagioni / che sembravano eterne. (…) E se mi specchio / mi vedo stagione / che lascia alla corrente / l'ultimo verde delle sue memorie.” La consonanza tra immagini e sonorità del verso è di straordinaria bellezza e levità.  E straordinaria, come dicevo, appare la chiusa della poesia dove il pensiero e il sentire umano trovano espressione nel simbolismo universale della natura.
   Il tema dell'amore ricompare evocato dal ricordo di un paesaggio visitato insieme all'amata. E  il personaggio della dolce Delia torna nei versi di Ode, - e in altre pagine - e si mescola a questo tenue rammemorare, al vagheggiamento di momenti estatici che si fondono al paesaggio e lo nutrono di atmosfere vaghe e fluenti come il trascorrere delle stagioni nell'aria. Torna anche, nell'ultima strofa, un riecheggiamento dei versi catulliani del “soles occidere et redire possunt”, a commento di questo dileguarsi di eventi e di visioni che è la vita.
    Nell'Ecfrasi, intitolata il Canto della bellezza, compare il tema dell'idealità amorosa che si dispiega nella sublime immagine di un amore estatico, immortalato fuori dal tempo attraverso la descrizione di un gruppo marmoreo in cui gli amanti non consumano l'acme della loro attrazione, che è magnetica, fatale. E la rappresentazione delle forme è, pertanto, la rappresentazione di questa attrazione che rimane ferma in se stessa, senza trovare un divenire nella materia. Attrazione che  diviene astrattezza e pura idealità nel suo esimersi dalla incarnazione ed oggettivazione nel reale, e dunque dallo scadimento di quel gesto puro in una contaminatio che lo priverebbe di quella assoluta bellezza che lo apparenta al divino: sublime descrizione di un attimo che ferma sulla soglia del divenire un gesto estatico, e lo rende eterno simulacro dell'Amore.
   Il tema del mare, presente in vario modo nella silloge, si presta ad esprimere, per traslato, più di un aspetto della vicenda umana, e  al tema del mare è da ascrivere La barca, ultima lirica della seconda sezione: qui i versi sono tutti intessuti di metafore – barca, mari indifferenti, onde pellegrine, aspri scogli, porto, faro ecc.– afferenti per lo più a un'area semantica di dominio psicologico-esistenziale, ma anche a quella valoriale delle esperienze umane “ Sono una barca che s'inarca al mare, / sono un fuscello in balia del vento / che cerco un porto (…) I remi stenti / hanno solcato mari indifferenti / verso il chiarore delle mie speranze. (…) Ho navigato incerto in queste acque / sbattuto spesso da onde pellegrine / in scogli aspri e crudi; in rocce scure. (…) Aspetto un porto. Un faro che m'illumini; / una scia che segni la mia rotta (…)”. E i versi chiudono con un desiderio e una ricerca, dentro una quasi disperata speranza.
    La terza sezione della silloge è intitolata Canzoniere pagano; ed è da escludere, naturalmente, che l'attributo, abbia alcun riferimento al significato che esso andò acquistando in relazione alla sopravvivenza degli antichi culti politeistici nelle campagne dopo l'avvento del cristianesimo.
    In questi versi non è implicato alcun rapporto con la religione se non quello con una realtà che, nella sua idealizzazione, conserva tuttavia qualcosa di sacrale – tema anch'esso rilevato nella silloge I dintorni della solitudine - dove è intimamente rivissuto il rapporto con un paesaggio della memoria e con uno stile di vita, che riconducono l'autore alle sue lontane radici, alle ancestrali forme di un mondo dalla bellezza e purezza archetipiche.
   Compaiono, come in precedenza, immagini scelte di luoghi amati - accomunati in un canto intensamente lirico - ma ci si mostrano spesso anche in abbandono: luoghi dove, a volte, una Natura malata, quasi moribonda, parrebbe esalare un ultimo respiro “La zappa è appesa al filo del vitigno / incolto e abbandonato e tra i filari / è cresciuta gramigna (…) filtra quell'aria sana di  campagne /odorose e  feraci che a  frinire /continua  in mezzo a scorze rosicchiate // da talpe o a sibilare alle micragne /rimanenze di vita. (…) Paesaggi, cari alla memoria che rappresentano  per il poeta un richiamo vitale, un amore cui, nel vago, si mescola una incerta malinconica speranza. Così, talvolta, come nei versi di Albeggia, lo sguardo si posa con affetto sulle cose, le osserva vagheggiando un lontano, impossibile ritorno a quel passato, a quel minuscolo paradiso che racchiude gli esseri cari, il senso di un tempo che l'anima custodisce: centro e forza del suo essere stesso, richiamo e voce di cose care e sacre non più presenti, non più raggiungibili come un tempo, e da cui nasce il respiro dolce e amaro di questa poesia.
   L'amore per la bellezza è una costante della continua ricerca che i versi sottendono, dipanandosi in un cammino attraverso un universo reale e, nello stesso tempo, entro il se stesso, nell'interiorità della propria anima che della bellezza fa tesoro, di essa respira. Nella lirica San Rossore, i passi, lo sguardo, lo spirito dell'autore documentano, appunto, questo anelito e ricerca costante della bellezza nelle forme di quel grembo paradisiaco che è la Natura, la grande Madre  che questi tesori ancora elargisce, a dispetto dell'incuria e del degrado cui l'ha condotta l'uomo. L'andamento dei versi, il loro ritmo riposato e lento, ci riportano ancora a un andare “Solo et pensoso per i deserti campi...” -come già, forse più  palesemente alla pagina 49 della prima sezione - ma non per nascondere agli occhi indiscreti l'animo esacerbato da una passione amorosa divorante, bensì in meditazione, per una necessità di ascolto di se stesso in solitudine e di un colloquio col suo essere più intimo e profondo, vale a dire con la sua stessa anima. Gli accenti e le sonorità dei versi, le descrizioni dell'elemento naturale, evocano l'insistente richiamo di questa voce che tutto riporta a un ancestrale mondo di sanità e purezza, ormai in disuso, e a canoni estetici e valoriali che hanno dato un imprinting radicale all'anima del fanciullo e dell'adolescente, in un tempo lontano.
    In tutte le poesie di questa sezione, torna, infatti, e trascorre, proprio il ricordo di “quel tempo lontano”: troviamo versi memorabili in All'alcione; e in Giusto figure di un'antica età compare un aspetto di quel mondo che una sacra nicchia conserva nel suo cuore: il ricordo dei pastori transumanti la cui anima sembra vivere, in pienezza, degli spazi smisurati e della purezza dell'essere in una natura ancora incontaminata.
   Troviamo, in alcune poesie, echi e rimembranze di altri testi, per esempio in Il tempio, la memoria va  alle Correspondances  baudeleriane,  mentre  La  casa  del  colle  - ma solo per lievi assonanze -   
vagamente richiama La casa dei doganieri  di montaliana memoria.
    Anche l'amore si lega spesso a queste immagini di paesaggi, e di quel  mondo che lo santifica e lo rende eterno nel ricordo. E nelle descrizioni talora aleggia l'impronta di un passato leggendario, e il mito si frammischia alla realtà e alla storia come è, ad esempio, in Volo pagano: “Lèucade profumata di salina / memoria io ti trovai tale alla spiaggia / dell'ombrata Versilia, ove la pina / rumoreggia con tonfi sulla gaggia / dorata dai suoi tirsi (…) Mi ghermirono  / con violenza gli artigli di possenti / avvoltoi e mi levarono su rade / tanto in alto, che vidi sotto me / il brulicare d'isole affollate / di miti, ninfe, dèi e antichi re. (...)  
   Fedeli alla sostanza delle affermazioni presenti nella prosa iniziale, in cui il poeta ci dava visione del suo modo di intendere e di fare poesia, i versi di questa silloge coniugano in modo alto tradizione e modernità in una sintesi di elementi e valori che procedono naturaliter, come genuino sentire di chi questi valori ha maturato nei lunghi anni di studio e di ricerca, ed elaborato con profonda raffinata sensibilità che investe tutto il portato esperenziale della sua individualità umana, poetica e culturale.
    Ci appare consono, pertanto, trovare nella raccolta, a fare bella mostra di sé, versi che seguono lo schema fisso della tradizione, come i diversi sonetti, finemente elaborati, che punteggiano e impreziosiscono il testo. E una corposa presenza dell'endecasillabo, anche a prescindere da essi.
    Altra peculiarità è il subentrare, e a volte la mescolanza, di livelli linguistici che potrebbero sembrare eterogenei: quello di una lingua aulica, colta e raffinata, e quella di una più dimessa, di matrice bucolico-agreste, con terminologie che partono da un quotidiano che inerisce a quella specifica realtà, verso una parlata che si assottiglia in idioletto come specchio di una realtà in disuso, abbandonata e dismessa.  
    E questo scarto del linguaggio è, naturalmente, lo scarto stesso di una realtà che sempre più si allontana al nostro sguardo. Lo scarto e l'allontanamento di un mondo caro al poeta, e che il poeta torna a rivivere, e a far rivivere con la nostalgia del suo cuore innamorato e devoto.
   Una dissonanza che, al tempo stesso, convive e “consona” nell'unità dell'anima che compendia e condensa ogni diversità e disparità in nuova e unitaria acquisizione, in personale patrimonio di cultura e di vita.
                                                                                                                Rossella Cerniglia 

PREFAZIONE A I DINTORNI DELLA SOLITUDINE
DI MICHELE MIANO


Nazario Pardini ha al suo attivo molte  raccolte di poesia. È un personaggio, noto, da decenni nel campo della scrittura. Sulla sua produzione hanno scritto  i più qualificati critici letterari. Alla sua poesia sono state applicate varie chiavi interpretative, dalla motivazione esistenzialistica a quella psicanalitica alla religiosa a quella naturalistica. Ad essa egli perviene in maniera quasi inconscia, o meglio, sulla scorta di un cammino empirico, di sofferenze vissute e ben radicate nel quotidiano.
Il suo pensiero non conosce la freddezza dell’astrazione filosofica. È piuttosto un’analisi che scandaglia gli abissi della coscienza, una sorta di speleologia dell’anima che procede per constatazioni. Un narrare per sottrazione, incarnato in una lingua nuda e spinosa, che mira allo svuotamento e alla esasperazione delle forme implicite nella realtà. Un’essenzialità ascetica anima il lessico di Nazario Pardini, quasi retaggio atavico della sua terra  di Toscana come nella lirica La solitudine del mare: “Sono solo e l’inverno mi percuote / coi suoi venti freddi e burrascosi” o nella lirica E venne sera: “La luce crepitante dell’estate / invadeva la piana, delle reste / il giallo profumato d’erba stanca.” O nella lirica Vis à vis con la sorte:  “Sono troppi i ricordi. / D’altro lato / non è che il vento li possa disperdere / come fossero foglie”.
Irrompono gioiose esplosioni di eventi naturali… “Erano vive le stagioni / dei biondi girasoli” (È arrivato l’autunno),  così  la sua poesia è percorsa da accecanti apparizioni che squarciano la monocromia dell’angoscia in violenti chiaroscuri. È lo spazio per così dire lirico di un percorso intellettuale non circoscrivibile in un orizzonte destrutturante “Verranno giorni neri e dovrai scendere / dal limbo in cui accedesti / per riposare i sogni; la tua isola / sarà deserta senza gli abbandoni / che ti resero uccello migratore.” (Verranno giorni neri).
Sarebbe fuorviante definire Pardini mistico dell’essenza, perché si verrebbe  inevitabilmente ad intaccare quella razionalità di pensiero e quella misura che caratterizzano il suo fare poesia. Eppure non gli sfugge il senso della sproporzione essenziale dell’uomo, la macerazione spirituale che deriva dalla consapevolezza di essere un frammento sospeso nel vuoto del tempo ma anche di rappresentare qualcosa di unico grazie al pensiero. La natura così ritorna e riecheggia spesso sovrana e con lei i vecchi sopravvissuti di un tempo non alienato e non urbanizzato in cui “La luce crepitante dell’estate / invadeva la piana, delle reste / il giallo profumato d’erba stanca. / Sortivano i rumori dalle scaglie / di sterpaglie corrose.” (Venne sera). 
Ritorna anche l’infanzia dei ricordi come nella poesia In una immensità che ti rapina: “Lasciatemi almeno le memorie / di questo sacro fiume; il verde canto / delle acque moriture; il fluire /  delle immagini fioche di stagioni / che si affidavano a un guado indagatore / di sponde misteriose”, come il microcosmo di valori che incarna, tenace nel suo perpetuarsi tra padre e figlio, la metafora della speranza sempre presente nell’uomo. Si leggano i versi della struggente poesia Disatteso: “Disatteso mi è apparso questa notte / il campo di mio padre. Una vigna. / Sicuramente in sogno. Lui che sfrasca / ed io che apro, di ritorno da scuola, / le braccia al genitore”.
Ma sono la speranza e l’amore i cardini della poesia di Nazario Pardini: infatti anche davanti allo spettro della morte il poeta trova sempre l’urlo della rivincita. Egli vive in ogni uomo e dell’uomo scruta la trasparente caducità e per questo il poeta esalta le cose più semplici. Per lui è essenziale fermare il tempo ma anche penetrare nella mobilità mentale dell’uomo per scoprirne i disagi e la parte più creativa della sua odissea, per potere poi cogliere quegli aspetti che spesso sfuggono anche all’osservazione più attenta. “Ti posso solo dire dell’inquieto / mio essere. Del suo bramare invano; / del suo microscopico restare / davanti a un mondo che non ha ragione / di essere tanto immenso e così estraneo / al pensiero di un uomo troppo umano.” (Non chiedermi). Il messaggio della poesia deve contenere i valori più intimi della vita e dell’esperienza umana. Per questo il poeta trascende con i propri versi la realtà e nella meditazione e nella densità dei concetti egli vive la propria odissea di uomo, di cronista della propria storia ma anche di quella degli altri, che vede compagni di un viaggio senza ritorno. Proprio per questo Pardini avverte nella sua libertà una simbologia che costruisce i caratteri esteriori dell’essere, così soffocato da un dinamismo moderno senza precedenti.
Il suo non è un canto illusorio, poiché sogno, realtà ed illusione si fondono con la sua identità presente e pienamente raggiunta con il pensiero e con l’azione. Si legga la lirica La poesia si scrive: “… non pensare / alla miseria umana, al suo degrado, / fingi che quel momento sia per sempre. / È l’unico sistema per fregare / lo scettro imperituro della sorte.”
La poesia di Pardini rivela anche la preoccupazione per quanto della vita rimane, di ciò che egli ha vissuto e sofferto nell’iter terreno e comprende che soltanto l’opera del pensiero individuale può continuare a vivere dopo l’annullamento fisico. Pardini enuclea con disinvoltura la bellezza della stessa creazione nella quale s’immerge per raccoglierne i frutti della chiara odissea di uomo ma anche di spirito libero. Meditazione, recupero, densità dei concetti, abilità evocativa e psicologica del profondo sono le componenti essenziali della sua ispirazione, specchio di un’anima non inquinata, dotata com’è della capacità di comprendere e di cercare nell’uomo ciò che spesso sfugge alla maggior parte di chi affronta una ricerca tesa a rilevare le problematiche esistenziali che in ogni tempo lo hanno condizionato. Il recupero di questi valori dell’anima e del pensiero affiorano nei suoi versi, e se vede nel passato qualcosa che non può essere rivissuto e ne potenzia la carica trascendentale: il vissuto è qualcosa che non va perduto e il suo valore resta immutato; si evidenzia in una densità di concetti che il poeta riesce a farci rivivere sia metaforicamente che liricamente, in una concezione in cui l’uomo nulla di nuovo ha da scoprire di sé  se non il limite di sé stesso.
Ed è forse qui che il poeta rispecchia la sua amarezza: avverte la sottile presenza non della morte fisica ma dell’essenza dell’intelligenza umana che si perde nell’infinito cosmico, in questo ritrova se stesso e l’amarezza di non poter creare, di non potere sentire ed esprimere quella poesia del suo stesso pensiero che lo porta a vibrare all’unisono con la totalità umana. “Ci sono cose molto più feconde / a riempire il fondo della sacca: / il dolore di un figlio che ti lascia, / l’inquietudine che provi nella vita, / la gioia per un mondo ritrovato, / il senso di una noia che ti assedia, / lo smarrimento in cieli senza fine.” (L’ incendio dei papaveri, I).
Se la musicalità del verso e il fluire delle immagini sono le componenti più significative, è necessario aggiungere che sulla via della chiarificazione interiore e della conquista spirituale, il poeta non è mai solo; va oltre la suggestione crepuscolare nonostante alcune liriche appaiono il riflesso amaro della meditazione sull’esistenza, soprattutto sulla morte, contro la quale alza la bandiera della stessa poesia piena di vita e amore. E il tema del ricordo non è mai fine a se stesso ma è strumento per accedere a una sorta di dominio ancestrale della terra, in una componente solare. Il ricordo del padre e della madre diventano così indicazione di un nuovo percorso da raggiungere: “… forse non era luce, / forse non era / quella che io bramavo, / ma pur sempre la luce, quella chiara, / quella di casa mia.  / Chi dice che non fosse / quella che io cercavo.” (Verso la luce). La vera strada del ritorno, che è poi l’essenza pura del nostro vivere.
Michele Miano

  1. Commento  al volume di Nazario Pardini
  2. “ Cronaca di un soggiorno “
  3. di
  4. Carmelo Consoli
  5.  


  1. N. Pardini: Cronaca di un soggiorno,
    The Writer Edizioni, 2018

  2. Ed eccomi alle prese con un nuovo volume dell'amico caro e poeta Nazario Pardini.
  3. Occasione ghiotta per immergersi nuovamente nella parola poetica di un grande interprete della poesia contemporanea. Certamente Nazario Pardini è un maestro,un esempio luminoso di come la trasmutazione poetica possa rappresentare  in versi incantevoli ed inimitabili la vita ed il suo mistero.  “Cronaca di un soggiornopotrebbe brevemente e semplicemente definirsi come un diario temporale di stupori, emozioni,canti, ritratti, riflessioni esistenziali, bucoliche memorie  fissati per giorno, mese ed anno in lungo flashback e  a cui attingere per accertarsi diquanto sia affascinate ed arcana  l'esistenza degli uomini.  Ho scritto “potrebbe” in quanto non è semplicemente questo che rappresenta l'opera presa in esame.  Innanzi tutto osserviamo la sua introduzione. Una lezione di vita e poesia ai giovani e a tutti noi che introduce ad un proprio percorso esistenziale dove il poeta segna le tappe di un viaggio poetico ed umano. E poi camminando al suo fianco ritroviamo tutto il retroterra e la fioritura della trentennale poesia pardiniana;  in ogni lirica c'è infatti un rimando alla sconfinata e luminosa sua poetica che nel tempo si è manifestata e che tanto ci ha creato emozioni.
  4. Ed è subito la lirica che apre e riporta il titolo del volume a svelare e racchiudere il senso dello stesso, ossia la meditazione sulla sua avventura vitale perigliosa e fantastica tra la natura e gli uomini come scrive : “Ora son qui che medito/ su quello che mi resta/ non ancora corroso dal mistero: un'altra vita, degna di riposo,/ che tengo stretta al seno:.../”
  5. Una meditazione in cui  prevale una sorta di caldo intimismo e dove gli orizzonti travagliati,sconfinati e abbaglianti del suo vagare per terre,mari e cieli alla ricerca della sua amata isola si restringono assumendo tonalità decisamente più morbide, intime, confidenziali nel rievocare la sua vicenda umana. E' certamente uno sguardo più sereno e riflessivo a regolare la regia del suo pensiero, a fare resoconto memoriale ed esistenziale più disteso ma dove non certo diminuisce l'intensità della sua emozione di fronte alle visioni che affollano la sua mente.
  6. Ritroviamo in due distinte sezioni : “La mia isola dintorni” e “Familiari” il poeta  magistrale l'uomo che da sempre conosciamo il quale apre alle riflessioni esistenziali sulle grandi questioni sulla tragicità della vita intervallandole mescolandole ad una lucida memoria della luoghi e dei fatti mitici della giovinezza e dove trovano anche spazi incantevoli pennellate dedicate a città,borghi, territori  del cuore come : “ Pisa, Caprigliola, Metato, Lari “.Non si può che definirla una silloge splendida che ci collega alla mille strade percorse dal nostro autore attraverso le sue liriche e che ci conduce per mano alla sua isola  finale: “ La mia isola”  “/Dopo un lungo viaggio è là che io vivo/ la tanto sospirata verità.../” a cui fa seguito, in stretta correlazione d'ambiente e d'anima , l'altra stupenda poesia : “ Nausicaa sulle rive del Serchio”.
  7. Nella seconda parte del volume si avvicendano storie parentali con un florilegio di amati volti care figure, commiste  con la sacralità del suo territorio naturale  in un caldo e affettuoso abbraccio di ricordi, interrogazioni, stupori in cui svettano le figure paterne e materne.
  8. Una seconda parte che culmina nel luminoso colloquio con il padre: “A colloquio con il padre. Il sogno”.  E' dunque questa un'opera in cui l'instancabile navigatore, da sempre alla ricerca della bellezza dei luoghi e dei miti, si sofferma fare riflessione sulle proprie contaminazioni vitali concedendosi una pausa meditativa come lezione di vita a  stesso e ai suoi lettori; una lezione di poesia a cui non mancano le cromie e le fragranze di sempre, il linguaggio raffinato, la cultura classica con la sua profondità, la padronanza assoluta della vera parola poetica che ci conduce per mano alla ricerca della sua amata dimora della speranza con una chiusa di splendide aperture:      “ Nasceranno/nuovi virgulti a fremere ai libecci; / a popolare fronde; / a rimandare / riflessi verdeggianti di speranza”/  nell'ultima poesia : "Nel mio giardino d'oro" Carmelo Consoli

Recensione
di
Carla Baroni
a
Alla volta di leucade


Di certo sperderà questo settembre
i nostri corpi in seno alle conchiglie
insensibili ai flutti. E noi saremo
profumo di scogliera sulla baia
di flebili frangenti di memoria.

Questo libro di poesia di Nazario Pardini Alla volta di Leucade (Mauro Baroni editore, 1999) è stato amore a prima vista per il verseggiare fluido ed estremamente armonioso. L’autore concepisce la poesia come la concepisco io, ossia principalmente come musica. Per fare questo usa tutti gli artifici che la metrica impone: sinalefe, dialefe, dieresi, nonché l’uso di parole antiquate che, però, acquistano valenza nell’economia del verso per il differente numero di sillabe che la parola di uso comune avrebbe. Insomma se scrive spiro lo fa perché gli occorre un termine di due sillabe e non come la Merini per far vedere che conosce Dante o Manzoni. Mi fanno ridere tutti quei poeti, o sedicenti tali, quando in un testo, privo assolutamente di melodia, abbondano nell’apocope, altra figura che si rende necessaria solo per togliere la sillaba sovrabbondante. Pardini mescola arcaico e moderno come certi toscanesimi, cambia genere alle parole in un suggestivo linguaggio che si avvale principalmente di endecasillabi alternati a qualche emistichio. Nondimeno tutto ciò abbisogna di un lettore attento che sappia cogliere, appunto, l’intima musicalità del contesto. Albertazzi  afferma che ci vuole almeno un anno per imparare come si legge l’endecasillabo ed io concordo con lui perché l’elisione, ad esempio, di due vocali non è ad libitum, ma legata esclusivamente agli accenti. Mi sono lasciata travolgere dalla parte musicale del testo – stilisticamente perfetto – in quanto sono pochissimi i poeti che, al giorno d’oggi, ne fanno la colonna portante delle loro liriche. Ma Pardini non è solo questo. La galoppante armonia si fonde con un susseguirsi di rappresentazioni di ciò che ci circonda, metafora di sentimenti e stati d’animo. L’intercambiabilità – o forse meglio la simbiosi – del linguaggio di ciò che afferisce alla sfera spirituale con quello di quanto è invece solamente esterno costituisce la maggiore peculiarità della poesia di questo autore che lo avvicina, a volte, al primo Luzi, quel Luzi che non avrebbe mai vinto il Premio Nobel perché la bellezza dei suoi versi è intraducibile nelle altre lingue. Poesia quindi complessa con rimandi sapienziali che, però, non ne appesantiscono i testi in alcuni dei quali Pardini finge addirittura di essere qualcuno dei più noti poeti della Grecia antica dando una personale interpretazione delle loro pulsioni. Ecco, quindi, il retroterra culturale che affiora carico della crosta leggendaria con cui i posteri hanno imprigionato simili personaggi. Tuttavia le liriche migliori sono, a  mio parere, quelle in cui traspaiono i veri sentimenti dell’autore senza velature di copertura, senza la finzione di un altro ego. C’è quasi una sorta di pudore in lui nel descriversi, nel mettere a nudo la propria anima e pertanto tale compito viene affidato alla natura che lo circonda, questa natura spesso nostalgicamente dolente anche quando le immagini sembrano festose: Tornato è il tempo in cui rivedrò i greti / delle ferrate vie della Campania / tinti di luteo aroma di ginestre, / di fichi e di limoni… oppure Intanto il sole deponeva in fondo / all’orizzonte i tiepidi languori / di sopore solare. Sopra il chiaro, / nel punto in cui il mio fiume ormai si annulla / nell’insaziabile gorgo dei pelaghi, / giacevano rosate d’accidente / animelle e poiane… tanto per fare qualche esempio. Perché è in ultima analisi la natura l’amante segreta, quasi da quadernetto gotico, che l’autore ripropone in tutte le sue varianti, in tutti i suoi aspetti come può fare soltanto chi ne è profondamente innamorato. Il poeta ripercorre la propria esistenza con fatalistica rassegnazione ben consapevole dell’inutilità del rimpianto, ma conscio che nel suo dicembre steccolito gli ultimi verdi striminziti e vaghi gli esorcizzano il senso della morte. Nei versi di Pardini non c’è la stucchevole amarezza del “come eravamo” che costituisce il leit motiv dominante e ossessivo di certi poeti contemporanei, bensì la testimonianza di un’esperienza di vita che ha avuto i suoi frutti alcuni belli altri meno- ma tutti necessari nel puzzle del proprio io – e nella quale molto spesso il lettore potrà identificarsi. Ecco il carattere universale della poesia o meglio della vera poesia: la sensazione di appartenenza, di immedesimazione che infonde in chi ci si avventura. E allora perché Alla volta di Leucade la roccia bianca dalla quale, secondo la versione di Ovidio, si gettavano gli innamorati infelici? Non già per seguire l’esempio di Saffo e dimenticare ma, come Saffo, per non essere dimenticato. E Pardini ne ha tutto il diritto. (Carla Baroni, Ferrara 14 febbraio 2011)


            Recensione
di
Umberto Vicaretti
a
Alla volta di Leucade

Carissimo Nazario,


che piacere sentirti e sapere che progetti il futuro; segno che la pensione, seppure ufficialmente (e meritatamente!) acquisita sul campo, può attendere…
Grazie del dono di Alla volta di Leucade, che non avevo, e che mi conferma nella grandissima stima che ho di te come poeta e come uomo, seppure maturata dalle poche e disorganiche, ma illuminanti, letture dei tuoi versi, e confortata dalle fugaci, eppure profonde, corrispondenze, nonché dagli occasionali, ma affettuosi e umanamente gratificanti incontri. Considera queste  mie poche e modestissime note come segno della mia amicizia; meriti ben altre e ben più autorevoli analisi critiche alle tue produzioni liriche, ben degne dell’ammirazione e della stima di valenti “firme” della nostra critica letteraria. Ho letto con coinvolgimento e partecipazione la tua Leucade, dove nella prima parte, “Stagioni”, proponi una sorta di conto consuntivo, un inventario della memoria, un viaggio nel passato, rivissuto con la nostalgia delle cose buone della vita, di quando le “note stonate” degli zufoli “depredati a canne di golena /…/ andavano nell’aria / come spiriti liberi dal gioco / rischioso della vita” (Zufoli e fili d’erba). Era il tempo in cui “rifulgevano i sogni”, l’età in cui “raggi tardi e restii si staccarono / dal sole e differirono la notte” (Vaghezza). È, questo, un’emozionante rievocazione dell’ “età più bella”, senza però la leopardiana “lamentatio” per una Natura matrigna e spergiura, ma con la responsabile accettazione della vita e dell’avvicendarsi delle stagioni; non solo, e non tanto, di quelle climatiche e fisiche, quanto piuttosto di quelle che caratterizzano e segnano l’umana avventura. Si tratta di una consapevolezza allertata già da quando “dissestavamo i colli con rapine / di gemme incastonate sui declivi”, quei declivi che restano i luoghi indimenticati della memoria e in cui, “tra gli stecchi, /…/ si staglia l’ombra del nibbio”, che “scatta repentino / e fulmineo sul merlo disattento / in cuore al leccio”. Disarmonia fatale, questa, che incrina le certezze del sogno, per cui, smarriti, “si parlò di morte nell’ebbrezza / tenera di dolcezze tra i filari” (Che pensare). Eppure si doveva andare, per intraprendere quel “viaggio / che sempre ti promisi /…/ Era il viaggio di un’intera vita” (Vaghezza). La vita, dunque, come perenne viaggio. Il viaggio come partenza, fuga, ritorno, desiderio, ripartenza, approdo; ma anche il viaggio come insopprimibile impulso ad oltrepassare l’esperienza sensibile per proiettarsi in un altrove onirico e catartico, per dimenticare il quotidiano ed esorcizzare la morte: “… Volare / sopra la terra bigia, oltre la notte, / … / avanti che l’oscuro senza stelle / continuasse nero il suo silenzio” (Vaghezza). Ed è sempre il viaggio a legare, come un filo rosso, anche le altre parti del libro:  La sera di Ulisse. Poemetti serali;  Fuga da settembre;  Sulle rive del Biondo e dello Xanto-Canti arcaici. Esse declinano le diverse fasi del viaggio, certificandone la valenza e il senso, individuando in Ulisse l’universale metafora della conoscenza e della sfida, il suo sempiterno partire, ma anche il suo sempiterno ritornare e, ancora, l’inesausto ripartire. Nell’opera sono molteplici i rimandi ai grandi spiriti della letteratura, così come i contesti e gli stilemi, che spesso, tra gli altri, riecheggiano, insieme a Leopardi, Foscolo, Pascoli, i grandi del Novecento, Montale e Quasimodo, ma anche D’Annunzio e Ungaretti, e Luzi (oltre che, beninteso, Dante e Virgilio, nonché gli amatissimi classici latini e greci). Fuga da settembre ci introduce dunque in un viaggio “da”, ma non si sa per “dove”. Certo, sarebbe meglio vivere nell’incoscienza degli uccelli (ed evocato, in Da un ramo dell’acacia, è chiaramente il “passero solitario”): “Tu non sogni! / Neppure sai riflettere: la vita / è morte differita giorno in giorno”; così come sarebbe certamente meglio vivere nell’innocente inconsapevolezza dei bambini, i quali “non pensano di certo né alla vita / futura, né agli affanni che verranno /  nemmeno alla sorte” (Non pensano di certo). Ma diversa è la dimensione di chi avverte il tempo che chiama: “È qui con noi settembre. Chiude l’occhio / da prono girasole ad occidente / …/ Il tempo non ha tempo; si è fermata / per eterno la sfida dello scoglio / munito dello scudo contro il vento /…// Di certo sperderà questo settembre / i nostri corpi in seno alle conchiglie” (È qui con noi settembre). Ed è proprio la percezione della precarietà e dell’umana fragilità che spinge a ricercare non solo il senso e la direzione del vivere, ma spinge anche ad una sorta di redde rationem, ad un consuntivo della vita: “È questa l’ora / in cui tiriamo somme e meditiamo” (Come le foglie logore a settembre). E questa percezione si fa più urgente e acuta nel settembre dei nostri giorni: “Avvenne proprio là. Nel punto in cui / scorre il diletto fiume, (…) / … / quasi al termine del suo fluire” (Nel regno delle Eumenidi). È qui, nel settembre dei nostri giorni, che la percezione dell’umana fragilità si fa più acuta, e più urgente diventa l’esigenza di un consuntivo, con l’accettazione di un giudizio e con il consequenziale “affido” alle Erinni/Eumenidi, metafora immaginifica e visionaria di un dare e di un avere di esclusiva valenza etica e laica: “Ma non so se vale / di più restare immoti nella stasi / di un eterno sereno che provare / il dolce senso del dolore umano” (Fuga da settembre). Dunque, il dado è tratto; Ulisse si appresta di nuovo a partire, perché “È sempre aperta / la sfida tra l’eterno e me che cerco / con gli occhi indolenziti quella luce / che mi soverchia”. Proprio per questo irresistibile richiamo, “Ancora salperemo / oltre colonne (…) / d’impedimento ai sogni” (Il ritorno di Ulisse), questa volta per oltrepassare le colonne del mistero e dell’inconoscibile. Ma per compiere il salto “nell’oscuro senza stelle”, fortissimo è il richiamo dell’isola del sogno, indimenticato luogo della nostalgia e della memoria: Leucade. Lì sarebbe dolce ritornare per tentare l’estremo volo. Una diversione felice, una sorta di “scalo tecnico” propiziato da una sorte benigna nella terra della bellezza, alle sorgenti del canto, pura epifania della parola. Lì, con Alcmane e Saffo, e Anacreonte e Alceo e gli altri  sarebbe bello chiudere il ciclo e dare un senso alla “fuga da settembre”. Alla volta di Leucade, dunque, dove il sogno è “nell’attimo superbo / di eternare la gioia dell’amore”, e dove “Nessuno pronuncerà di certo il verbo furono / per i miei versi”, perché  Moriranno gli eroi, le bellezze / di cortigiane effimere e procaci, / ma un cantico se eccelso volerà / oltre gli spazi frali degli umani” (Da Saffo a Anacreonte).
Fuggire da settembre, dunque, per intraprendere il viaggio alla volta dell’isola del desiderio, e lì compiere l’estremo atto: “Io ti lasciai e un salto nelle oniriche / acque di Leucade non mi concesse / morte né oblio” (Fuga da settembre). Un salto rigeneratore che, invece che certificare uno iato incolmabile tra la realtà e il sogno, prodigiosamente ristabilisce un continuum tra l’ombra e la luce (“E ti rivissi, vita”), dà scacco al silenzio e all’oblio, annuncia una nuova rinascenza.
Sul piano stilistico, notevoli risultano la ricchezza sontuosa del lessico, la padronanza della metrica, il ricorso privilegiato e dominante all’endecasillabo; quest’ultimo come, starei per dire, scelta di campo, rifiuto di ogni avanguardismo, moda, sperimentalismo, avventurismo. Un endecasillabo luminoso e fonicamente accattivante, armonioso e ampio, sostenuto da una naturale e mai artificiosa declinazione delle varie figure retoriche. La nobiltà di un linguaggio alto e aulico finisce per dare alla raccolta, paradossalmente, un crisma di rivoluzionaria modernità, se vi sappiamo individuare e “leggere” originalità e invenzione, purezza visionaria e inesausta forza creativa. (Umberto Vicaretti, Roma, 27 febbraio 2011)

Recensione
di
Sandro Angelucci
a
Alla volta di Leucade e a Canti d’amore


ULISSE E LA SUA ISOLA: LA PAROLA AVVOLGENTE E INNAMORATA

DI NAZARIO PARDINI

      Nazario Pardini – poeta e scrittore di raffinata sensibilità nonché intellettuale onesto dalla lunga e sicura frequentazione letteraria – ci fa dono, graditissimo, di due raccolte in versi: Alla volta di Leucade e Canti d’amore che – crediamo – possano efficacemente compendiare l’intero e non certo esiguo spazio della sua poetica.
      Abbiamo letto i libri con l’attenzione, razionale ed emotiva, che merita una scrittura genuina, avvolgente, priva di fronzoli qual’è quella del Nostro. E ci siamo resi conto che, nonostante la distanza temporale che le separa, le due opere sono legate da un invisibile filo conduttore che, pure, permette di stabilire dei nessi, di rinvenire gli specimina di questo canto. Così, seguendo l’ordine cronologico, ci siamo occupati, per primo, del testo la cui pubblicazione si colloca sul finire dell’ultimo millennio.
      Alla volta di Leucade è un volume complesso ma non nel senso di una qualche complicatezza o difficoltà, tutt’altro, la sua fruizione è agevole, decisamente accessibile; la complessità è, qui, piuttosto, sinonimo di molteplicità. Ci spieghiamo: Pardini mostra – in queste pagine – d’essere in grado di spaziare senza mai venir meno ai presupposti, alle ragioni profonde della sua poetica, riuscendo a mettere in atto un trasferimento: la riproposizione dei temi a lui più cari sotto diverse angolazioni in modo tale che “l’afflato rurale – come sostiene Vittorio Vettori in sede di presentazione – travalic(hi) ogni limite di provincia, ricollegandosi. . ., nel segno catartico di quella solitudine che ha in sé la forza catartica della comunione, all’ideologia metafisica dell’Impero”. Il fatto stesso che l’opera si sviluppi distendendosi nelle sezioni che vanno dai Canti liguri, contenuti in Stagioni, ai Poemetti serali; dai Canti arcaici alla Fuga da Settembre è già una chiara conferma della buona disposizione dell’autore ad amplificare, quanto più sia possibile, il proprio respiro.
      Ma di cosa si nutre questa inspirazione-espirazione? Cos’è che il poeta introduce dentro di sé per, poi, dare voce ed anima alle proprie sensazioni? “Un rapporto diretto e appassionato con l’ordine naturale è alla base della (sua) formazione, è sostanza delle sue radici paesano-campagnole” – afferma Floriano Romboli in una postfazione (sulla quale torneremo ancora) di rara bellezza ed efficacia –; l’inclinazione dello spirito ad una non celata malinconia dai toni tipicamente autunnali e, su tutto, “quel fascino seducente della memoria. . . che pervade l’intera raccolta e ne garantisce la compattezza strutturale” (di nuovo, dalla postfazione).
      Sono, senza dubbio, questi gli elementi su cui si fonda la scrittura di Alla volta di Leucade; si pensi – e valgano d’esempio – ai musicalissimi versi de Lo stradone di scuola, lirica compresa in Fuga da Settembre e, forse, in assoluto tra le più belle: “Che lanciavamo sassi ti ricordi? / Erano così veloci che anche i falchi / restavano di stucco nel sentirli / sibilare nell’aria. Si sperdevano / e ancora non li ho visti ricadere. / Senz’altro hanno percorso un bel tragitto / se dura più del tempo di una vita. / . . . . / . . . Mi provo, / quando nessuno vede, ad impugnare / un cimelio di fionda. Da un tuo ciglio / miro dritto alle cime e scaglio il sasso, / ma guardo attorno e quasi mi vergogno / per come vola basso e poi ricade. . .”.
      C’è, però, un aspetto molto importante da porre in evidenza che salva il recupero memoriale pardiniano dal rischio di crogiolarsi nell’inevitabile senso di perdita ad esso connesso. Ci stiamo riferendo a quanto è implicito nel titolo stesso: partire per raggiungere l’isola, quello scoglio da cui gettarsi in mare, dopo essere fuggito da Settembre, “mese addolorato”, non concede al Nostro né la morte né l’oblio “ma solo la ricchezza / d’immagini feconde rivissute / da un’anima al di sopra delle povere / storie del giorno. . .”. Ecco, allora, che il ricordo, il salto, il volo non è motivo di dispersione parziale o definitiva bensì di perpetuità: “. . . E ti rivissi vita, / con un sentire lieve e tanto amato / che in ogni fatto lieto o meno lieto, / ma scampato, vidi un superbo dono.”.
      Se, dunque, da un lato la memoria può essere un valido aiuto quando prevale l’amarezza e la malinconia, dall’altro finisce ineluttabilmente col porre l’uomo di fronte agli eterni interrogativi correlati alla sua specifica condizione. Tanto intensamente il poeta avverte l’umana lacerazione da arrivare a chiedersi se valga “di più restare immoti nella stasi / di un eterno sereno che provare / il dolce senso del dolore umano”. E la risposta – ancora una volta – è quella della vita, quella del ritorno di Ulisse ad Itaca, quella delle sue sagge parole: “Se il mio destino vuole che ritorni / ai familiari usi ed ai barlumi / dell’isola agognata, porterò / con me più luminoso il cielo.”. Ma la sfida “è sempre aperta”: “come restare indifferenti – dice Floriano Romboli – all’impulso vitalistico che da tanti secoli l’Ulisse omerico e post-omerico ci trasmette?”. Non si può, non può sopirsi nell’anima “la voglia del viaggio” sia che questo equivalga a “. . . tornare / nuovi. O superbi spegnerci per via.”.
      Ne siamo convinti: è l’ulissismo, in Pardini, a giocare il ruolo preponderante; ed è il medesimo spirito, la medesima sete di conoscenza a tessere il filo – di cui si parlava in apertura – per mezzo del quale è possibile riscontrare quella coerenza, quella continuità creativa che è poi la base del suo e di ogni autentico fare poesia. Già, il vero poeta è sempre fedele ai suoi principi ispiratori; certo, l’arte sua s’evolve, s’affina, matura ma mai gli farà rinnegare le sorgenti del canto. Dalla stessa polla sgorgano, quindi, come tanti rivi anche le liriche successive, raccolte sotto il titolo di Canti d’amore e, sebbene esplicito, ciò non toglie che il tema venga trattato – in funzione di quella capacità di spaziare di cui si è detto – con estremo riguardo, appunto, alle priorità, agli stimoli dettati dalle convinzioni più radicate e tenaci.
      Ci sono molti passi che dimostrano la costante attenzione riservata all’incessante fluire della vita, e l’amore non può, come tutto, che esservi immerso: “Tanto vale (allora) abbandonarsi alla corrente, / ai flutti che trascinano / i nostri pensieri nel vuoto azzurro.”; tanto vale serbare intatto l’istante che “resta / all’anima aggrappato / ed alla pelle”, l’istante eterno che “né svanisce né muore” sul volto dell’amata “che incolto ancor più / pare divino.”. E’ così che il sentimento amoroso diventa parte integrante della poesia pardiniana, e acquista – a nostro modo di vedere – una valenza che lo eleva al di sopra della nobile, ma pur sempre misera e terrena, esperienza umana. E’, di nuovo, Ulisse, che torna dalla sua Penelope rinnovato e pronto a riprendere il mare, che è consapevole ora del vento che soffia sulle sue vele, a dire: “Ma io ti abbraccio / piccola donna amica dei miei sogni / . . . . / . . . Ed è reale. / Tutto quello nascosto / dalle crepe di un tempo indifferente / ritornerà vivace e colorito. / Io vincerò quel tempo. . .”.
      Con queste premesse, “le tematiche erotico-amorose. . . non riguardano solo il femminile, ma il tutto: la natura, la religione, il mondo nella sua misteriosa complessità (v. nota critica di C. Lapusata). La natura, quella delle colline cosparse di uliveti e di vigneti, quella della sua terra pisana si rispecchia ovunque: è bellezza desiderata e amata, è l’immagine delle donne dallo “stampo etrusco” che “mischiano al sole e al cielo / aperto ai campi / volti bruniti / sui capelli smossi.”. I temi nostalgici, ma anche quelli primaverili e solari, che accompagnano le descrizioni naturali sono esemplari e denotano un innamoramento senza riserve, un vincolo di sangue con le albe e i tramonti che si susseguono, risvegliano e addormentano il paese natìo.
      Ma – l’abbiamo detto – questa non è parola che si accontenta di restare dentro i confini; ama muoversi liberamente, ama universalizzarsi partendo e tornando al luogo d’origine, è luna piena “sui camini affocati” contro cui “si staglia l’ombra del nibbio” per lo scatto repentino “sul merlo disattento in cuore al leccio”, è l’immagine cara che “con la mano / deterger(à) ancora le camelie / asperse dal tatto verginale / d’iniziazione pudica alla vita.”.
      E, a proposito di pudore, come non convenire con Aristide La Rocca che proprio nella discrezione trova quella qualità che conferisce al dettato di Pardini “una sorta di autonomia espressiva, di nobile idioma” che mentre “si fa ammirare si tiene a rispettosa distanza” dando voce ad un “tenero bisbiglio” percorso dalla memoria.
      Quest’ultima considerazione ci proietta, quasi senza accorgercene, sul versante formale: siamo al cospetto (sia per l’uno che per l’altro volume) di un versificare elegantissimo: il ricorso al metro tradizionale, l’endecasillabo, non è mai manieristico ma sempre sostenuto dalla necessità che il canto sia il più equilibrato ed armonico possibile (“ciò che subito si avverte dalla lettura. . . è la grande musicalità che promana dai suoi versi”, v. nota critica di E. Andriuoli). Alla stessa esigenza rispondono le figure retoriche e, non di rado, l’uso dell’enjambement che contribuisce, a nostro avviso, in modo determinante, alla fluidità ed al felice dispiegarsi dell’elaborazione poetica.
      Cos’altro aggiungere se non ringraziare l’autore per averci offerto l’opportunità d’ascoltare una voce, troppo spesso mistificata, che riconosciamo distintamente come l’unica, inconfondibile voce del vero. Saremo di parte, ma quando s’incontra un poeta come Pardini ci si sente più vivi e meno esposti ai soprusi di chi, ogni giorno, fa di tutto per offendere la poesia. (Sandro Angelucci, docente, poeta, scrittore, saggista e critico letterario, Rieti, 06/03/2011: Nazario Pardini. Alla volta di Leucade. Mauro Baroni Ed. Viareggio-Lucca. 1999. Pp.128. € 9,3– Canti d’amore. Book Sprint Ed. 2010. Pp.86. € 7,00.)

  
Recensione
di
Pasquale Balestriere
a
Alla volta di Leucade e Foglie di campo, aghi di pino, scaglie di mare

Nazario Pardini, poeta


È davvero un evento fortunato l’incontro con la poesia di Nazario Pardini, perché l’humanitas che la pervade e  connota è di tale ampiezza e spessore da coinvolgere immediatamente  il lettore in un’avventura che è nello stesso tempo percorso e ri-creazione dell’universo poetico  prorompente  dai versi di questo toscano colto, sensibile, generoso, ispirato.
Sono due le sillogi che mi hanno rivelato, attraverso una lettura attenta, piacevole e, perciò, partecipe, la dimensione artistica di Pardini: Foglie di campo, aghi di pino, scaglie di mare (L’Autore Libri Firenze, 1993, pp.70) e Alla volta di Leucade (Mauro Baroni Editore, Viareggio-Lucca, 1999, pp. 126, con prefazione di Vittorio Vettori e postfazione di Floriano Romboli). In modo certamente inconsueto si apre la prima silloge, introdotta da nove versi del carme 8 di Catullo, il famosissimo “Miser Catulle, desinas ineptire”, posti quasi come epigrafe dell’opera e pour cause, come vedremo immediatamente. Dopo un assaggio lievemente pennellato di quella natura che più avanti dilagherà, elemento fondante e necessario dell’ispirazione di Pardini, il lettore incontra la figura di Delia. Il nome riporta immediatamente al primus amor di Tibullo, la bionda lungochiomata Delia, che occupa totalmente il cuore del poeta latino e ben cinque elegie su nove del primo libro. Sicché, instaurando un gioco di rimbalzi più o meno allusivi, si può quanto meno intuire  perché Pardini abbia aperto la sua silloge con la citazione catulliana, culminante nell’accorata, più che sdegnata, invettiva a Lesbia: siamo di fronte a tre figure femminili accomunate da una storia d’abbandono, nel senso che sono state esse a porre fine -in questa sede non ci importa come, quando, perché- ad una storia d’amore; e, conseguentemente, il  dolore del distacco e dell’abbandono, non disgiunto da una volontà autoconsolatoria,  offre materia di canto ai tre poeti. In particolare, Pardini dedica a Delia un polittico in nove quadri; ma questa immagine riappare più volte  e permea di sé la sostanza poetica di altre, e numerose, liriche. Il motivo del ricordo e del rimpianto, che domina la raccolta, trova la sua collocazione più congeniale in un contesto naturale - elegiaco e insieme georgico- assiduo, ricco e vario, dove si stemperano sentimenti pungenti e palpiti violenti del cuore e dove si realizza e trova compimento un tipo di poesia interamente e circolarmente umano e quasi sensoriale; un tipo di poesia che erompe da  pienezza di cuore e da tripudio d’affetti. Ma c’è di più. C’è la figura paterna che urge nel cuore e nei ricordi e che si manifesta in vari intensi  momenti poetici (Mio padre in sanatorio, Le strade della mia borgata, Raggi fuggenti, ma soprattutto Gli occhi di mio figlio, dove il poeta  magistralmente chiude in sé ed incarna la doppia condizione  paterna e filiale). In Foglie di campo, aghi di pino, scaglie di mare, che è opera prima e che già dal titolo lascia ben intuire il milieu essenzialmente naturale che la sostanzia e la pervade, Nazario Pardini mostra di possedere gli strumenti del poeta: scrive in versi liberi, ma impiega con una certa frequenza l’endecasillabo e il settenario; ricorre a rime, assonanze,  consonanze, allitterazioni, metafore, iterazioni con l’intento di sottolineare, anche attraverso scarti semantici, i momenti salienti del suo canto. Ma è nella splendida silloge Alla volta di Leucade che il poeta, con risoluta dolcezza, prende il lettore per mano e lo guida nel suo mondo, a sentirne l’estrema ricchezza di elementi fisici, così necessari nella sua dialettica creativa, e l’intensità dei sentimenti, la quale ben si coniuga con un nitore formale che rivela una lunga frequentazione di autori classici: greci (in particolare Omero e i lirici), latini ( soprattutto Lucrezio, Catullo, Virgilio, Orazio, gli elegiaci), francesi  (tra gli altri Baudelaire, Verlaine, Rimbaud), italiani (Dante in primo luogo, poi Foscolo, Leopardi, fino a Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale). Leucade, innanzitutto: l’isola delle bianche rocce, del salto di Saffo e della catartica soluzione degli amori impossibili. Non sono certo che qui, in qualche modo, Leucade richiami ai Dialoghi con Leucò di Pavese, come pur sostiene Vittorio Vettori nella prefazione . Mi pare piuttosto che il titolo ci riporti a un nome, Saffo, poetessa molto amata da Pardini per fatto umano e artistico, e a una condizione:  il (ri)acquisto della serenità, intesa come affrancamento dal turbinio delle passioni (il “gran salto” liberava –come è noto– in un modo o nell’altro dalla sofferenza d’amore); ma soprattutto il titolo ci riporta  a un mondo, quello classico, paradigma di bellezza, misura, armonia. In più il bianco (λευκóς -> λευκάς -> Λευκάς -άδος, Leucade), con tutta l’area semantica che a questo colore si richiama ( chiaro, brillante, splendente, limpido, candido, sereno), allude ad un processo di purificazione e di elevazione, ad una conquista quasi metafisica di sé, cui  anche un moderno sacerdos musarum non può sottrarsi; o magari a un’ideale condizione da perseguire, se non da conseguire: quella di un terso e vivo equilibrio, in cui i fili del tempo si dipanano senza sussulti per una sottesa solida filosofia che aderisce saldamente alla vita e alle cose, pur nella consapevolezza della loro precarietà. Anche le scelte lessicali, che talvolta rimandano al parlato (querci, rame, ragia, moreccio, ecc.), cospirano a realizzare questa condizione di adesione al mondo esterno nel quale e con il quale Pardini snoda il suo percorso umano e  poetico. E che ricchezza poetica, che spessore creativo in quest’opera densa e omogenea sotto il profilo dell’ispirazione! Le sezioni che la compongono (quattro: Stagioni -con la sottosezione Canti liguri -,  La sera di Ulisse - Poemetti serali,  Fuga da settembre,  Sulle rive del Biondo e dello Xanto - Canti arcaici ) sono cementate dai temi di canto che percorrono la silloge in ogni direzione e dichiarano la  vita, gli affetti e gli slanci del cuore. Ci troviamo di fronte a una poesia piena e matura, descrittiva e riflessiva, di assenze e di ritorni, di scoperte e di stupori, di ricordi e, talvolta, di rimpianti. Eppure la rievocazione non è mai fine a sé stessa: immergersi nel passato non solo consente al poeta di recuperare e rivivere esperienze e sensazioni, di  aver consapevolezza del fluire delle cose,  ma anche di indagare la singolarità, e quasi la fissità, dell’attimo, numero primo e realtà indivisibile della vita dell’uomo. Inoltre, la natura. Si tratta di una presenza sostanziale e dialettica nell’intero iter creativo del poeta di Arena Metato, che ad essa fa riferimento prima e più ancora che agli esseri umani; la natura come magna mater, compagna di viaggio, presenza vitale; come vigore, misura, bellezza; come maestra, esempio, monito. Natura a cui aderire come a realtà affascinante e necessaria,  non annullandosi però, non naufragandoci, ma conservando coscienza di sé e della propria humanitas. Non c’è da meravigliarsi dunque che il cielo  (o il mondo arboreo ) sia animato da colombi, passeri, rondini, falchi, tortore, aironi, cormorani, poiane, alcioni, usignoli, folaghe, tordi, beccacce, fringuelli, allodole, procellarie, nibbi, merli, gipeti, gabbiani, rondoni; né che i prati, i campi, i boschi esibiscano un’opulenza vegetale:  pesco, alla rinfusa e a piene mani, gigli, ginestre, glicini, girasoli, biancospini, ninfee, equiseti,  acacie, castagni, elci, rosmarino, mirto, timo, corbezzoli, ginepri, fichi, limoni, faggi, crescione, cipressi, pioppi, querce, peri, betulle... Vale la pena di fermarsi qui. Ma queste occorrenze naturalistiche non hanno assolutamente nulla di gratuito o scontato, perché ogni animale, ogni essenza arborea, arbustale o erbacea è, nella poesia di Pardini, strettamente funzionale al singolo momento creativo o ne è addirittura sostanza e fondamento; ed anche perché qui la natura è segno e metafora della vita nei suoi vari aspetti e sviluppi; e provoca (al)la poesia. Ma torniamo a Leucade, alla luminosità del sogno, alla dimora dello spirito, all’avvincente grazia e nitidezza del mondo classico rivissuto dal poeta con grande acutezza, padronanza e personalità, se convoca e coinvolge nel  canto i grandi poeti dell’antichità, se dà loro voce per esprimersi, se affianca ad essi i classici moderni, se degli uni e degli altri recupera forme, stilemi, spunti, provocazioni poetiche insomma, per dare vita a testi squisitamente suoi, a versi che scuotono l’animo e comunicano sensazioni irripetibili. Con in più un pizzico di malinconia,  soprattutto  nella sezione Fuga da settembre, dove la poesia eponima (e finale) rappresenta, in linea con le altre, la triste dolcezza di questo mese tanto caro al poeta, forse perché racchiude i significati dell’autunno, di ogni autunno che -è opportuno ricordarlo-  è anche la stagione della pienezza e della maturità.  Eppure a me pare che soffermarsi solo su qualche lirica farebbe torto all’intera silloge. Alla volta di Leucade  è bella tutta,  appassiona e avvince in quanto prodotto letterario di assoluto rispetto e testimonianza di voce poetica sicura e verace, polimorfa e vibratile, essenziale e sofferta. Che è quella di Nazario Pardini. (Pasquale Balestriere, poeta, scrittore, e critico letterario, Barano d’Ischia, 07/ 05/2011)

Recensione
di
Carla Baroni
a
L’azzardo dei confini

Nazario Pardini


L’AZZARDO DEI CONFINI


Lasciavo che il mio animo volasse
libero fra le nubi o si mischiasse
per l’ampia piana…


In questo suo ultimo libro “L’azzardo dei confini” (Booksprint edizioni, 2011) Nazario Pardini mescola poesie recenti ad altre più datate senza, però, seguire un ordine cronologico. La silloge, quindi, non vuole avere le caratteristiche di un diario dove, a grandi linee, si possano vedere i mutamenti dell’uomo con il cambiare dell’età. Invece, a prima vista, il titolo potrebbe suggerire la voglia dell’autore di oltrepassare tutti i possibili limiti della poesia mescolando testi di un’ortodossia perfetta, quali i sonetti, ad altri in cui il verso libero non rispetta alcuna regola metrica in una sua personale ricerca di nuovi spazi innovativi. Tra i due estremi un’infinita gamma di variazioni prosodiche di suggestivo effetto musicale ci mostra l’indiscussa abilità del poeta nel giocare con le parole piegandole al suo volere e introducendo anche diversi neologismi. Comunque è sempre l’endecasillabo, anche se spezzato in vari modi, a far da base alla sua melodia. Tuttavia quell’azzardo dei confini penso abbia una diversa chiave di lettura decifrabile attraverso la lirica di copertina: Forse rincaserà/ l’anima mia in fuga negli abissi./ Ritornerà in prigione nel suo corpo,/ riprenderà i suoi occhi per mirare/ l’immensità del mare,/ per pensare di nuovo che la vita/ è quel fuscello breve che dimena/ in un’immensità che ti rapina. È l’anima, quindi, che sta azzardando tutti i confini dell’essere, un’anima in espansione come lo può essere quella di un poeta, e che infine, prima o poi, tornerà nel suo alveo naturale a fare i conti con la banale quotidianità della vita. Pardini ha una sua concezione particolare della poesia: qualsiasi argomento voglia trattare deve passare attraverso il tutto della memoria. Infatti la memoria non raffigura ma trasfigura: il ricordo diventa come una specie di duna su cui, con il tempo, altra sabbia si sedimenta. Mutandone i contorni e la forma. Così una stessa visione ha incidenza diversa da persona a persona. E a nuova vita/ ritorna il memoriale, si arricchisce/ di forma e di sostanza tanto che/ ben poco ha a che vedere col reale recita il poeta a conferma. È questo, quindi, il modo in cui l’anima riesce a travalicare il contingente ed a non essere schiava di esso. Anche quando l’autore sembra descrivere al presente qualche località a lui cara c’è sempre quella velatura che si sovrappone a tinteggiare di onirico il dettato. Va inoltre evidenziato il grande amore per la natura di Pardini che è lo specchio deformante su cui egli proietta i propri sentimenti, il tramite attraverso il quale si porge indirettamente al lettore per quella sorta d’innata pudicizia che lo trattiene dallo svelarsi completamente. E allora mi viene spontaneo azzardare: quale legame esiste tra anima e memoria se questa ci porta a privilegiare nel ricordo soltanto ciò che ha colpito l’anima? Esiste una connessione od una sovrapposizione? Forse la risposta ce la dà lo stesso Pardini con questi bellissimi versi: E spero solo che la luna in cielo/ porti a spasso del sole, col suo volto/ perlaceo e le sue chiome, dei frammenti/ di luce. Tanto spero di vedere:/ se privo di ricordi, alle colline/ nell’ora del ritorno il mio partire. (Carla Baroni, poetessa, scrittrice e critico letterario, Ferrara, 02/05/2011)   


LA POESIA DI NAZARIO PARDINI
(ASPETTI E MOTIVI DELLA POESIA
DI NAZARIO PARDINI)

Io non so quale e quanta valenza artistica possano avere le migliaia di premi letterari banditi ogni anno in Italia né con quanta onestà, correttezza e competenza essi siano condotti e realizzati. So però che essi sono un’occasione di conoscenza, talvolta di frequentazione (anche se solo telefonica o più generalmente telematica), più raramente di amicizia. È così che ho conosciuto Nazario Pardini, come uomo e come poeta. Del tutto encomiabile nell’una e nell’altra prospettiva. L’humanitas, nel senso più ricco e profondo del termine, connota splendidamente la personalità e l’opera di questo sapido toscano, colto e gentile, generoso e ispirato; e perciò il lettore, cui non difettino cuore e sensibilità, può disporsi ad una straordinaria avventura, ad un percorso poetico intensamente emotivo, risolto in una dimensione di classica armonia e compostezza. Già nelle prime raccolte è ben evidente quale sia per Pardini la realtà che, urgendo in lui, lo spinge irresistibilmente al canto, reclamando voce e vita propria: è la pervasiva e transeunte bellezza della vita, è la natura intesa come “bella d’erbe famiglia e d’animali”, ma soprattutto come profonda essenza vitale, è il mondo degli affetti familiari, è l’amore, è il mito della bellezza e del mondo antico. Già nelle prime raccolte Pardini mostra di possedere gli strumenti del poeta: scrive in versi liberi, ma impiega con una certa frequenza l’endecasillabo e il settenario; ricorre a rime, assonanze, consonanze, allitterazioni, metafore, iterazioni con l’intento di sottolineare, anche attraverso scarti semantici, i momenti salienti del suo canto. E posso dire, ora che posseggo più dei tre quarti delle pubblicazioni del poeta pisano, che la sua poesia ha sempre sicura ed elevata dignità letteraria, accentuato spessore umano, capacità di penetrare nel cuore e nella mente del lettore, suscitando affetti ed emozioni. Ma è nella splendida silloge Alla volta di Lèucade (Mauro Baroni Editore, Viareggio-Lucca, 1999, pp. 126, con prefazione di Vittorio Vettori e postfazione di Floriano Romboli) che il poeta, con risoluta dolcezza, prende il lettore per mano e lo guida nel suo mondo, a sentirne l’estrema ricchezza di elementi fisici, così necessari nella sua dialettica creativa, e l’intensità dei sentimenti, la quale ben si coniuga con un nitore formale che rivela una lunga frequentazione di autori classici: greci (in particolare Omero e i lirici), latini ( soprattutto Lucrezio, Catullo, Virgilio, Orazio, gli elegiaci), francesi (tra gli altri Baudelaire, Verlaine, Rimbaud), italiani (Dante in primo luogo, poi Foscolo, Leopardi, fino a Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale).
Lèucade, innanzitutto: l’isola delle bianche rocce, del salto di Saffo e della catartica soluzione degli amori impossibili. Non sono certo che qui, in qualche modo, Lèucade richiami ai Dialoghi con Leucò di Pavese, come pur sostiene Vittorio Vettori nella prefazione. Mi pare piuttosto che il titolo ci riporti a un nome, Saffo, poetessa molto amata da Pardini per fatto umano e artistico, e a una condizione: il ri-acquisto della serenità, intesa come affrancamento dal turbinio delle passioni (il “gran salto” liberava - come è noto - in un modo o nell’altro dalla sofferenza d’amore); ma soprattutto il titolo ci riporta a un mondo, quello classico, paradigma di bellezza, misura, armonia. In più il bianco (λευκóς -> λευκάς -> Λευκάς -άδος, Lèucade), con tutta l’area semantica che a questo colore si richiama ( chiaro, brillante, splendente, limpido, candido, sereno), allude ad un processo di purificazione e di elevazione, ad una conquista quasi metafisica di sé, cui anche un moderno sacerdos musarum non può sottrarsi; o magari a un’ideale condizione da perseguire, se non da conseguire: quella di un terso e vivo equilibrio, in cui i fili del tempo si dipanano senza sussulti per una sottesa solida filosofia che aderisce saldamente alla vita e alle cose, pur nella consapevolezza della loro precarietà. Anche le scelte lessicali, che talvolta rimandano al parlato (querci, rame, ragia, moreccio, ecc.), cospirano a realizzare questa condizione di adesione al mondo esterno nel quale e con il quale Pardini snoda il suo percorso umano e poetico. E che ricchezza poetica, che spessore creativo in quest’opera densa e omogenea sotto il profilo dell’ispirazione! Le sezioni che la compongono (quattro: Stagioni -con la sottosezione Canti liguri -, La sera di Ulisse - Poemetti serali, Fuga da settembre, Sulle rive del Biondo e dello Xanto - Canti arcaici ) sono cementate dai temi di canto che percorrono la silloge in ogni direzione e dichiarano la vita, gli affetti e gli slanci del cuore. Ci troviamo di fronte a una poesia piena e matura, descrittiva e riflessiva, di assenze e di ritorni, di scoperte e di stupori, di ricordi e, talvolta, di rimpianti. Eppure la rievocazione non è mai fine a sé stessa: immergersi nel passato non solo consente al poeta di recuperare e rivivere esperienze e sensazioni, di aver consapevolezza del fluire delle cose, ma anche di indagare la singolarità, e quasi la fissità, dell’attimo, numero primo e realtà indivisibile della vita dell’uomo. Inoltre, la natura. Si tratta di una presenza sostanziale e dialettica nell’intero iter creativo del poeta di Arena Metato, che ad essa fa riferimento prima e più ancóra che agli esseri umani; la natura come magna mater, compagna di viaggio, presenza vitale; come vigore, misura, bellezza; come maestra, esempio, monito. Natura a cui aderire come a realtà affascinante e necessaria, non annullandosi però, non naufragandoci, ma conservando coscienza di sé e della propria umanità. Non c’è da meravigliarsi dunque che il cielo (o il mondo arboreo ) sia animato da colombi, passeri, rondini, falchi, tortore, aironi, cormorani, poiane, alcioni, usignoli, folaghe, tordi, beccacce, fringuelli, allodole, procellarie, nibbi, merli, gipeti, gabbiani, rondoni; né che i prati, i campi, i boschi esibiscano un’opulenza vegetale: pésco, alla rinfusa e a piene mani, gigli, ginestre, glicini, girasoli, biancospini, ninfee, equiseti, acacie, castagni, elci, rosmarino, mirto, timo, corbezzoli, ginepri, fichi, limoni, faggi, crescione, cipressi, pioppi, querce, peri, betulle... Vale la pena di fermarsi qui. Ma queste occorrenze naturalistiche non hanno assolutamente nulla di gratuito o scontato, perché ogni animale, ogni essenza arborea, arbustale o erbacea è, nella poesia di Pardini, strettamente funzionale al singolo momento creativo o ne è addirittura sostanza e fondamento; ed anche perché qui la natura è segno e metafora della vita nei suoi vari aspetti e sviluppi; e provoca (al)la poesia. Ma torniamo a Lèucade, alla luminosità del sogno, alla dimora dello spirito, all’avvincente grazia e nitidezza del mondo classico rivissuto dal poeta con grande acutezza, padronanza e personalità, se convoca e coinvolge nel canto i grandi poeti dell’antichità, se dà loro voce per esprimersi, se affianca ad essi i classici moderni, se degli uni e degli altri recupera forme, stilemi, spunti, provocazioni poetiche insomma, per dare vita a testi squisitamente suoi, a versi che scuotono l’animo e comunicano sensazioni irripetibili. Con in più un pizzico di malinconia, soprattutto nella sezione Fuga da settembre, dove la poesia eponima (e finale) rappresenta, in linea con le altre, la triste dolcezza di questo mese tanto caro al poeta, forse perché racchiude i significati dell’autunno, di ogni autunno che - è opportuno ricordarlo - è anche la stagione della pienezza e della maturità. Eppure a me pare che soffermarsi solo su qualche lirica farebbe torto all’intera silloge. Alla volta di Lèucade è tutta interessante, appassiona e avvince in quanto prodotto letterario di assoluto rispetto e testimonianza di voce poetica sicura e verace, polimorfa e vibratile, essenziale e sofferta. Che è quella di Nazario Pardini (Pasquale Balestriere, poeta, critico letterario, Barano d’Ischia, 15/06/2012).


Sulla poetica di Nazario Pardini

Ho apprezzato molto e condivido pienamente l’intervento critico di Pasquale Balestriere sulla poetica di Nazazio Pardini: una disamina completa e profonda sull’aspetto stilistico, formale e spirituale, scritta con autorevole competenza e, soprattutto, con humanitas riverberata in humanitas.
Ho avuto l’onore e la fortuna di conoscere personalmente Nazario Pardini la primavera scorsa, ed è stata immediata la percezione di comunicare, appunto, con un “toscano, colto e gentile, generoso e ispirato”, che conosce bene la complessità della parola e sa restituirne il dettato con il linguaggio dell’autentica poesia. Pardini dipana la sua/nostra straordinaria avventura 'Alla volta di Lèucade' alieno da insidie e pretenziose ideologie, in un 'percorso umano e poetico' attento agli accadimenti del vivere e capace ancora di commuovere (Daniela Quieti, scrittrice, giornalista).


Considerazioni
su
Nazario Pardini
 Alla volta di Lèucade. Baroni Editore. Viareggio. 1999
                                        
Quest’anno, quando la giuria del Premio Letterario Nazionale “Mario Tobino”, organizzato dal Comune di Vezzano Ligure (di cui anch’io ho fatto parte) ha dato il proprio giudizio sulle opere pervenute alla sezione libro edito di poesie, si è trovata subito in piena sintonia: Alla volta di Lèucade di Nazario Pardini meritava l’alloro; infatti, si imponeva nettamente su tutti gli altri. Chi ha fatto parte di qualche giuria letteraria di premi “puliti” (quelli che non conoscono interferenze di interessi editoriali od altro) sa che spesso, davanti ad opere che si equivalgono, diventa difficile dare un giudizio, fare una graduatoria. Ebbene, quest’anno Alla volta di Lèucade ci ha notevolmente agevolato il compito e, nondimeno, ha rappresentato per me una gradita opportunità insperata: mi ha fatto conoscere personalmente Nazario Pardini. Invero, il suo nome mi era noto, ma poco conoscevo delle sue opere e niente del suo blog. Soprattutto, non conoscevo la sua generosità. Grazie a lui, alcune pagine della memoria, che mi sono particolarmente care, hanno potuto uscire dal cassetto ed essere accolte nel suo blog. Così, ho potuto ricordare alcuni amici poeti ormai scomparsi: Giuseppe Sciarrone, Anna Maria De Ghisi, Sirio Guerrieri, Giovanni Petronilli, ecc. Sì, grazie a Pardini, l’immagine di questi amici ha potuto rifiorire. Tutto questo mi
ha fatto sentire un appagamento interiore.
Ho letto con molta partecipazione quello che Balestriere ha scritto di Alla volta di Lèucade e di Pardini. Condivido quanto ha saputo esprimere con proprietà e grazia. Conosco da molto tempo il poeta Balestriere; più volte è stato premiato in concorsi della cui giuria facevo parte. Ora, posso dire, di conoscerlo anche come “critico”. È altrettanto bravo come lo è nella poesia (Paolo Bassani, poeta, scrittore, critico letterario).


Sulla poetica di Nazario Pardini

Caro Nazario, la tua poesia è come una partitura musicale in cui spiccano note alte che sanno dosare un linguaggio memorico della migliore qualità. Che dirti? Ineguagliabile, mi sembra il termine esatto. Mi ci vorrebbero pagine e pagine per mostrarti "nero su bianco" che il tuo simbolismo è palpabile, che la tua caratura è alta e possente, che possiedi dentro in interiore homine quella sigla inconfondibile che è la poesia vera, quando essa è vigile, sincronica, attenta alle ragioni del cuore, oltre che a quelle linguistiche e letterarie di alto rango. Auguri di cuore, con stima e amicizia affettuosa (Ninnj Di Stefano Busà, poetessa, scrittrice, critico letterario).

Sulla poetica di Nazario Pardini

L'amico Pasquale è profondamente penetrato nella tua poetica tanto da scendere sino alle fonti segrete della tua creatività e illuminarle. Come non condividere con lui l'emozione della tua poesia talmente permeata dalla bellezza della vita ed armoniosamente composta. Versi i tuoi magistrali forgiati da una lunga frequentazione del mondo classico antico e poi tra i grandi poeti della nostra contemporaneità che esprimono la navigata esperienza del maestro, capace di utilizzare, al meglio, tutti gli strumenti che il vero componimento poetico esige. Una voglia di canto la tua come solo esclusivi poeti hanno, in cui si esaltano essenze vitali primarie, dalla natura, alla famiglia, alla vita pienamente vissuta, tutte elevate a dignità  assoluta per cui si può parlare di poetica in cui vince il mito della bellezza, talmente ben composta da creare profonde emozioni in chi la legge. E così è Alla volta di Lèucade dove è il mondo classico ad assurgere a simbolo di armonia, bellezza, purificazione, elevazione spirituale. È evidente che c'è nella tua memoriale creazione poetica un bisogno vitale di riappropriazione di esperienze, sensazioni,valori  tali da colmare la differenza con la condizione precaria del vivere. Questo, certo accade nella maggioranza dei poeti, ma nel tuo caso il confine tra passato e presente sembra annullarsi in un continuo, ininterrotto respiro rigenerante. E che dire del tuo pianeta “natura”! Non c'è che da rimanere estasiati essendo esso contenitore affascinante di fragranze, presenze cromatiche, suoni e canti; punto di riferimento vitale, edenico, per completare e arricchire la propria umanità. Davvero una grande poesia la tua Nazario testimonianza di una cristallina, sorprendente vocazione e di profonda cultura, specchio fedele di una rara personalità, colta, gentile, umanissima (Carmelo Consoli, poeta, scrittore, critico letterario).

Sulla poetica di Nazario Pardini

Resto ammirato dal magistrale intervento di Pasquale Balestriere sulla capacità poetica di Nazario Pardini. Devo nascondere modestia per aggiungere una mia considerazione. Mi vanto d’aver percorso molto mare, in una solitudine di esseri limitata al coniugale, cercando ripari, e tracce di passato trascurate, nelle baie dimenticate. Ho creduto nell’emozione di respirare il pensiero di colui che, qualche millennio fa, mi ha preceduto con lo stesso sguardo, così come nell’oscurità del mare al gran largo ho dialogato con l’infinito. Avrei voluto tradurre in parole il grande vento che ho sentito dentro, ma sono poeta solo per me stesso. Non posseggo, mi son detto, ricerca mentale che si adegui e che trasmetta; dovrebbe navigare con me un poeta in grado di scoprire il mio intimo attraverso il mio silenzio. Ho scoperto che non era necessario. Leggendo i versi di Nazario Pardini ho trovato il Poeta che avrei voluto avere vicino, che avrei voluto essere io stesso, lungo le emozioni che soprattutto il Mediterraneo custodisce e riflette nel tempo. Poco a poco mi sono ritrovato io il passeggero del Poeta lungo le coste delle Ioniche, lungo le rive della Caria e della Licia, lungo le spiagge della mia angoscia... E lo ringrazio nascondendogli la commozione (Brunello Gentile, scrittore).


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Nazario Pardini
Alla volta di Lèucade. Baroni Editore. Viareggio. 1999

Interessante scoperta quella della silloge di Nazario Pardini, Alla volta di Lèucade. La formazione di Pardini è presente nei suoi versi - un ritmo regolare e musicale prevalentemente di endecasillabi - dove i classici, dai Greci fino ai nostri autori più importanti, offrono elementi di interpretazione della vita, o vengono recuperati per analogia o per contrapposizione. La figura di Ulisse si staglia sulle altre, nella sua incessante ricerca, in un ritorno al passato che “non solo amore/ significa ma voglie e nostalgie/che trovano le vie le più nascoste/ e avanti a noi si levano. La ciurma/è lì che attende”. Pronto a tutto per “tornare nuovi. O superbi spegnerci per via”. Ma a questo ardore giovanile si affianca una nuova è più profonda consapevolezza che riporta verso casa: “Quello che scriverò, miei cari amici/ è il poema di Ulisse al suo ritorno/ o una canzone di un piovoso giorno/d’autunno”. L’autunno è infatti l’elemento trasversale della raccolta, carico di colori, di odori muschiati, di suoni. Una stagione prediletta in cui  Pardini si rispecchia: “È questa l’ora/ in cui tiriamo somme e meditiamo/sulla vita passata”. Allora  il passato emerge con tutta la sua forza, fino a recuperare i giochi dell’infanzia lungo il Serchio e nei canneti, le stanze modeste e dignitose e le premure della madre, ma anche la “canzone di una giovane donna che mi penetra/ a quest’ora del giorno”. Settembre è una stagione della vita, che regala un’illusione di tarda primavera, quando, nonostante l’arco di tempo sia sempre più breve, “s’indora la foglia e si arricchiscono/ le vene color sangue, che la vita/si fa tanto preziosa da sforare/pepite d’oro prima di finire”. Allora i sogni del ragazzino che era “sempre primo/colla bici coperta di fanghiglia/ e i gancetti alle balze”sembrano volare più in alto: “Che lanciavamo sassi ti ricordi?... E pensare, ricordi, che riuscivo/ a silurare il cielo colle pietre/convinto di bucare anche le nubi”. La malinconia è trasversale insieme allo strisciare silenzioso del termine della vita. E insieme un’ansia di afferrare “quel  senso di un eterno che ci sfugge”, nel mistero che oppone eterno e finito. Tributi a Dante, Foscolo, Leopardi, Montale e i poeti liguri sono costanti, ma nei cicli eterni della natura che il poeta osserva e ascolta nella sua campagna, torna la forza di Lucrezio nascosta nelle cose.
Il Serchio amico, con i  canneti e le cannelle, con i muggini o le tinche sfuggevoli, le penombre e l’odore di marina che arriva nel vento dalla foce, rimane simbolo di giovinezza e audacia, ma anche lo sfondo di un quadro che si continua dipingere fino all’ultimo giorno, simbolo del tempo che scorre: “Il Serchio a quanto pare/porta settembre sopra il lingueggiare/di tutte le mie storie”. Pardini avvicina il registro aulico al linguaggio comune di carattere gergale, con un contrasto che dà un  trasalimento lieve al lettore, e lascia come una sensazione di luce-ombra. Accanto a “frale, pelago, ferale, adusto, spiro, onusto, murmure” compaiono infatti “butti, buiore,  scancìo, steccolito, sbilenchi”, che evocano il parlato del paese, quello che affiora all’improvviso in chi ha vissuto una parte della sua vita a contatto con la cultura contadina, che viene in aiuto quando nessun altro significante può avere la stessa forza e lo stesso colore. La ricerca del senso del percorso, a consolazione della fragilità umana e della breve durata di ogni vita terrena, sta nel foscoliano valore della poesia che rende eterni, che compare in Da Saffo a Anacreonte: “Moriranno gli eroi, le bellezze/di cortigiane effimere e procaci,/ma un cantico se eccelso volerà/oltre gli spazi frali degli umani” (Marisa Cecchetti, poetessa, scrittrice, critico letterario).


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Nazario Pardini
Si aggira nei boschi una fanciulla. Edizioni ETS. Pisa. 2000

Si aggira nei boschi una fanciulla. Lettura domenicale, senza interruzioni e distrazioni. Leggevo e a un certo punto mi sono ritrovata “ad aspettare un vento per il volo”. Leggevo e ho visto – sì, ho visto – “ancora Saffo sopra sponde”. E mentre la guardavo la mente è corsa alle Vergini di Lesbo, a quel “respirano i piedi di gesso/ umidi odori/ fra i raggi di luna"... “Il tuo giardino è oltre quel cancello…”: piccoli incanti venati di mistero. Pronuncio a voce alta quel verso per sentirne a pieno la densità e le allusioni che si porta dietro ( o che io avverto come tali). Mi chiedo quali corde abbia mai toccato, visto che lo recito più volte fino a farlo mio. Vado avanti, poi mi fermo e su un foglio bianco copio con grafia accurata un altro, suggestivo verso, “mi sgomenta/ in mezzo a tanto mare tanto nulla”. Mentre lo scrivevo, in quel verso ci cadevo lentamente dentro, stavolta con sguardo-animo perso. Indolente, sono poi riaffiorata tra le algide schiume in cerca di colori e di calore, sapendo già dove trovarli: tra le pieghe di quel paese accoccolato, tra le croste rossicce e le begonie. Evocazioni di cose passate ma ancora a me vicine. Un nome, un’immagine lontana, un’emozione che non saprei descrivere. Contaminazioni sensoriali? Le immagini a cui lei, caro prof. Pardini, riesce a dare vita attraverso le parole, a me ricordano quella “facoltà quasi divina che intuisce i rapporti intimi e segreti delle cose” di cui parlava Baudelaire. Nei prossimi giorni/ore mi aspetto altre delizie, che poi le racconterò (Adriana Assini, pittrice, scrittrice, critico letterario).


Su
Nazario Pardini
D’Autunno. Edizioni ETS. Pisa. 2001

Ho attraversato il suo Autunno, con abiti comodi e senza ombrello. Beati voi Poeti che sapete incastonare in un verso il racconto del vostro veleggiare nel tempo e nello spazio! Viaggi solitari ma non di uomini soli. Viaggi densi di voci e volti cari. Il mare. Il vino. La memoria. Delicata e potente l'immagine di quegli ulivi poggiati sul mare. Drammaticamente efficaci quelle urla che escono dal petto dopo la tempesta. Acqua profonda, acqua salata, che mentre dà la vita allude al suo declino; acqua che "indifferente divora anche le rupi". Non è forse nel mare che ogni sera sparisce il sole, per andare a scaldare il regno nascosto, quello dei morti? E il vino vermiglio bevuto tra amici non riporta all'ebbrezza che avvicina gli dèi ai suoi eletti? In quei calici avverto, come scrisse qualcuno, tutta la "forza che vince il peso della terra e mette le ali alla fantasia". Salutare la passeggiata tra i suoi filari, tra volti in boccio e canti di colline... Leggo "ginestre" e una pennellata del giallo più intenso si staglia all'orizzonte di quel giorno lontano che adesso un po' m'appartiene. Guardo il colombo che riposa gli occhi sotto l'ala e sento, con lui, la fatica del volo. Raccolgo la nostalgia di una vigna ormai sepolta e penso che, per fortuna, non sempre il tempo cancella i canti e li riscrive. Cosa sacra e grande è la Memoria, pronta a salvarci dal grigiore dell'oblio, restituendoci - in lembi o in parti intere - un passato che è alito e carne della nostra stessa vita. Ancora una volta mi ritrovo ad esserle grata, caro prof. Pardini, per avermi offerto un posto in prima classe su quel treno che trasporta le sue storie. Un cordialissimo e affettuosissimo saluto (Adriana Assini, pittrice, scrittrice, critico letterario).


Su
Nazario Pardini
Alla volta di Lèucade. Baroni Editore. Viareggio. 1999

L'ho conservato per ultimo. Lo avevo sfogliato "a volo d'uccello" e ne avevo subito intravisto le cime. Alte, altissime. Bisognava aspettare. Confesso che il sentimento di soggezione e reverenza con cui ho affrontato "che dire dell'autunno" mi ha accompagnata fino all'agape di vino e poesia. I canti - di Alcmane, Stesicoro, Saffo, Alceo... - andrebbero scolpiti su candide stele per poi disseminarle in angoli remoti delle isole più belle, come doni preziosi per viaggiatori solitari e attenti. Allontanarsi su sentieri poco battuti, distanti dalla calca, mentre - poco a poco - avanza un "fresco refolo" e il dolce profumo della lavanda. E poi, d'incanto, ecco una colonna votiva spuntare dalla terra rossa, all'ombra di un ulivo. Sul suo fusto in marmo pario, un saluto al viandante: "se a me è cantare, lo farò stasera sullo splendido fiume...". E così via. Fino alla prossima, stavolta sul ciglio del mare... Ha mai pensato, caro prof. Pardini, di innalzare piccole stele nel suo giardino, orto o frutteto? Sarebbe una vera delizia per gli amici che di tanto in tanto si affacciano al suo tempio per un convivio, bevendo vino e cercando insieme una melodia frigia per un canto struggente. Grazie per i suoi cadeaux e buon proseguimento di serata. Un affettuoso saluto (Adriana Assini, pittrice, scrittrice, critico letterario).


Motivazione
per
Scampoli serali di un venditore di arazzi
The Writer Edizioni. Milano. 2012

La scansione lieve di versi, capace di prendere una coloritura più elegiaca nella vena più naturalista, manifesta intermittenze narrative laddove vengono a galla, dagli abissi del non rivelato, quelle verità impronunciabili di pensieri diventati percorsi da suggerire a chi decide di navigare nel mondo (Primo Premio sez. Poesia naturalista “Premio Nazionale Leandro Polverini, Città di Anzio, 25/11/2012).

Motivazione
per la silloge inedita
Colloquio con il mare con la vita

In una sinuosa linea melodica, sorretta da padronanza metrica, la raccolta di Nazario Pardini Colloquio con il mare e con la vita esprime tematiche esistenziali, senza retorica e con immagini suggestive. È un abbraccio sincero, quello di Pardini, come sincera è la sua poesia, tra il mare e Delia, in un'intesa di dolore condiviso e custodito per sempre in questi versi (Commissione del “Premio Letterario Libero De Libero, Fondi, 02/12/2012).


Motivazione
per
Premio alla carriera per alti meriti letterari, Portovenere (SP)

A Nazario Pardini, poeta dalla capacità straordinaria, magica di convertire il lettore in declamatore, cantore prodigiosamente reso conscio dell’arricchimento che proviene dalla sua acquisizione sonora effettiva e non solo immaginata, della molteplice possibilità di condivisione delle emozioni, ansie, timori, estasi, sensazioni, scoperte, riflessioni, meravigliosamente estrapolate dall’autore da un arco di contesti dell’umana esperienza, spaziante dal mito alla quotidianità, dalla felicità della consapevolezza allo smarrimento (che tuttavia non decade mai, nell’inanità) dell’inconoscibile. Tale bellezza coinvolgente è anche il risultato della struttura caratteristica, desueta tra i contemporanei, delle opere di Pardini. Dove il tradizionale endecasillabo ha ruolo fondente nel trasporto della musica creata da un lessico, variegato sapientemente, in funzione del tema, delle circostanze, delle luci/ombre del momento dal raffinato/aulico al popolare della sua terra Toscana. Concludendo: non rimane che concordare con quanto è già stato autorevolmente detto e scritto dell’Autore. Resta indubbio in Nazario Pardini che la parola scritta ha sempre avuto carattere di melodiosità estatica, che suscita, nel periodo tramato d’echi ritornanti, un movimento sinfonico che si raccoglie in una peculiarità espressiva, intenta a determinare le sue immaginazioni, trasferendole sopra un piano di fissità sublime (“Premio Letterario Portus Lunae”, Portovenere, 27/12/2012).


Su
Nazario Pardini
Alla volta di Lèucade. Baroni Editore. Viareggio. 1999

Caro Professore, ho letto con vero interesse la Sua raccolta Alla volta di Lèucade riflettendo sulla Sua poesia. Mi sono posta dalla parte del lettore come invita nella bella prefazione Vittorio Vettori. Mi hanno subito attratta i forti incipit: Che dire del’autunno; Quanti eravamo… Che pensare! Oggi è d’incanto il cielo…. Un grande sogno vorrei fare… Avvenne proprio là…
Poi ho colto una passione smisurata, ardente per la Poesia, la grande Poesia vissuta nel mito della Parola. É come se Lei si inoltrasse in un’avventura senza tempo per far rinascere la Bellezza nella scrittura. Tuttavia sento, a volte, il Suo originale pensiero ancorato a una veste ‘esteriore’ che blocca la Sua musicalità interiore… come se vivesse una forma di soggezione (oltre che di passione) nei confronti del passato. La Sua poesia, che è narrativa e tende alla descrizione, perde così, a volte, d’intensità rivelando un esercizio intellettuale di grande stile. La Sua originalissima invenzione personale riesce poi a coniugare questo parlare alto con quello da Pisantropo, cioè con termini più popolari e correnti, così da fondere le Sue due anime: quella di studioso idealista e quella di amante dell’esperienza concreta della vita. Mi coinvolgono molto le Sue poesie più essenziali come, per esempio, Le speranze, La mia casa, Anche se scende languida, ove il contrasto tra la dualità dei registri si attenua e così pure il contrasto dei suoni nel fraseggio narrativo, espressione di dolorosa tensione intellettuale e spirituale. Mi procurerò le altre più recenti raccolte per seguire il Suo viaggio poetico. Le mie impressioni sono strettamente personali, legate al mio gusto e al mio sentire oltre che alla mia vocazione all’essenzialità e alla semplicità espositiva: spero di non aver deluso le Sue aspettative con queste riflessioni. Tengo molto alla Sua amicizia (con i miei più cari saluti, Silvia Venuti, scrittrice, poetessa, 05/01/2013).


Su
Nazario Pardini
Alla volta di Lèucade. Baroni Editore. Viareggio. 1999

Egregio Nazario, sto completando la lettura di Alla volta di Lèucade e le confermo che è un libro molto bello. La natura e la campagna (immagino ambientata nella campagna Pisana) sono descritti in modo entusiasmante con una grande attenzione ai particolari e ai significati della bellezza del mondo visibile, andando, tuttavia, oltre le apparenze e penetrando nella profondità dei sentimenti. La descrizione è atemporale o meglio al di fuori del tempo quasi a divenire Mito e Simbolo del mondo agreste. Il recupero del ricordo della giovinezza e degli amori adolescenziali sono struggenti e nostalgici alla riscoperta di sensazioni conservate nel profondo dell'animo, risvegliate secondo una logica quasi proustiana. Mi sono permesso di dare la preferenza alle poesie Crepuscolo e Al Vento di Novembre. Spero che non la disturbi il fatto che ho trovato una atmosfera parallela a quella dei romanzi di Pavese stabilendo una connessione fra le Langhe e natura pisana (rinnovandole i miei complimenti, Riccardo Minissi, scrittore, poeta, 05/01/2013).


Motivazione
per
Premio Letterario “Tulliola/Renato Filippelli”, Formia

A Nazario Pardini è attribuito il secondo premio per la silloge Alla volta di Lèucade, prefazione di Vittorio Vettori, postfazione di Floriano Romboli, Viareggio-Lucca, Mauro Baroni Editore, 1999. Il volume, già nella distribuzione delle composizioni lungo assi che mettono a fronte contemporaneità e classicità, segnala la sua proiezione verso il dialogo tra epoche, culture, situazioni linguistiche e metriche non univoche, come a ribadire che la parola in poesia si costituisce sulla cifra non della diacronicità, ma su quella di un fascino che si ripropone avvolgentemente e irrefutabilmente con una sua cogenza su uno sfondo di astoricità. Ne consegue una maniera di lavorare contenuti semantici e moduli formali, che scommette più sullo stile e sulla struttura che sulle sottolineature del nuovo, più sul sublime che sulle trasgressioni e sul plurilinguismo (poeta Ugo Piscopo, Formia, 12/03/2013).


Su
Nazario Pardini
Dicotomie. The Writer Edizioni. Milano. 2013

Completa ed importante opera che si distingue per la sua voluminosa dimensione e per i contenuti selezionati e validi. Un corpus poetico ricco, nelle sue varie sezioni: Dicotomie , Racconti in versi, D’amore di terra e di mare, oltre alla nutrita selezione di Note critiche e Prefazioni e postfazioni. Come traspare dalle pagine serrate questa ha singolari radici nel consenso, radicato in una preparazione culturale degna di attenzione e di rispetto: un lungo percorso esistenziale, che dal quotidiano, con linguaggio di impegno robusto, sfocia, senza retorica, nei riflessi della conquista filosofica, in perenne interrogativo della inquietudine. Non per richiami nostalgici, ma per richiami di suoni, di voci, di vita, come traslazione della memoria, il disincanto e le allegorie, il segno e la metafora, hanno la ferma sapienza del dettato, ricco sempre del ritmo nuovo e privo dell’atto consolatorio. I paesaggi hanno il raggio luminoso ed il profumo della semplicità, mentre i personaggi scorrono in un arcano ordine naturale, svelato alla irresistibile sollecitazione esistenziale: “Hai steso la tua mano/ sulle palme cadenti,/ gli esseri racchiusi/ dal tepore di esistere/ hanno rannicchiato la loro vita/ nell’intimità della loro coscienza./ Poi hai ritirato la tua crosta di smalto/ ed hai lasciato essenze di pino più acute/ sui calici avvolgenti il silenzio./ La fine ritorna sul mare/ che vede uccelli errare per il cielo/ stanchi/ in attesa di potersi posare” (Tramonto). – Ottimo conoscitore del gioco rapido del verso Pardini costruisce il disegno completo della sua visione narrativa. Non va trascurata la lettura dei numerosissimi interventi critici che arricchiscono il volume con abilità ed armonie varie (Antonio Spagnuolo, poeta, critico letterario, saggista, 09/03/2013).

Su
Nazario Pardini
I miti che verranno
Dalla silloge inedita I canti dell’assenza

Questa rivisitazione del mito, da parte di Nazario, apre il cuore: voglio dire che il poeta eleva un canto che è un inno alla vera speranza. Ma chiediamocelo: di cosa si nutre la sua aspirazione? Si ciba, appunto, di nuove-remotissime divinità. E qui sta - a mio modo di vedere - la grande valenza icastica di questa lirica, di questo moderno poema: sta in ciò che percepisco come senso della ricreazione, del rinnovamento; dalle radici però, dalle loro più profonde propaggini. Certo (concordo con Balestriere): è la descrizione di una palingenesi quella che, alla fine, risulta; una palingenesi rigeneratrice che - in quanto tale - deve, prima, ripulire, mondare perché, "placati" da una Natura incontaminata, tornino gli dèi a rivedersi nell'azzurro dei cieli e dei mari, nel verde dei boschi, nei canti degli uccelli, nella fusione delle armi per l'acciaio della pace. Oh no, non è l'Arcadia!: è la Terra come sarà, come forse è stata ad ogni sua rinascita, come sono certi che sarà i poeti: quelli autentici, che aprono il cuore all'uomo (Sandro Angelucci, 09/03/2013).


Considerazioni
su
Nazario Pardini
I miti che verranno
Dalla silloge inedita I canti dell’assenza

Questo prodotto poetico di Nazario Pardini affonda le sue radici in una forte aspirazione a una realtà umana più nobile ed elevata, più degna e trasparente, insomma in un desiderio di catarsi o di palingenesi. E, in quest'operazione, il poeta convoca liricamente le divinità del mondo antico affinché contribuiscano, ognuna per la propria parte, a creare un'età aurea, cioè una realtà più degna di essere vissuta, con buoni governanti (Giove), senza guerre( le armi fuse di Marte), con la rivalutazione della vita semplice dei campi e dei prodotti naturali (Cerere), con la vita serena di animali e piante (Diana che protegge i cerbiatti), con il mare calmo e terso a rispecchiare il cielo (Nettuno), con puro e vero amore (Afrodite) e, infine, con la pace interiore (Irene) che sovrintende ai rapporti tra gli individui e tra i popoli.
            Aspirazione umanitaria – questa - non vaga né velleitaria, perché reca dentro di sé lo stimolo al miglioramento di animi e coscienze. C’è nel testo una dolorosa ed autentica esigenza di un mondo migliore, rimossa finalmente la crassa rozzezza e la profonda corruzione che pervade questa nostra realtà (Pasquale Balestriere, 09/03/2013).


Considerazioni
su
Nazario Pardini
Dicotomie. The Writer Editioni. Milano. 2013

In questa raccolta di poesie dal titolo Dicotomie, pubblicata nel 2013, si scorge in modo ancóra più pregnante un Nazario Pardini ispirato ed illuminato dalla nostalgia delle cose elementari, quotidiane e semplici.
Credo sia poeticamente redditizio, in certe ore del giorno o della notte, riportare a nuova vita, sollecitando la memoria, questi oggetti oramai a riposo: ticchettìo di forbici, ombrellini di carta, ruote di carri, che hanno percorso lunghe distanze, falcino nelle mani di una madre che lavora, tramonti che lisciano i campi; e aratri... aratri di una gioventù spersa vicino ad un albero antico in cima a una collina:

Ci sarà' sempre l'albero
l'albero di acacia
ad attendere un volo di farfalla... (L'albero in cima alla collina, pag. 25)

Questi oggetti del passato, nella poesia di Pardini, evidenziano il rapporto tra l'uomo e la terra e diventano la lezione più importante per il Nostro poeta. Una lezione tratta dall'usura che le mani hanno inflitto alle cose, un insegnamento che conserva un pathos capace di infondere quel fascino umano o forse "umanizzante di sensibilità" che ancora ha valore nella realtà di questo mondo.
Senza cadere in un soliloquio morale, Nazario Pardini mette poi a confronto questa realtà-verità coesa alla semplicità della vita contadina, con la realtà-mistificata del rutilante benessere dei nostri giorni. Un benessere tra persone che (si lanciano sguardi, le borse, i vestiti i paletot (Per strada - pag. 39)) transitano nel brusìo delle strade tra volti di gente che passa e quasi si sfiora nelle "vasche" dei centri commerciali indifferente e ammutolita; talvolta distratta, anche, dai fatti di violenza, perché, come dice Pardini, sulla strada ancora c'e' guerra:

C'e' guerra si ritorna;
e un botto deflagrante irrompe attorno:
dei ragazzi violentano la vita
per qualcuno in dormiveglia con in mano
l'immagine di un Cristo Salvatore (Sulla strada c'e' guerra, pag. 33).

A questa condizione di apatia relazionale che tende a scadere, se così si può dire, in una patologica deriva di coloro che violentano (inconsciamente) la propria vita ed inconsapevolmente anche quella di altri individui, il Nostro contrappone l’azione patriottica di giovani ragazzi che, in passato, hanno combattuto una guerra per la libertà della Patria:

Morirono brandendo una bandiera,
venivano dai luoghi piu' lontani,
lasciando a casa mogli, e terre incolte...
le loro tombe vogliono rispetto
le loro tombe gridano e pretendono
di non essere cumuli di polvere
contenitori d'ossa senza nome (Per i 150 anni dell' Unita' d'Italia, pp. 31).

Il tema principale dell'intera silloge, il leit-motiv, resta comunque il rapporto dell'autore con la natura la cui bellezza inonda gli occhi di meraviglia, anche ai giorni nostri; basta semplicemente vedere ed ascoltare la sua musica. La storia di Beppe ne intona il canto con una vicenda umana, educata e cortese; Beppe non è diventato un "cittadino"; è rimasto contadino e la sua semplicità equivale alla gioia vitale che brilla sulla terra!

Amava quella terra. La campagna
lo riempiva di gioia. Era la vita.
Quand'era solo in mezzo ai suoi raccolti
non chiedeva di piu'. La mattina
indossava i suoi stracci e al primo sole
prendeva lo stradone per i campi.
L'accompagnava un'alba d'erba nuova
che usciva in fondo al monte a discoprire
la vastità del cielo. Sprigionava
il nascere fecondo della vita
collo sfrecciare d'ali già veloci
al primo accenno di luci, e diffondeva
il sentore dei campi che si sposava al vento (Beppe, pag. 87).
Queste sono poesie della memoria; poesie ispirate dai ricordi di un tempo vissuto a contatto con l'innocenza di chi ha lavorato nei campi. Poesie che offrono idilliaci scenari di una vita paesana guadagnata con la fatica di un onesto lavoro. Una passione che non ha bisogno di atti sconci per cogliere tutto il piacere dell’esistere.
E il Nostro riesce a seguire queste vicende zeppe d'umanità, trasferendole nel ciclo inesorabile delle stagioni, con metafore che s'innescano e si susseguono in colori e suoni della propria esperienza e con intonazioni di rara bellezza:

Se questo mio autunno vorrà
attenderò' sia fertile il terriccio
che nutre la mia anima. Su quello
innesterò di nuovo i semi sparsi
e ritrovati. Credo che cresceranno
e torneranno in fretta fusti snelli,
a un'aria un po' più' mite.
Spero solo in un albero folto ed affollato
di freschi giovanili, proprio la',
sotto quei freschi,
voglio tornare a vivere (Ora e' il tempo – pag. 57).

Nella seconda sezione di Dicotomie dal titolo D'amore di terra e di mare (anni 1980-1990), si conferma l'idea iniziale di un cliche' che aggiunge ai luoghi della memoria intime meditazioni e confidenze:

Delia e i tuoi sorrisi,
Delia le vesti bianche,
Delia i tuoi occhi cielo
e la pelle chiara
e la paura vergine,
mia Delia,
quando correvi sola.
Vibravano le cime nell' azzurro.
T'accompagnava un canto,
su per un manto verde,
dove si perde ancora il tuo sorriso,
ed il mio viso a stento,
ritrova bianche perle
ai bordi della vita (A Delia - pag. 94).

Nella distrazione del quotidiano, il dolore e la solitudine (una solitudine assordante) emergono dal profondo; e visioni, forse, dettate dalla disillusione, si rivelano in: siamo sperduti nel cielo su un corpo senza luce... (Solitudine, pag. 120). Un dolore che allude alla morte ed attinge dal dubbio nichilista (tanto caro ai poeti esistenzialisti) l'immanente concretezza della nostra nullità. Dolore in dicotomia con la forza inquieta del mare, con i suoi moti perenni e le onde sfuggenti dei giorni. Giorni finiti ed abbandonati (forse feriti), come dice il Nostro, sul grembo della sera. Ma il grembo della sera è come una madre; la sua presenza rigeneratrice e protettrice reagisce colla luce del mattino. Questa luce può essere sogno, utopia, o amore che s’invola ancóra con le sue ali? A dircelo è sempre il poeta che offre a quell'alba l'incantesimo del chiarore; e la sua voce... diventa poesia:

Il mare
annulla la morsa della notte
e l'alba nasce
là dove pasce il cielo,
là dove il gelo non arriva mai (L'alba, pag. 139).

Alla fine del testo un nutrito apparato di note critiche. Sono davvero tante le citazioni che fanno da cornice alla silloge in una vera trasposizione antologica-digitale, perché, come tutti sanno, Nazario Pardini è anche un blogger. E il suo blog, Alla Volta di Lèucade, accoglie e propone notizie letterarie e qualificate opere di autori; e serve, anche, da "stimolo" per chi, oggi... ancóra crede... nell'arte della poesia e nella sua saggezza d'impegno civile! (Miriam Luigia Binda, 07/03/2013).


Su
Nazario Pardini
Dicotomie. The Writer Edizioni. Milano. 2013

Si può dire che ormai Nazario Pardini si presenta come uno dei poeti di grande e notevole spessore del secondo Novecento italiano. Ciò che colpisce di primo acchito è la sua capacità espressiva rigorosamente sintetica che ha conservato, delle prime opere, la schiettezza e l’incanto stilistico, oltre che l’efficacia di una fervida creatività e fantasia. La sua poesia è profonda, illuminata, incisiva con un nitore e una fluidità eccezionali. Si tratta davvero di un libro diverso, insolito e stupefacente, il suo Dicotomie perché fuori dagli schemi, nonché diverso anche dai suoi precedenti. Dunque, ritengo sia l’opera della piena maturità, il clou della sua attività poetica, incardinata nel senso della vita di cui ha percorso ogni tratto di strada, ogni sentiero impervio, ogni segmento vitale e ogni morte del passato, tra interiore ed esteriore, tra sacro e profano. Il poeta è perfettamente in sintonia con quell’idea di “poesia onesta” di sabiana memoria, una parola che non sia artefatta, arzigogolata e non si compiaccia del proprio potere magico che pure ha a iosa, ma che aderisca alla vita, all’idea di onestà del linguaggio, in una prospettiva storica e umana che ne contenga principi spontanei e linearità, visione della realtà e condivisione con gli altri. In questo libro Nazario Pardini raggiunge la perfezione senza nulla perdere in termini di fascino, d’eleganza della scrittura. Il poeta possiede il carisma come strumento di suggestione poetica, vi si evincono precisione d’immagini, testi memorabili e folgoranti. Sufficienti pochi versi per capire come l’autore sappia coniugare alla perfezione tutti i capitoli della sua storia con estrema semplicità, con sofferta e matura sensibilità emozionale, consegnandoci spaccati di vita e di memoria inossidabili. La poesia di Nazario Pardini è intessuta di nostalgia, si respira in abbondanza una diffusa serenità, in atmosfere calde e suggestive:

… non profumano più quei bocci bianchi;
ci sono uccelli a branchi
che roteano largamente sui detriti
dell’ingordigia umana.

L’accento viene posto con lucidità, ma anche con tenero distacco, con sensazioni e pensieri che si avvalgono di un linguismo chiaro, nitido, semplice, raffinato che possiede la grande capacità di testimoniare sul piano letterario un livello che salta all’occhio, per la grande compostezza del modulo espressivo, la trasparenza e la levigatezza del verso. Segno di grande maturità e autentica vocazione, voce limpida che sa giungere direttamente al cuore del lettore:

Facemmo un ombrello di carta e la sera
ci avvicinò con l’aria
seviziata dai guizzi del tramonto.
Restammo assieme a lungo
sotto il battito
di quella volta fragile.
Poi il silenzio
di me che non sapevo il giorno,
di te che ti affidavi a sera
delle parole al volo,
ci cullò quasi vestito
dei fremiti del mare.
Andare, andare era il tuo sogno.

Al semaforo un emigrante lavavetri
cercava tra i colori delle case
un qualcosa che portasse al suo paese.

Anche il pensiero poetante illuminato dalla luce spirituale è un tratto distintivo di Nazario Pardini: i toni epico-lirici sono pervasi da una tensione orfica e di un trasfondere di coscienza che si evince e si individua come autentico e metamorfico coacervo di storia, che indaga il tempo e gli eventi, l’umanità e la divinità dell’universale che non si limitano a descrivere momenti solo alti, ma va al di là, oltre la ferita umana, oltre la fatica esistenziale per rivendicare un po’ d’infinito, quantomeno, la sensibilità di un “perdono” a qualche nota stonata, a qualche rievocazione di silenzio trafitto, che evidenzia e mette in luce il pianto e il dolore universali, tra i riconoscibili segni di questo ottimo poeta. Insomma un libro che c’è, è presente, si fa riconoscere, raggiunge note alte, armonizzandosi alla coscienza planetaria. Si presenta carismatico col segno preminente della pietas, tra gli aneliti estremi del perdono che si configura come immagine di un simbolismo misterico assoluto che pare redimere e del quale tutti ne costruiamo la spiritualità e i sentimenti, umanizzandone solitudini e assenze e aprendo il cuore alla bellezza del creato. Superlativi ad es. questi versi in memoria della madre:

Non di rado,
alla sera, il tramonto si gonfiava
per toccare coi suoi colori d’oro
la mota di quei solchi. E mia madre
si stupiva davanti a quei colori,
davanti a quella volta iridescente.
Con il falcino in mano, e il volto stanco,
ammirava, stupita,
quei giochi del tramonto sopra il campo.

La straordinarietà della poesia di Pardini consiste nel voler sottrarre la bellezza della natura, del sogno, del mito agli annichilenti artigli del tempo, alle incidenze delle scoloriture e recuperarle alla vita, limitandone l’entropia e la corruzione, prolungando fin dove possibile le accensioni sublimi delle sue cromature, dei suoi riverberi, fermandone le note essenziali in atmosfera d’anima, con la struggenza ineluttabile e tragica della partecipazione, attraverso il sortilegio del ricordo o di una parola intensa e metafisica che possa limitare i danni della sua autodistruzione nei correlativi analogici oggettivi di eliotiana memoria (Ninnj Di Stefano Busà, scrittrice, poetessa, critico letterario, 15/04/2013).


Su
Nazario Pardini
Dicotomie. The Writer Edizioni. Milano. 2013

Nel profondo coinvolgimento emotivo e nel piacere intellettuale che la lettura dei versi di Nazario Pardini raccolti nel volume “Dicotomie” mi ha procurato, desidero aggiungere, alle tante prestigiose note critiche, le mie amichevoli parole a commento. Il dettato poetico disvela uno spirito vibrante di passione, dolore, sentimento. L’Autore attinge dall’unica fonte in grado di far sgorgare il vero canto: il cuore. La dedica in esergo “A mio padre e a mia madre che hanno immolato la loro vita sull’altare dell’amore” permea tutto il volume di sublime pietas, incancellabili memorie, speranze, umana civiltà e inciviltà che, pur fra le stridenti ambiguità contemporanee, restano incancellabili nell’anima. Una Musa, quella di Pardini, che freme, soffre, sboccia nei giardini del reale per decollare verso arditi approdi dove convertire, forse, in gaudio le lacrime.
Non saprei dire quale dei componimenti sia il migliore: tutti possiedono una nobile orma di purezza, schietta ispirazione, liricità, raffinato labor limae, impronta che sanno dare alla proprie opere soltanto i grandi scrittori e gli spiriti capaci di risalire dal crudo materialismo verso gli alti cieli degli ideali. E che siano ricordi di guerra sulla strada, in trincea, miti oppure fragranti giornate di luce in una rinascente campagna, o ancora piane azzannate vicino al mare, ombrelli di carta, barche di fuscello salpate da “coste opposte” verso il sogno di una “terra di pane e lavoro”, tuttavia un “raggio scampato alla sera” non si piegherà “agli artigli dell’ora”.
            Sono immagini che sottendono inquietudini e raccontano l’ansia del proprio e dell’altrui diverso destino con densa spiritualità, libertà ed eroica meditazione: solitario privilegio dei poeti, semmai “in uno spazio vasto in mezzo ai platani” di una campagna profumata di terra e mare “tra  il chiarore di lame/ che vanno all’infinito” e respirano “aria d’eterno”.
La caducità dell’essere nel dualismo del “cemento che guasta la collina” fra i “detriti dell’ingordigia umana” e “quei giochi del tramonto sopra il campo” s’incarna nella materialità di parole dense di pathos, raffinatezza intellettuale ed esperienza etica.
Il poeta condivide luci e ombre dell’umana sorte e dei suoi misteri nel vasto universo senza mai perdere la percezione di un originario, incontaminato stupore.
Se, come afferma Eraclito, “l'armonia delle cose sta proprio nel perenne mutamento generato dal polemos tra gli opposti, così le Dicotomie di Nazario Pardini celebrano la meraviglia di un'empatia emotiva che illumina ogni opacità del cuore. E nell’intimo tormento di un consapevole tragitto terreno, quando più forte si fa il bisogno di confortarsi dai colpi improvvisi dell’esistenza e di proteggersi dal freddo delle bare, “in qualche luogo… l’alba nasce… là dove il gelo non arriva mai” (Daniela Quieti, scrittrice, giornalista, critico letterario, 10/04/2013).
Su
Nel regno delle Eumenidi
da Alla volta di Lèucade. Baroni Editore. Viareggio. 1999

Nel testo Nel regno delle Eumenidi, tratto dal libro Alla volta di Lèucade, mi appare un Pardini "classico"; è sicuramente il più mitico e, per me, il più complesso. Questo Pardini immerso nella profondità "leucadiana" usa un simbolismo della forma mitologica che si manifesta in specifiche immagini psichiche e si narra nell'anima (quindi un linguaggio che non può essere distorto dalla sovrapposizione di quello concettuale). Questo Pardini del mito usa gli universali dell'immaginazione e degli archetipi!!! Quindi cosa dire di piu'... posso solo intuire queste forme e seguire, come posso, il suo viaggio.
Tu lo conosci vero? Ogni tanto fugge dalla mitologica Lèucade e fa qualche giretto al lago, nelle campagne e sulle montagne della Lunigiana, va a fare la spesa con l'ipad, ascolta la musica, anche quella pop, frequenta convegni e premi mondani, e poi... viaaaaaa ritorna nei suoi luoghi cari, al tempio di Lèucade (Miriam Luigia Binda, poetessa, artista figurativa, saggista, 22/04/2013).
Su
Nel regno delle Eumenidi
da Alla volta di Lèucade. Baroni Editore. Viareggio. 1999

In questa classica composizione (Fra mito e poesia), il mito appare nella sua essenza eterna (eterna, per cui sempre attuale), al di là delle contingenze geografico-storiche che sembrerebbero legarlo a tempi e a luoghi del passato. In realtà, non c'è nulla di più presente del mito: quello sorgivo ed autentico, non quello favolistico e ripetitivo. Lo comprovano queste Erinni, giustiziere terrifiche, capaci di trasformarsi in dolcissime Eumenidi non appena l'uomo riesca ad evocare e a comprendere la gentile sete di giustizia e d'amore da cui sono animate. Dedico all'amico Nazario questi versi, tratti dalla poesia che s'intitola L'ombra, dal mio Ver sacrum:

I mostri che si svegliano nell'ombra
con ghigni rabbiosi ed ululati
e stridore sinistro di catene
sono angeli ribelli all'oblio,
bambini imbavagliati e allontanati
che vorrebbero giocare con noi (Franco Campegiani, scrittore, poeta, saggista, 22/04/2013).


A proposito di Adriade
da
Nazario Pardini
Si aggirava nei boschi una fanciulla. Edizioni ETS. Pisa. 2000

(Vieni a parlarmi, Adriade dei querci,
esci da quegli incavi che nascondono
la tua vergine e superba nudità)

Driade è  la Ninfa dei boschi, la ninfa della terra, una figure della mitologia greca, espressione della forza rigogliosa della Natura. Eterna e sfuggente. Parlarne poeticamente potrebbe essere inteso come operazione culturale nostalgica o invito a una intrigante visione filosofica- ecologica. Ma il poemetto Adriade di N. Pardini è altra cosa. Pur nella felicità e facilità della lettura è un testo veramente complesso; si muove con raffinate eleganti immagini di sapore mitologico sul piano estetico culturale e si innesta nella storia di cui la sua cultura è permeata ; penetra così nella misteriosa vicenda umana per individuarne il senso, il significato eterno. Suggerisce, evocandolo con l’andamento musicale della favola, l’incanto della natura primigenia, fuori dalla storia, che vive per sé, di vita propria, in un tempo fuori dal tempo, nell’immagine della ninfa perfetta e senza mutevolezza, il volto tinto appena di rosa, illuminata  dal  sole bianco, mentre i fiori d’aprile riflettono la luce impalpabile di perla e d’argento. Immobili eppur perfetti: è il mondo dell’Arcadia, l’Eden sognato come potevano farlo i nostri grandi Umanisti. È la perfezione senza il tempo, senza l’uomo, la Natura non contaminata dalla Cultura. Nel paesaggio immoto fa irruzione l’Eros, la storia. È bello il giovinetto, vivo, forte, ricco e splendente, mai veduto prima, vitale e in comunicazione con gli esseri naturali che al suo sguardo ed al suo dire, affascinati ed ebbri, vivevano nuova vita. Latte e miele a nutrimento: il paese della felicità così contaminante e travolgente che la bella Adriade tutta rosa nella sua perfezione ne viene rapita e la vita vigorosa si diffonde dal suo corpo immortale alla natura, la quale obbedisce partecipe al suo giovane sospiro, che si perde in quello del giovinetto felice. È  Poesia. E il suo pallore si fece di rubino. Fremito e ricerca traboccante di sentimento da condividere. La favola si dilata, si rinnova, si colora, vive e diventa storia. I colori dell’amore travolgente cambiarono quelli rosati della perfezione e divennero gioia e passione dirompente, distruttiva. Eros scopre la potenza del suo istinto, la passione immemore di calma, l’ansia del possesso, il sangue senza risparmio. I fiori portatori di poesia frementi inorridiscono: la natura viene vinta dalla forza, dall’umana storia: l’eterna storia di ingordigia sfrenata, legata al tempo e allo spazio. E col tempo il divenire si fa sempre più imperfetto. La vecchiaia triste allontanò l’eden primigenio. L’autunno sconosciuto devastò l’armonia e lasciò i rami nudi e piangenti. Questa non è più la storia della bella giovane innocente Adriade. È storia umana gravida di pianto. “Poesia” suggestiva, elegante e colta e riflessione filosofica alimentano il bel poemetto. Canto lirico davvero felice (Maria Grazia Ferraris, scrittrice, poetessa, critico letterario: “A proposito di Adriade…”, 06/05/2013).


Adriade
(ovvero una fanciulla di nome Natura)

(Vieni a parlarmi, Adriade dei querci,
esci da quegli incavi che nascondono
la tua vergine e superba nudità)

Si aggirava nei boschi una fanciulla
dai capelli disciolti sopra un volto                        
tinto appena di rosa. Non aveva
colore il cielo né toni mutevoli
in quel tempo. Albeggiava sempre uguale.
Dall’alba al suo calare, sempre;
all’ora del meriggio e della sera.
Fendeva con gli steli color luce         
le primule, i tarassachi e le viole
un sole bianco che erano di perla.
Persino argentei i frutti, i tigli e i pini.           
Ma apparve poi nel bosco
un fanciullo splendente   
di bellezza e fattezze      
quali avrebbe poi vedute il Partenone.
Essere nuovo là. Mai prima apparso  
nei ricami madreperla della flora.                 
Sedeva sulle rupi,
cavalcava puledri,
parlava con le piante,
con le bacche degli ebbi e con i pesci,
incantati dagli sguardi e dal suo dire.
Solo il latte dell’aria e il cereo miele,
che il sole gocciolava con i raggi,                         
gli nutrivano il corpo. La fanciulla
dal volto rosa (l’unico colore)
restò rapita da suo sguardo giovane;
lei divina ventilava il respiro
tra le fronde e sopra le acque. E i butti nuovi                  
germogliavano ai tocchi delle mani e dei sospiri.
Pura le sfioravano
lunghi capelli i glutei, le caviglie
ed il docile dorso; e la sua bocca                                  
effondeva la linfa necessaria              
per nutrire le vene di quel regno.
Ma lei mirava i crini, i gesti e i passi
del vergine fanciullo e col pensiero
seguiva i movimenti del suo corpo.
Ascoltava le frasi che diceva sopra i petali
e poesia erano i fremiti al cuore della ninfa.
Il suo pallore si fece di rubino.
Il cielo traboccò sui declivi e sui boschi.
L’argento restò vivo a tremolare
con la luna nel mare, perché mai        
luce nera vincesse sopra i chiari.
Non brillò più da solo:
il sentimento ch’ella provò
finì dentro le arterie dell’aria e della terra
ed i colori d’amore si distesero ovunque.
Ma fu tristezza e una pazzia nefanda
vinse la gentilezza dell’Adone;
distrusse piante, ruppe ogni bellezza.
Fu spinto a profanare
quelle immense ricchezze.
Dai bei luoghi in cui visse felice
carpì senza risparmio i beni.
Uccise e devastò. Recise e tormentò.
E con le lame arrivò fino alle arterie
della pallida ninfa. Il caldo sangue                        
si sparse tra le piante, sopra i germi,
nei rivoli, sui greti, sopra i monti,
sui roveti; appassirono le rose.
I gerani lasciarono le mani sopra l’erba.
Non ebbe più purezza né la terra né l’aria.
E giunti alla stagione che recise le vene,
i suoni e i sentimenti di tristezza
restarono a invecchiare. E ad ogni autunno
le spoglie venate di sangue
cominciano a fremere in cielo
e cadono al suolo.
Lasciano nudi i rami.
Il loro pianto
cessa soltanto al tempo in cui la ninfa
s’innamorò di Adone e nuova  gemma,
lasciando nelle arterie il rosso sangue.                  


Su
Nazario Pardini
Adriade
da
Si aggirava nei boschi una fanciulla.  Edizioni ETS. Pisa. 2000

Driade, la fanciulla che si chiama Natura, è in fondo l’equivalente dell’Eva edenica, ben diversa dall’Eva uscita dal Giardino, dove lei viveva con Adamo in armonia. Identica cosa può dirsi di Eros, il “fanciullo splendente” di cui parla Pardini: un essere di pace, signore e custode dell’Eden, secondo il Genesi, capace di parlare “con le piante/ con le bacche degli ebbi e con i pesci” (così Pardini). Un essere, dunque, questo fanciullo, ben diverso dal feroce distruttore in cui si trasforma una volta espulso dal Giardino. Dice il Genesi che nel Paradiso terrestre Adamo ed Eva si amano liberamente senza accorgersi di essere nudi. Nel venire meno di questa innocenza, nel nascere ossia della morbosa cupidigia, consiste la fine della comunione edenica e l’inizio della dannazione umana. A ben guardare, pertanto, l’opposizione di cui ci informa Pardini, in questo poemetto che definire mitologico sarebbe assai riduttivo, si consuma tra Natura e Cultura, anziché tra Maschile e Femminile, come sarebbe banale e facile argomentare.
            Con esatto vaglio critico Miriam Binda ricorda che Evelyn Pickering (De Morgan), autrice del dipinto posto nel blog a mo’ di illustrazione del poemetto citato, va storicamente inquadrata nella poetica dei Preraffaelliti: in quel Simbolismo mitologico, ossia, e in quel Primitivismo, che costituisce l’antefatto del vuoto metafisico dechirichiano, ma ancor prima del nulla funereo bockliniano. In realtà, l’intera gamma delle poetiche contemporanee che si rifanno al Simbolismo (Baudelaire in prima fila) resta legata al tema nichilistico, in quanto considera i simboli totalmente sepolti nell’universo mentale umano, senza sospettare che quello stesso universo possa essere aperto al più grande mistero dell’essere universale, accessibile solo per vie simboliche. Intendo dire che nell’universo dell’uomo non esiste soltanto la realtà della maledizione storico-culturale, fatta di contrapposizioni brutali (nella fattispecie il maschile e il femminile in lotta radicale tra di loro), ma anche il ricordo di una realtà precedente – per l’appunto edenica – in cui il contrasto è fonte di indicibile armonia. Ed è a tale realtà, sempre riconquistabile e a portata di mano, che a me sembra faccia riferimento il felice poemetto pardiniano, con quella tensione verso l’armonia che è anche un caposaldo di una vetusta filosofia orientale: il Taoismo, con lo stretto interscambio dello Yin e dello Yang fra di loro (Franco Campegiani, filosofo, poeta, saggista, 06/05/2013)


Su
Nazario Pardini
Adriade
da
Si aggirava nei boschi una fanciulla.  Edizioni ETS. Pisa. 2000

Evelyn Pickering nel 1887 sposò un artista-ceramista William De Morgan dal quale prese il nome d'arte (Evelyn De Morgan). Tra le sue più famose opere: Driade (o Adriade), SOS (contro le inquietudini della guer-
ra), Flora, La speranza nella prigione della disperazione.
L'immagine del bellissimo quadro, esposto sul blog - Alla Volta di Leucade - rappresenta Driade, la Ninfa dei boschi o fata della terra. Il bellissimo poemetto del poeta Pardini, che accompagna il quadro di Evelyn, intona il tema della brevità e la precarietà dell'umana vita ma con intonazioni che fanno appello alla sapienza di Amore capace di far nascere e rinascere/nuove gemme nel rosso sangue/. Con questa poesia si coglie immediatamente una specie di ammonimento: a non amare ciò che è il nostro male, a non aspirarvi e a non affliggere l'animo con un'angoscia non necessaria che tormenta e distrugge la bellezza della terra. Con l'inizio della guerra anglo-boera, e più tardi nella prima guerra mondiale nel 1914, Evelyn De Morgan usava la sua arte per esprimere i timori della violenza e della carestia. Un dipinto significativo è SOS nel quale l'artista esprime un messaggio decisivo contro la guerra grazie anche alle sue credenze storiche e mitologiche. Si vede infatti nel quadro una figura angelica sopra uno strapiombo acuminato da rocce vigorose in mezzo all'oceano, minacciata da draghi mitologici e divoratori. In genere, per questa autrice, la figura rigeneratrice ed evocatrice d'ottimismo e pace è quasi sempre rappresentata dalla donna o fanciulla. Tra le frasi più famose di Evelyn figura sicuramente quella che scrisse da ragazzina sul suo diario: "All'inizio di ogni anno dico 'farò qualcosa' e alla fine non ho fatto nulla. L'arte è eterna, ma la vita è breve ". Questa dichiarazione illustra le tematiche della sua vita adulta e la carriera di un'artista molto originale e pre-raffaelita - morì il 2 maggio del 1919;  la sua produzione fu esemplare e molto proficua, anche per l'uso del colore abbondante e ispirato ai colori naturali degli elementi fisici - aria, fuoco, acqua, terra (Miriam Luigia Binda, poetessa, artista figurativa, saggista, 04/05/2013).


Su
Nazario Pardini
Adriade
da
Si aggirava nei boschi una fanciulla.  Edizioni ETS. Pisa. 2000

L'intuizione di "Adriade" fa del poeta Pardini un fiore all'occhiello della Poesia alta contemporanea. Vi è dentro disseminata e composita da un alone di mistero inscindibile la morfologica attesa dell'uomo escatologico. Un senso di smarrimento cosmico, un panismo eccelso entro i quali sono bene inquadrati i bisogni dell'uomo moderno, in bilico tra l'incanto edenico dell'anima e la materia corrosiva dell'assenteismo e del nichilismo contemporanei. Un testo, quello di Pardini, che da solo centra valori universali, ed è compiutamente risolto come un'opera completa... Complimenti vivissimi (Ninnj Di Stefano Busà, poetessa, saggista e critico letterario, 07/07/2013).


Le "Dicotomie" poetiche di Nazario Pardini
Dicotomie. The Writer Editioni. Milano. 2013

Perché questo titolo così particolare per un libro di poesie? Particolare e perentorio, aggiungerei, diverso certamente dalla maggior parte delle pubblicazioni poetiche, per le quali l'autore generalmente usa come titolo una delle poesie della raccolta, magari quella più significativa, per lui, o quella che più delle altre racchiude in sé il progetto comunicativo dell'intero libro. Ed è giusto, perché il titolo di un libro, che sia esso un romanzo, un saggio, una raccolta di poesie o altro lavoro scritto, deve in qualche modo richiamare l'attenzione sul contenuto, ne deve essere il faro attraente e non disperdente, ne deve essere il nocciolo, il nucleo, come il protone centrale dà significato e identità all'atomo e alla materia.
Dicotomie, dunque, è un titolo che fa eccezione, pur nella sua eccellenza ed eleganza verbale. Non è il titolo di una delle poesie inclusa nel libro, ma è comunque vero che il lettore attento (e amante della poesia, di una poesia niente affatto superficiale e blanda, bensì di una poesia di alto spessore qualitativo, sia per contenuti che per modalità espressive...) saprà individuare nel lungo e interessante filo poetico che l'autore, Nazario Pardini, tesse, i nodi, le coincidenze, i rimandi e le fondamenta comuni che uniscono una poesia all'altra. C'è infatti un cemento sostanziale di fondo, in questo libro, e parlo naturalmente della sezione dedicata alle poesie (il libro, come vedremo, è arricchito da altre sezioni letterarie), che riesce a tenere insieme gli impeti quasi deflagranti di un dire poetico a 360 gradi, come suol dirsi, e che accolgono le esigenze proprie del poeta a voler considerare il tutto osservato e osservabile anche se separato e lontano vicendevolmente nel tempo e nello spazio. Da qui le dicotomie di Nazario Pardini, che non vogliono esprimere, secondo me, delle nette e categoriche divisioni o visioni del mondo in due parti opposte, una positiva (bene) e una negativa (male), bensì vogliono essere delle continue "oscillazioni" tra due o più poli di idee e contenuti, che nell'insieme si integrano e si completano:

Ora è il cemento che guasta la collina
e di gran corsa
l'odore di benzina. Su quel colle
non profumano più quei bocci bianchi;
ci sono uccelli a branchi
che roteano largamente sui detriti
dell'ingordigia umana (da: "L'albero in cima alla collina", p. 25).

È solo un esempio, questo brano, e ne possiamo trovare tantissimi altri, di come già all'interno dei testi sia possibile trovare alternanze dicotomiche che separano, in questo caso, la natura (l'albero in cima alla collina, gli uccelli a branchi) dall'opera disgregante dell'uomo (l'odore di benzina, l'ingordigia umana).
Si avverte dunque una continua tensione, nei testi "dicotomici" di Nazario Pardini, uno stiramento, una elongazione, se è lecito usare questo termine tecnico, che tuttavia mantiene intatto il corpo poetico di ciascuna lirica, non provoca sfilacciamenti estremi o mancanze improvvise di territorio poetico. La poesia di Nazario Pardini è infatti un dire circolante e continuo tra quei "poli" referenziali di cui accennavo più sopra: la memoria e i ricordi, ad esempio:

Si faceva la guerra di trincea
nel fango delle veglie o al solleone...
C'è un sorriso
sul volto della Storia ed il destino
gioca con noi e cambia il suo cammino (da "La trincea", p. 30);

e poi l'umanità:

... Allora esisto. Esisto veramente.
E questa è vera gioia. Quel che provo
è il potere dei sensi che traducono
il bello delle cose in sentimenti,
anche se vani, prova della vita (da "La prova della vita", p. 58);

e poi ancora la natura:

Mi trovo qui davanti alla tua piana
frammentata da scaglie ed azzannata
da becchi di uccelli voraci
ed insaziabili. Mare! Mio mare!... (da "Colloquio con il mare", p. 61);

e ancora:

Pinete,
sempreverdi alcòve
di contorno al mare;
il profumo acuto
del pino e del moreccio
si fanno più forti in autunno... (da "Pinete", p. 113).

In questa circolarità di temi (che denota una profonda sensibilità umana e sociale da parte dell'Autore, anche e soprattutto nei confronti del mondo abitato e della natura, nel trattare con esiti poetici davvero alti la summa delle sensazioni, delle immagini, degli stati d'animo, delle riflessioni, degli slanci di rammarico ma anche di gioia, che troviamo disseminati in tutto il percorso lirico del libro), Nazario Pardini propone al lettore il suo progetto poetico, che è completo, che è originale, che è valido sotto tutti gli aspetti e modalità che fanno di un libro di poesie qualunque un ottimo libro di poesie, riferimento importante in questa piazza poetica attuale, dove il qualunquismo letterario la fa purtroppo da padrone.
Il linguaggio poetico di Nazario Pardini è molto interessante: è lirico, è diretto, a volte è colloquiale, un colloquio che è essenzialmente rivolto a se stesso, quasi un voler accentuare nelle domande che egli si pone, nelle riflessioni sulla vita e sulla morte, il mistero che non può esere risolto umanamente, ma soltanto in un confronto diretto con Dio:

Ti ho posto la questione tante volte!
Questa mia vita,
questa mia vita mia che cosa è mai?...
Io la vorrei da Te, dall'Alto Cielo
la conferma che esisto per davvero (da "Esisto?", p. 42).

Il libro è complesso, tipograficamente gradevole e ben strutturato. Impreziosito dall'ottima e puntuale prefazione di Sandro Angelucci, è diviso in tre "scomparti" o sezioni poetiche: "Dicotomie", "Racconti in versi", e "D'amore di terra e di mare" (in cui sono raccolte le liriche dal 1980 al 1990). Vi è poi una lunga ed esauriente sezione del libro, alla fine, dove sono riportate le tantissime "Note critiche", prefazioni e commenti vari sulla poetica del nostro Autore. Tutto ciò fa risaltare ancora di più il prezioso messaggio poetico di Nazario Pardini, il quale si colloca certamente tra gli autori di poesia, e non solo, più validi e significativi dell'attuale panorama letterario nazionale (Giuseppe Vetromile, poeta, saggista, critico letterario, 22/05/2013).


Motivazione
per
Premio Letterario Scriviamo insieme, Roma

Emerge, da questa raccolta di versi, tutto il mondo poetico dell'Autore: dalla descrizione attenta dei paesaggi della natura, sentita come legame prezioso e indissolubile all'analisi di quei "paesaggi esistenziali" in bilico tra sofferenza e speranza, memoria del passato e prospettiva di un avvenire spesso incerto e problematico. La padronanza stilistica ed il lessico elaborato rendono il suo verseggiare aulico, ricco di simbologie e di raffinatezze (Commissione del “Premio Letterario Scriviamo insieme, Roma, per Scampoli serali di un venditore di arazzi. The Writer Editioni. Milano. 2012. Pp. 224, Roma, 18/05/2013).


Motivazione
per
Premio Letterario Città di Abano Terme. Abano Terme

Scampoli, Pardini definisce le liriche della raccolta con la quale ha preso parte al Premio; e lo fa quasi a sottolineare che si tratta di ritagli di tessuto che un umile artigiano della parola non solo non sottovaluta ma espone al mercato rionale con la speranza che gli amanti del bello si fermino ad ammirarli. Incassare l’entusiasmo di chi guarda e ascolta con rapimento quelle armonie: questo si aspetta, e questo ottiene quando la fiera finisce e si chiude l’ultima pagina del libro.
            L’opera si divide in tre sezioni: Il fatto di nascere umani, Giorno dopo giorno e Poesie ritrovate; una successione voluta, un gioco al ribasso – lasciateci dire – perché si colga, al termine, l’essenzialità francescana del vivere e il fatto che “nascere umani -  come lui stesso sostiene – consiste nel miracolo dell’anima”.
            Nazario Pardini, poeta di raffinata sensibilità. Intellettuale onesto dalla lunga e sicura frequentazione letteraria nonché instancabile divulgatore culturale aperto ai nuovi mezzi di comunicazione, non ama mettersi in mostra, preferisce schivare le apparenze e concentrare ogni suo sforzo sull’espressione poetica.
            Se oggi, dunque, lo chiamiamo alle luci della ribalta è perché i riflettori, illuminando la delicata naturalezza con la quale la sua mano passa sull’ordito di questi arazzi, rendano omaggio all’armonia di un canto che ricorre all’endecasillabo, all’enjambement e ad altre figure retoriche quali innate demistificanti corde vocali. Per onorare una vita intera dedicata alla poesia, alla letteratura con la competenza del Professore ma anche – certi che apprezzerà – con l’autenticità dell’uomo di campagna, siamo estremamente lieti di conferirgli un riconoscimento che è segno della stima nostra più limpida e profonda (Sandro Angelucci per il “Premio Letterario Città di Abano Terme” su Scampoli serali di un venditore di arazzi. The Writer Editioni. Milano. 2012. Abano Terme, 25/05/2013).

Su
Nazario Pardini
Recensione a Maria Rizzi: Anime graffiate
Edizioni Corpo 12. Castelnuovo Scrivia. 2013

Da par suo, Nazario Pardini, ha letto Anime graffiate, di Maria Rizzi con il totale coinvolgimento dell'uomo morale in primis, al quale, sempre, in ogni sua disamina, fa riferimento il letterato. L'assunto (per me imprescindibile) che lo scrittore, per essere davvero tale, non vada mai scisso dall'uomo, trova nel commento recensivo al romanzo la più sicura ed ampia conferma. Altrimenti come si arriverebbe a scrivere: "I dialoghi... chiedono immedesimazione...Ti dicono 'Questi ragazzi sono tuoi ragazzi... Hai parlato con loro, condiviso. Non ti sembra vero? È così! Si sono persi questi giovani...". E la lealtà verso di loro e verso se stesso: "Tu non hai colpa?", si domanda; e si risponde: "Adducevi le loro carenze scolastiche alla mancanza di volontà. Tutto lì." Già: eccolo l'uomo vero, colui che intende il profondo messaggio di cui queste pagine si fanno promotrici: "l'esortazione a credere - come dice lui stesso - ai valori della vita, ad amare nonostante tutto: nonostante il potere, il tradimento affettivo, i danni recati dagli agi del cosiddetto benessere. La Rizzi non "se la sente di moralizzare" - sostiene - e bene fa, aggiungo, perché il suo J'accuse non potrebbe essere tanto efficace se le acque trasparenti del fiume della sua scrittura non facessero "trapelare dal fondo tanto pantano". Maria, è innegabile, scrive con grande passione e a scopo catartico ma Nazario - ed a lui mi associo - le ha dimostrato che solo una grande penna è in grado di trasmettere a chiunque un senso così alto di sofferenza ed al contempo di liberazione dal dolore (Sandro Angelucci, 07/06/2013).


Considerazioni sulla poetica di Nazario Pardini

Nazario carissimo, ho passato una settimana di fuoco, perché tutte le associazioni culturali vogliono concludere i programmi prima della fine del mese.  Quindi conferenze, presentazioni, dibattiti che mi hanno occupata e stancata. Ma se non ho potuto scriverti ho visto da tempo il tuo blog con tutte le notizie su di me. Mi ha commosso il pezzo sulla mia Pia. E mi ha esaltata e inorgoglita la tua nota critica. Inutile dire che hai colto nel segno, hai capito benissimo quello che volevo dire e mi fa piacere che l'abbia condiviso. Poe parlava di una impostazione matematica della sua poesia. Il nostro cervello è uno solo, e quindi è vano fare distinzioni settaristiche delle sue manifestazioni. La poesia non è la romantica ispirazione ottocentesca, ma impegno, fatica, lavoro, sacrificio, applicazione, letture, ricerche.
            La tua sensibilità è dimostrata dai meravigliosi libri che mi hai mandati. La tua poesia è a ampio respiro, scandaglia nel profondo il motivo portante e lo sviluppa, anche, in imprevisti svolgimenti. La musicalità del testo, che supera il timbro della metrica, coinvolge il lettore  e lo introduce delicatamente nelle segrete cose. Elemento portante è l'interesse alla natura che si amplia nell'amore alla vita in tutte le sue manifestazioni. E la "tecnica", nel senso positivo del termine, è dissolta nella originalità della scrittura, nella validità inventiva, nella ricchezza dell'invenzione. Mi permetto di dire che ci sono dei punti di contatto fra le nostre produzioni poetiche. 
Ho anche ritrovato spesso il nome di Vittorio Vettori, che mi è stato sempre generoso amico. Poiché sei laureato in Letteratura Francese, ti allego una mia poesia che forse ti potrà interessare.
Che dire ancora? È mezzanotte e quindi buonanotte ( non più buonasera). E grazie, grazie sincero e grato per la tua affettuosa benevolenza (Liana De Luca, poetessa, saggista, Torino, 09/06/2013).
Su
Nazario Pardini
Luglio
da
Il fatto di esistere. Lineacultura. Milano. 1996

Luglio

E mi giunge acuto il canto
di stridenti cicale
portato da brezze di sale
lente, affannate di calura
giù per la radura lucente;
mi trai nel solito stradone
tra spalliere bruciate,
contornate d’acre fragranza di grano,
e ancora i convolvoli agresti,
i sesami, i papaveri
sparsi dintorno:
gocce di sangue disciolte
sui fulvi vestiari
o di latte
da mammella divina cadute;
dondolìo di vespe
sulla tua fronte
tumida di sudore
sulle ore di una pigra clessidra.

Mi attendo paziente
uno spento languore
di fiori essiccati sulle reste
del tuo letale calore.

Poesia fortemente impregnata di panismo cosmico, si avverte quasi l'afrore del grano, il frinire di cicale tra le stoppie... una realtà che vive nel poeta come fonte d'ispirazione e di florilegi d'inaudita potenza e valenza, perché Pardini sa esprimere la sua calda vena terragna come nessun'altro, ha ristagni di luce la sua parola, come la luna quando fa capolino tra gli alberi e risplende in tutta la sua intensità planetaria. Bellissima poesia, complimenti vivissimi (Ninnj Di Stefano Busà, poetessa, scrittrice, critico letterario, 13/07/2013). 
Su
Nazario Pardini
Luglio
da
Il fatto di esistere. Lineacultura. Milano. 1996

Sembra incredibile che nel cuore della (in)cultura globalizzata e megalopolitana dei tempi attuali possa esistere qualcuno, come Nazario Pardini, così sanguignamente e visceralmente immerso nei ritmi della natura, negli abbracci esaltanti e poderosi della Terra Madre. Non si tratta di una visione bucolica, di una pastorelleria agreste o di un arcadico ozio letterario. No, qui c’è il figlio della terra che rinasce nel proprio cordone ombelicale. C’è l’uomo di sempre, l’uomo antico e l’uomo nuovo, capace di risvegliarsi, dopo tanto torpore, nelle proprie più autentiche radici spirituali. Concordo con la Busà: questa è una poesia “d’inaudita potenza e valenza”. Ed è veramente una poesia nuova. Complimenti, Nazario
(Franco Campegiani, filosofo, poeta, saggista, 13/07/2013)

Su
Nazario Pardini
Luglio
da
Il fatto di esistere. Lineacultura. Milano. 1996

Questa lirica (perché di liricità si deve ed è importante dire quando si leggono poesie così), questa lirica - dicevo - è prettamente pardiniana. Lo è perché tutto, ogni lemma riconduce al sentimento naturale - e dunque armonico - dell'esistenza. Vorrei (se mi è concesso un suggerimento) si fermasse l'attenzione sul verbo che esprime l'azione, il fare, la poiesi dell'uomo, ma, non di meno, quella della stessa natura. Mi riferisco a quel "mi trai", segno - per me - di una forza irresistibile, che trascina, appunto, lungo un cammino dove le "gocce di sangue" dei papaveri si mescolano al "latte" caduto da "mammella divina", rallentando l'artificioso attivismo come una goccia di sudore che, lenta, scende sulla fronte. E cosa si aspetta il poeta? Uno struggimento del cuore: "spento" - certo - ma non come si potrebbe pensare: il "letale calore" - a mio parere s'intende - è tale perché vince ogni resistenza immergendo l'anima nell'estate, facendola "essiccare" come i fiori che, anche loro, attendono
quello stesso "languore". Non aggiungo altro: è Luglio che ha parlato; a Luglio, Pardini ha dato voce e respiro (Sandro Angelucci, poeta, saggista, critico letterario, 15/07/2013). 

Prefazione
a
Nazario Pardini: I simboli del mito
XXIII EDIZIONE
PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE
CITTÀ DI POMEZIA 2013

“I simboli del mito”, si tratta qui dell’ennesima raccolta di versi del poeta Pardini, (vincitore del “Premio Pomezia”), che espone un lavoro di bulino, una scansione ritmica perfetta, esperita su una poeticità sostanziale, fisiognomica, in grado di dare al lettore il solito impianto classico, nel quale e attraverso il quale, s’insinuano le immagini verbali e i tratti storico/simbolisti di una distensiva scrittura.
Qui è il mito ad essere inteso nella tessitura filosofica del poeta, che ne fa quasi una colloquiale accensione di stati d’animo, redatti in un’orchestrazione compositiva di particolare ispirazione.
Una sollecitazione metrico/sintattica che è preminente e dominante nel docente scrittore e poeta Nazario Pardini.
Vi si riscontrano ancóra, come nel tempo passato, (ho stilato altre prefazioni sulla sua poesia), le caratteristiche precipue della sua oggettivazione poetica, il suo reticolato linguistico, la sua naturale vocazione a far riemergere dai primordi della storia le figure mitiche rappresentative della classicità, come ad es. Ifigenia e poi Semele, Giove, Dioniso, Apollo, Edipo, Saffo, Calipso etc. Mettono in risalto la sua tendenza a scrivere versi con un corpo e un’anima, ma sempre con intensità espressiva da terzo millennio, seppure i miti, le simbologie inneggino al passato, gli esiti felicemente raggiunti appartengono alla postmodernità senza fregole, senza falsificazioni, senza orpelli, né eccessi di stampo “modernistico d’assalto” come avviene in molti autori contemporanei che respingono <tout court> la classicità del passato senza proporre modelli nuovi, solo per il gusto di respingere l’antico.
II lato preminentemente fantastico è scandito con un’intensa sollecitazione mnemorica, vi appare intenso il dettato lessicale per sensibilità e stile e si prefigura il risultato compiutamente raggiunto, attraverso stilemi e sinergie di varia natura. Si evincono con nitore: la forma, l’equilibrio, la misura, la partecipazione alla ragione morale di una poesia contemporanea, pure se ne indica le carenze dell’uomo moderno, la sua incapacità a rendersi partecipe di quel mito, di quell’antico, che restano in disuso.
Così termini come l’Ade, i nostri morti, i viventi prendono forma in una cornice foscoliana di affetti e di ricordi, s’incontrano i trapassati in un andirivieni  osmotico di anime vaganti:

Escono dai marmi freddi
sulla loro terra
e tra l’odore di cera
e il fumo della notte,
tra l’esalare di rose,
di gigli ed orchidee,
parlano di affetti e di ricordi
ai bordi dei sepolcri;
li puoi vedere:
ecco mio padre con mia madre
ed ecco mio fratello
che sorridente
per l’agognato arrivo
vola di gioia (pag.19).

Costantemente alta resta la sua parola, sorretta da una profonda cultura e da una religiosità cosmica, appassionata, incentrata su temi universali, sorprendentemente in simbiosi tra solennità neoclassica e modernismo:

Restano le anime
fino a notte fonda,
non odi parole di spiriti,
ma vedi l’aria che vibra,
l’aria che tocca le fronde,
le lievi foglie                                                                                                           
alle soglie dei sepolcri  (pag. 19).

Poesia colta intessuta di dolente esperienza (trentennale), rivisitata in chiave “pensosa”. Ricordiamo che Aldo Capasso  si era fatto promotore e interprete di un Realismo lirico che aveva contagiato la metà del Novecento letterario.
            Pardini ne è un emulo molto disciplinato e onesto. Il suo verso si orienta alla rivisitazione del passato senza celebrazione, è quel che si dice una forma lirica che si può definire classico-moderna, sempre disposta a farsi suggestionare da immagini limpide, reperti chiari e musicalmente ben orchestrati, ben proporzionati all’impianto stilistico, scevro da ismi di mestiere, e tanto meno da ermetismi pseudointellettuali e devianti.
Pardini predilige la suggestione che si apre alle vene, alla coscienza, al pensiero e in quest’aprirsi a raggiera con tutte le note che compongono il dettato, registra vibrazioni, enunciazioni, pronunciamenti emozionali.
            Il seme germinale pardiniano si tuffa nel mondo felice della giovinezza, predilige i toni aulici della maturità, si fa saggezza che allevia dalla sofferenza. Il suo tessuto lirico è talmente incarnato al motivo etico e simbolista, agli ideali di un genere letterario classico che ne risulta un fervore catartico per tutti gli emblemi della Storia, i miti, le ascendenze, le libertà dell’uomo “novus”. Sfilano superbe le sue pagine naturalistiche, poiché come pochi sa interpretare gli echi terragni, i miti, la rassegnata tristezza che coglie di sorpresa gli atteggiamenti vani dell’uomo, il suo involucro fragile e l’indecifrabile mistero della terra. È dotato il poeta di spiccato barlume di coscienza nei riguardi del mondo, della frattura tra cielo e terra, che ogni sua opera s’impregna del declino inevitabile del “guerriero”stanco, la lotta è ìmpari, il fine metafisico spesso irraggiungibile, e allora, si lascia andare per lidi di speranza il poeta e, coglie la catarsi fenomenica, ontologica della specie, in un empito di amore universale, di lirismo alto, ma senza celebrazioni enfatiche, con la capacità di provare stupore per le cose del passato. E i versi si snodano in atmosfere profonde di abbandono, di desiderio di pace, di sentimenti “buoni”. Certo in certi tratti la scrittura non è agevole, occorre essere iniziati alla poesia, perché il dettato è in buona parte nutrito di una cultura alta, feconda di spunti che sedimentano in un territorio di scavo che non è di tutti e per tutti i gusti, ma la poesia c’è, è poderosa, salda, possente, matura, orientata ad orizzonti che a volte disorientano per la perizia e il lessico consumato e smaliziato. Un linguismo che non perde mai di vista l’insieme, si ferma alle stazioni giuste per non perdere coincidenze con altre destinazioni, con altri riti, sempre vigile agli oscuramenti, alle frane e alle rovine umane.
            Il tono non è mai sapienziale, ma dotto, tutt’altro che enfatico, perché la grandiosità del poeta sta nell’etica di pensiero, in unità di fondo tra verità e dubbio, tra chiaro e scuro, tra la vita e la morte. Infine, la meditazione intensa e la magìa surreale, la vitalità e l’autenticità delle emozioni che si avvalgono di calzanti e pertinenti similitudini sono testimonianza di questo notevole poeta (Ninnj Di Stefano Busà, poetessa, saggista, critico letterario, Milano, 19 luglio 2013).                                

Su
Nazario Pardini
A colloquio con il padre. Il sogno
da
Paesi da sempre. Chegai Editore. Firenze. 1999

Che forza evocativa ha la poesia! Che bellezza la forza pacata e pacificata dell’Autore che sa parlare con chi non c’è più!

Sogniamo! E tutto sarà vero: tu mi parli ed io ti corrispondo. Manca una magia estrema…
Mi ricorda la capacità unica di memoria (per lui mai pacificata) del grande V. Sereni.:
Con non altri che te
 è il colloquio.
… E qui t’aspetto….

Sappi – disse ieri lasciandomi qualcuno –
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate….

Poesia racconto, sogno pregno di quotidianità e suggestioni liriche quello di N. Pardini: di relazioni affettive vive, consolidate nel tempo, incontro colloquiale, emozionante, che apre a vertigini di sentimenti autentici, di affetti che si stemperano, si nascondono nella serenità della distanza, nella forza della lontananza.
            Un eco si fa strada alla soglia della mia memoria emozionata, verso un‘affinità elettiva che viene dal cuore, mi stupisce, mi cattura: è quella della voce del  grande Virgilio, là nel VI canto dell’Eneide, dove Enea incontra il vecchio padre, in una dimensione di semplicità, dolcezza  e tenerezza senza tempo e senza mediazioni, cercata, sognata oltre che vissuta, che pur si confronta con la realtà: la distanza tra il vissuto e il ricordo che non muore.

O sogno o realtà che importa, padre,  io ti rivedo, bello, fra quei marmi  così lucidi,…
Un rapporto d’amore rinnovato che si realizza in modo nuovo in età matura.
            In A colloquio con il padre emerge la fedeltà di una vita fedele a se stessa e alle proprie scelte affettive, - questo ci guadagna il ricordo, la  conferma, in se stessi, della misura del padre.
            Si stabilisce nella rievocazione, nel ricordo un circolo di relazione e comunicazione che è di identificazione. Ricordo intenso, natura trepidante, terra e cielo, incontro e lavoro, pudore, emozione e quotidianità … :
vegliare una nottata tra i sentori d’erbale umore estivo,… sul piano dei fulvi girasolirealtà più di un reale che non arriva a tanto…
E la tovaglia sui crini di gramigna. Che bel pane! Tu stacchi i pomodori e li zuppiamo in picchiata nel sale…
Ai bordi del sogno più avvincente: dove la realtà è più vera. La voce  più dolce e profonda.
… Vienmi vicino, parlami, tenerezza,
- dico voltandomi a una
vita fino a ieri a me prossima
oggi così lontana - scaccia
da me questo spino molesto,
la memoria:
non si sfama mai…
Non
dubitare - m'investe della sua forza il mare -
parleranno…(V. Sereni). (Maria Grazia Ferraris, scrittrice, poetessa, critico letterario, 09/08/2013).


A colloquio con il padre. Il sogno

Baluginò il suo volto. Che lucore!
Era simile il cielo a quei mattini
in cui andavamo ad erpicare
il profumo di terra. Era mio padre.                           
Mi prese per la mano trepidante
e mi portò
a mirare i suoi spazi. Io non sapevo,         
nella nuova coscienza, ch’era morto.          
Mi apparve certamente perché stessi
sereno. Stava insieme - in un salone
immenso e somigliante vagamente
a quelli riportati negli affreschi
dei rinascenti artisti pontifici -   
con persone serafiche. Una peluria
gli fluitava cadente ed abbondante                             
sugli omeri. Brillavano i suoi occhi
di un’altra dimensione. Stranamente
il soffitto sforava aperto un cielo
di luce biancicante: “Vorrei tanto
rivedere con gli occhi di un terreno
i nostri monti simili a puledri
rincorrersi tra i lecci ed i castagni
rutilanti ai tramonti. Vorrei tanto
trascorrere con te un tempo, pur breve,
per le cose del giorno e anche di più
vegliare una nottata tra i sentori
d’erbale umore estivo. Per esempio                            
nel campo dei covoni.” “Che ti prende?
Perché non puoi? Domattina farò 
ch’io possa liberarmi dagli impegni
e andremo insieme,
tutto un giorno sul Serchio e poi sul piano
dei fulvi girasoli. Anch’io lo sento
questo bisogno in anima di vivere
di nuovo sprazzi e guazzi giovanili”.
“Guarda, figliolo, ch’io ti sono in sogno.
Quello che vivi è fumo ed io son qui
vicino solamente con lo spirito,
non col corpo. Son morto. Ti ricordi
quella brutta giornata di febbraio?
Io spiravo e tenevo la tua mano
nella mia tremolante. Dentro il cavo
ho sempre il tuo calore”. “Come faccio
a sapere che è tale?”  “Puoi provare!”                        
“L’unico mezzo è quello di destarmi
per saperlo. Perché dovrei distruggere
l’occasione di un sogno veritiero.
Di un sogno che è realtà più di un reale
che non arriva a tanto. Che momento!
O sogno o realtà che importa, padre,          
io ti rivedo, bello, fra quei marmi                              
così lucidi, vasti senza dubbio
ben di più degli scrimoli a cui noi
eravamo abituati. Con gli amici
a dissertare sui concetti astrusi
dei misteri del cielo e della terra.
Così importante mai ti vidi padre.
Che piacere.” “Figliolo tu hai ragione.
È rara l’occasione che in un sogno
si sappia di sognare e che per questo
si viva ben più a fondo un segmento
coscienti di un prosieguo del reale.
Sogniamo! E tutto sarà vero: tu
mi parli ed io ti corrispondo.  Manca                                       
una magia estrema. è in mio potere.         
Ricostruirò quel tempo del passato,                           
e forse il più felice,
di quando dodicenne tu passavi
(tornando di città schivo e scorbutico)
all’ora di mangiare dalla vigna”.
“Rivedo tutto! Che magia! Sono
laggiù sotto il mio pioppo a rovistare
nella borsa del pranzo. Ecco ti chiamo.
Tu accorri trepidante poi mi abbracci.
Tre cose sulla scuola. E la tovaglia
sui crini di gramigna. Che bel pane!
Tu stacchi i pomodori e li zuppiamo
in picchiata nel sale”. “Vedi bene
come si mischia a volte col reale
l’immaginario”. “Sì! Però per me
questo momento dice che tu esisti.
In quanto alla tua morte non ricordo;
perché dovrei svegliarmi?
Continuiamo a vivere così.
Nella magia di un sogno. Per domani,
quando torno da scuola, nella borsa
voglio trovare - diglielo a mia madre -
il pane fritto. Sai quanto mi piace!”.

Su
Nazario Pardini
A colloquio con il padre. Il sogno
da
Paesi da sempre. Chegai Editore. Firenze. 1999

"Io non sapevo,/ nella nuova coscienza, ch'era morto": è contenuta in questo lacerto - a mio modo di vedere - la chiave di lettura di una lirica (un colloquio) che travalica l'onirico per approdare ad una dimensione
inedita ma esistente, concretamente esistente.
Ma perché "distruggere", perdere un'occasione unica e, forse, irripetibile come questa, destarsi per sapere? Sapere cosa, e per quale ragione poi? Qui non c'è posto per il raziocinio, ce n'è - infinito - per la poesia, per la vita e il suo mistero: "Sogniamo - allora - E tutto sarà vero...".
Queste parole paterne non provengono dal genitore del poeta: sono la voce di un tempo immortale che continua a vivere dentro di lui ("questo momento - e soltanto questo momento - dice che tu esisti").
Cosa fa, dunque, Nazario? Rifiuta di svegliarsi, edifica anziché abbattere il muro: un muro che, invece di dividere, permette di salire più in alto possibile, lassù dove la vista è più ampia e accoglie nel suo abbraccio i ricordi tuffandoli, come quei pomodori appena colti, "in picchiata nel sale". E tutto acquista sapore, e si dimentica la morte, e si aspetta una fetta di "pane fritto" per il domani (Sandro Angelucci, 12/08/2013)
Su
Nazario Pardini
A colloquio con il padre. Il sogno
da
Paesi da sempre. Chegai Editore. Firenze. 1999

Molti, ne sono certo, leggendo questi versi struggenti, penseranno che Nazario Pardini si sia voluto cullare in una dolce speranza, in un sogno assurdo e meraviglioso, ben sapendo che trattasi di zuccherosa illusione. Io certamente non so che cosa sia passato nella testa dell’esimio poeta e professore, ma non posso fare a meno di adirarmi di fronte al pregiudizio di chi esclude a priori il mistero e comodamente pensa di poter ritagliare una mattonella nell’immenso mosaico, sostenendo che quella, e non altra, è la vita reale. E invece non c’è nulla di più sfuggente del reale, legato con fili invisibili, ma robustissimi, al Tutto che noi non conosciamo. Non lo conosciamo, certamente, ma, santo dio, in esso e di esso viviamo! È una questione di equilibrio, a parer mio. E l’equilibrio è sempre bilanciamento di pesi contrastanti. Un conto è il dualismo conflittuale e schizofrenico, un altro la dualità fonte di armonia. Se c’è il nero, c’è il bianco; se c’è il giorno, c’è la notte; se c’è l’inverno, c’è l’estate, e via dicendo. Se c’è la materia, c’è lo spirito; se c’è la vita mortale, c’è la vita immortale. È anche una questione di logica, in definitiva, e non soltanto di fede. Sempre che la logica stia nel principio di contraddizione, come sopra specificato, anziché in quello di non-contraddizione, che vorrebbe catturare la complessità del vivente entro risibili formule unilaterali. Ma è soprattutto, indubbiamente, questione di fede. Non fede nella Befana, bensì nell’equilibrio, nella serenità, come dice Pardini a proposito del babbo: “Mi apparve certamente perché stessi/ sereno”. Ovviamente si è liberi di credere o non credere nell’equilibrio, ma se non si crede si deve onestamente ammettere di essere degli squilibrati (Franco Campegiani, 14/08/2013).


Su
Nazario Pardini
A colloquio con il padre. Il sogno
da
Paesi da sempre. Chegai Editore. Firenze. 1999

La memoria è intatta, in questo testo a colloquio col padre! Vi è dentro tutto: la commozione, il sogno, il rammarico di non poter più colloquiare col padre, ma anche la commozione di percepirlo soltanto con i sensi metafisici. Una grande apertura verso il mondo dei defunti che permea di grandezza e di orgoglio il sereno rinnovellare, come se l'anima fosse ancora lì, presente dentro la bianca materia dell'immortalità che rivitalizza il ricordo dentro un dualismo che sempre consente un prezioso afflato materico e insieme spirituale. Quella di Nazario Pardini non è attesa disperante di illusioni, è certezza che dentro di noi nasce, vive; e si rinnova la speranza di un equilibrio ontologico che non ci annulla del tutto, ma ci fa partecipi di un piano superiore che solo la fede può sfiorare... Il mistero persiste, ma vi è dentro questi versi l'apertura al trascendente che si fa "altra" forma di vita, pietas, speranza, complessa eppur portentosa materia dell'essere (si fa per dire), ma di un essere tendenzialmente vòlto verso l'alto, verso un sogno immortale di vita oltre noi... Nazario Pardini in questo testo esemplare ci insegna a guardare oltre la barriera della materica nullificazione verso un eterno destino che rappresenti per noi, e al di là di noi, lo scenario aurorale di un credo
superiore, sempre in crescendo che ci salva (Ninnj Di Stefano Busà 17/08/2013).


Su
Prefazione
a
Umberto Vicaretti: Inventario di settembre
Edizioni ETS. Pisa. 2014

Nazario carissimo,

leggo le tue parole di sole per i miei versetti di campagna e divento piccolo piccolo per l’iperbolica tessitura di smisurati orizzonti.  Il tuo magnificat  per la mia silloge mi annichilisce (quasi una sorta di preventivo contrappasso), consapevole come sono del mio limite e della mia assoluta relatività. Lo so che tu adesso starai replicando le tue… controdeduzioni, e che magari starai perfino smadonnando; e io ti capisco anche, perché penso alla tua inossidabile buona fede, alla tua cristallina onestà intellettuale. Ma tutto ciò, caro Nazario (ovvero la mia “resistenza” alla tua “santificazione”), non intacca, se non di straforo, la felicità che mi procurano le tue parole, la tua limpida e alta narrazione delle mie (diciamo così) “gesta” poetiche. Ora tu mi dirai: ma se la mia “narrazione” è così limpida come tu dici, perché tanta “resistenza”?... La risposta, amico mio grande, è tutta nella (per usare una delle tue visionarie allegorie semantiche) perfetta “dicotomia” generata dalla querelle: la mia silloge e la tua prefazione appartengono a due piani diversi: da una parte c’è il mio poièin, dall’altra c’è la tua sapientia cordis, ovvero quella saggezza e quella umanità che “trasfigura” (un po’ come nella citazione della bellissima affermazione di T.S. Eliot) e, per così dire, “sdogana” anche i prodotti più umili dell’uomo. Ecco, Nazario, proprio così: la saggezza e la vicinanza con cui accogli grandi e piccoli (quorum ego!) spiriti sono proprie delle anime elette; di quelle, cioè, che per qualche insondabile mistero hanno l’imprimatur della grazia e presuppongono uno spirito e una humanitas materia soluti, ovvero non contaminati dalle scorie del personalismo e dell’individualismo. Ti sono grato e debitore: infatti, contrariamente a quanto affermava Salvatore Quasimodo nella sua indimenticabile e struggente “Lettera alla Madre” (“…// non sono triste nel Nord: non sono / in pace con me, ma non aspetto / perdono da nessuno, molti mi devono lacrime / da uomo a uomo), io mi sento, invece, debitore nei confronti di tanti, e a tanti dovrei anche chiedere perdono, nel senso che, come fermamente ritengo, molto da tanti ho ricevuto, ma non credo di avere restituito altrettanto. E tra i miei più grandi creditori devo certamente annoverare l’amico Nazario, mio ardito mentore e fedele (e unico!...) Grande (E)lettore, mio amorevole Buon Samaritano e mio Nobel privato (per il prestigioso  riconoscimento di Stoccolma il  Dante Maffia può attendere!...). Cosa altro dire della tua prefazione? Oltre quello che ho detto, non ho parole. Quando avrò parlato della pubblicazione con Stefano Sodi, potremo tornare sull’argomento, ma solo "tecnicamente". Come ti ho già accennato, infatti, vorrei aggiungere alla silloge qualche altra composizione tratta da La Terra irraggiungibile, in modo da ottenere una pubblicazione di una certa consistenza. Per questo, credo che sarà necessario un piccolo “restyling” della tua prefazione, non certo per rivederla sotto l’aspetto formale e contenutistico, ma solo per integrarla e completarla (dovrai purtroppo fare gli straordinari!...). Ho letto e riletto, ieri sera, il tuo preziosissimo dono. Ma il mio pc mi segnalava che il sito era momentaneamente inagibile: ecco perché ricevi la mia mail solo adesso. Tra qualche ora devo partire, con Maria, per Alberona, dove ci tratterremo fino a lunedì, ospiti dell’organizzazione. Speravo di poter incontrare Giorgio Bàrberi Squarotti, Presidente di Giuria, ma da lì mi dicono che non sarà presente. Vorrà dire che gli scriverò.
            Caro Nazario, non ti ho telefonato in questo periodo per lasciarti in pace a riposare e a rigenerarti, ma tu, da inguaribile discolo, non ti sei risparmiato neppure in vacanza. Avremo però modo di sentirci molto presto (prima o poi dovrai denunciarmi per stalking…).
Scrivevo in una mia composizione giovanile (“Ma noi ti aspetteremo”), dedicata alle vittime del terrorismo: "Anche se non ci addormentammo / nella stessa stanza, / anche se non ci svegliò  / il bacio della stessa bocca, / ora devo chiamarti marti fratello"…
Un abbraccio grande da tuo (brother, frère, hermano, brude, broeder, frade…) fratello Umberto (Umberto Vicaretti, Luco dei Marsi, 24/08/2013). 


Postfazione e motivazione
a
Nazario Pardini: I simboli del mito
XXIII EDIZIONE
PREMIO LETTERARIO INTERNAZIONALE
CITTÀ DI POMEZIA 2013

Nazario Pardini non rispolvera figure mitologiche - come Ifigenia (“Mori i capelli/sulle bionde guance”), Bacco, Giove, Semele, Edipo, Ulisse eccetera; ma anche storiche, come Giovanna D’Arco - solo per il gusto della classicità, o per amore tout court verso il passato; egli le innesta al nostro tempo ed è nel sorpassare “la Storia” che consiste la sua vera novità, nello stimolarci, attraverso vicende e personaggi, a non arrenderci alle difficoltà e accendendo in noi “il desiderio/di sfidare il destino”.
Le parole dei morti “ai bordi dei sepolcri” non sono un soliloquio scaturito da nostalgia transeunte e fine a se stessa, ma la necessità che gli “affetti” continuino a lievitare il vivere collettivo, siano, cioè, un medicamento all’aridità e alla troppo spinta individualità dell’uomo moderno.
La suggestione dell’opera deriva dalla miscela di mito e di modernità, ma anche dallo stile, dal linguaggio, dal verso quasi sempre chiaro, privo di retorica e di affettata solennità. Tutto è piano nella poesia di Pardini e il suo colloquio familiare ci conquista e ci fa accettare anche qualche oscurità, mitigata comunque dal ritmo, dal naturale pentagramma e da una Natura - purtroppo sempre meno “acerba” ai nostri giorni - presente ora nel dare risalto al dramma (il “cielo rosso” del sacrificio di Ifigenia), ora nel sottolineare l’arcano (lo stridere delle cicale, il saltare del rospo, il volare della libellula nel rilassante flautare del pastore), ora, infine, nel ricordarci semplicemente il rinascere della vita attraverso il verdeggiare delle “foglie nuove”.
I simboli del mito, allora, anche per contenuto è opera impostata più sull’oggi che sul tempo delle leggende e delle favole belle, perché Pardini, risalendo dal passato, canta la stagione che anche ai nostri giorni ingentilisce gli aspri “stecchi”; il lauro; il fiume; le “rocce dal volto rossiccio/e levigato”, che sfidano il tempo e sono testimoni di tante vicende; il Meridione d’Italia che ancora strega con le sue vestigia e il contrastante “sapor di zagare e limoni”. Un’opera affabulante, insomma, e solare (Domenico Defelice, poeta, saggista, critico letterario, direttore della rivista “POMEZIA-NOTIZIE, Pomezia, 01/09/2013). 






Su
Nazario Pardini
A colloquio con il padre. Il sogno
da
Paesi da sempre. Chegai Editore. Firenze. 1999

Quasi un poemetto, per lunghezza e intensità espressive, un canto suggestivo e trepidante quello che ci porge Nazario Pardini evocando alla memoria il padre, (scomparso) che si rimodula al ricordo con un frammisto d’immagini che ne svegliano la magia e la dolcezza di un sogno:
Che lucore!
Era simile il cielo a quei mattini
in cui andavamo ad erpicare
il profumo di terra. Era mio padre.

Un amarcord fortissimo per intensità e pathos. Guizzi giovanili ritornano alla mente quasi ad invadere gli spazi sottostanti del pensiero e della fantasia con un intenso e persistente aroma di terra, di pane fritto, di sentori erbali, di aromi estivi.
            Vi è l’anima che riposa in quegli anfratti perduti del sogno giovanile a rinnovare ipotesi di esistenza “oltre” vi sono sprazzi di luce, d’intuizione fortissima, quasi palpabile in atmosfere e momenti indelebili che affollano e sovrastano - l’altra dimensione -  quella “onirica” in cui tutto è ovattato e, combaciano alla perfezione la vita e la morte.
L’afflato è fortissimo, quasi “si apre un cielo di luce biancicante” un processo che si aggiudica lo stupore del primo mattino, in una fittissima rete di minuzie, di dettagli, di “fulvi girasoli” che solo le anime consanguinee conoscono. Ecco, vorrei soffermarmi su questo legame di sangue che costituisce il punto fermo di Pardini, un atteggiamento che la poesia risuscita nel suo farsi più umana ed efficace l’assonanza tra sangue e carne, tra realtà e sogno. Vi sono elegie semantiche che non passano inosservate, vi è la visione nostalgica di una vita in transito, ma non perduta del tutto.
            In questo dialogo col padre, Pardini mostra tutta la sua umanità con la gioia del “fanciullino” di pascoliana memoria. Una poesia bellissima, struggente che andrebbe portata nelle scuole e studiata come si conviene ai testi del Pascoli o di altri autori del passato (Ninnj Di Stefano Busà: poetessa, saggista, scrittrice, critico letterario, Milano, 09/09/2013).           


Su
Nazario Pardini
Non chiedermi perché
da
Dicotomie. The Writer Edizioni. Milano. 2013

Cari lettori, cari utenti del blog, dire "bellezza" nei riguardi di questo testo è poco...Vi è una ricchezza superiore, un'energia che fissa l'occhio impressionistico dove riposano valenze di pensieri, espressioni e cifre stilistiche inimitabili, attraverso di esse il poeta riesce a cogliere inimmaginabili trasalimenti, emozioni, suggestioni, visioni che rivelano lo stile e il contenuto: entrambi di ottima valenza e di peculiare vocazione. Il tono sempre alto conferma vaghezze semantiche di grande spessore ed equilibrio. La cifra metaforica nella poesia di Pardini raggiunge sempre l'esito felice di un lirismo modellato e forgiato a crepuscolari venature, a immagini spesso paniche, in cui il modulo linguistico mostra rigore e dolcezza, in egual dose. Raramente capita di leggere poesia che sa dare emozioni, disvelando sentimenti e smarrimenti come nei versi di questo autore. 
Io resto ammirata e meravigliata dalla composita sinergia che avverto nei suoi versi che sanno dare sfolgoranti messaggi e splendere così intensamente di luce propria (Ninnj Di Stefano Busà, sul blog Alla volta di Lèucade, 19/09/2013).


Non chiedermi perché

Non chiedermi perché sono venuto
a trovarti di nuovo. Sarà forse
perché qualcosa provo
ancóra dentro me.
Sai!, non è molto che pensavo
all’ultimo saluto. Ti ricordi?
Era sul mare, il cielo cinerino
di un settembre un po’ stanco accompagnava
un melanconico addio. Eppure
io non credevo che un lungo patrimonio
potesse rivelarsi così fragile
come la bruma pallida d’autunno.
Il cielo si rompeva ad occidente
e il sole grosso e fervido, alla sera
di quel giorno impossibile, tingeva
il tuo volto diverso. Mi ero sperso.
Non ritrovavo più la strada amica,
la strada di una vita. Sono qui.
Non chiedermi perché. Sono venuto!
Ho ancora dentro l’anima
il sole di una sera,
il mare quasi calmo, un volto stanco,
e una bàttima lenta a misurare
un tempo troppo pigro per chi soffre.
Sarà forse l’amore. Chi lo sa.
Eppure c’è qualcosa che ha guidato
quest’animo rigonfio di ricordi
tra i fiordi del passato. Ma non chiedermi
di più. Accetta un mio saluto. E vado.
Davanti a me c’è un guado,
un guado che riporta
quest’uomo ormai attempato
                                   all’altra sponda.


Recensione
a
Maria Grazia Ferraris: Aprile di fiori
 Montedit Edizioni. Melegnano (MI). 2013
(silloge dedicata al blog Alla volta di Lèucade blog)

Un’avventura che il poeta definisce:
“C’est un rêve: il vaut bien le vivre”

M’affascina la natura, - è poesia, -
- un dio vi spira, - dolce e lusingante.
Ma lotta è in me, ché esser non vorrei
d’un inevitabile nevrotico idillio
l’ingenua autrice: spingermi vorrei
al di là dell’idillio…, per attingere
dal drammatico nostro quotidiano
la chiave del vivere insensato… (Poesia).
È qui la poetica di Maria Grazia Ferraris, in questa sua fusione coi colori e le forme floreali di cui Natura ci fa dono. Ma non si vuole fermare assolutamente ad un semplice ritratto dillico-elegiaco; vuole andare oltre; da lì prendere spunto per cercare armonie, musicalità perdute, che cedono il passo al sogno: “come di sirena il canto/ fascinoso s’abbatte smemorato/ sullo scoglio arido della vita”; vuole dire di sé, del suo essere, dei suoi pensieri, delle sue memorie, delle sue contrarietà verso un mondo che sembra perdersi e fare di tutto per rendere un deserto il suo cammino: “Dimentica le tue guerre che producono solo/ deserto: il deserto che tu chiami pace./ Accarezza questa natura, che consola” (Pace). 
            Plaquette di 36 poesie interamente dedicata alla Natura, ai fiori, alle sue più preziose perle, inanellate l’una con  l’altra da un  filo lucente in una collana di attraente rarità: un luminoso filo che si fa leit motiv della silloge: l’amore per il verso che sboccia in sepali, in petali, in corolle tanto vicini, nella loro varietà e nel loro rapporto terra-cielo, al dipanarsi delle vicissitudini umane. E tutto scorre in maniera duttile e morbida, gentile e graziosa, silente e graffiante, ma pur sempre limpida come l’acqua di un ruscello che rimanda il brillio dei candidi sassi dai fondali. Sì, l’autrice fa trasparire i delicati abbrivi della sua più profonda interiorità, cristallizzandoli in profumi, colori, in ossimorici azzardi, anche, ora primaverili, ora autunnali, ora spavaldi, ora fugaci, ora ferali a significare la bellezza, la precarietà, il mistero e il dolore dell’esistere. E c’è in tutta la diegesi dell’opera quella tematica confidenziale, quella filosofia di tensione orfica, volte a sottrarre la bellezza agli annichilenti artigli del tempo. Ma il tempo c’è con il suo fagocitare senza requie, con la sua sottrazione del bello e del brutto; e la Nostra è cosciente della sua rapacità che si manifesta in una dicotomica visione fra il polemos degli opposti di sapore eracliteo. Polemos che condiziona, d’altronde, il succedersi dell’umano procedere, se il fulgore di tali perle, il loro gioco aereo di parole alate, il loro profumo inebriante, la loro gioia bambina, il loro caparbio fiorire, se lo stravagante brillare dei loro colori si sfrontano con il misterioso e inquietante elevarsi dei pinnacoli gotici dei cipressi; o se si sfrontano con lo “Stupore oscillante tra il drammatico/ e il grottesco, ilare e liberatorio,/ l’hortus poetico di fiori daliliani”, o con l’urlo muto alla morte della dalia, che tanto sanno di via crucis, di ultimazione e di redde rationem. Ossimorica dualità del tempus fugit. E la parola segue attenta e puntigliosa, colle sue espansioni, col suo rattenersi, o col suo combinarsi di perspicua sapidità disvelatrice, la sicurezza del ductus poetico. Una parola che denota un’assidua frequentazione dell’ars dicendi. E la Natura non è certo trattata come gioco a se stante, o come arcadico ozio letterario, ma vive, umanamente vive, fino a invadere gli spazi sottostanti del pensiero. Sì, si ravviva di memorialità, di stupefazione, di slanci emotivi che si traducono in una vis creativa di grande impatto esistenziale. Dacché la Nostra non si limita a descrivere, a rappresentare, ma fa sentire continuamente la sua presenza accanto al mutare dei giorni e dei luoghi, delle immagini ora giovanili, ora superbe, ora dimesse che richiamano i segmenti di una storia. E tutto evidenzia una grande scientia florum di timbro lucreziano - tibi suavis daedala tellus summittit flores - ma anche e soprattutto una capacità versificatoria di un simbolismo lirico da idillio leopardiano: ardore allusivo di metafore con giochi sapidi di allegorie. E c’è la dalia “fra i vibranti seducenti gelsomini” con il suo urlo muto. E ci sono i Papaveri a Micene:

Papaveri dalle grandi corolle rosse,
dal cuore nero, urlanti nel vento che li culla.
Rosso: il colore del dio della vendetta.
Micene ancora sanguina al ricordo.
Papaveri rossi, rossi… di sangue! (Papaveri a Micene).

Le Ninfee:

Ninfea bellissima, di fredda perfezione,
tutta superficie, senza radici vere,
bianca e immobile, casta e algida,
fiore di acqua, giglio di morte:
la metafora sei di tante vite di donne,
belle e inutili, egoisticamente perfette,
senza radici (Ninfee),

in cui la Ferraris non disdice un appunto a questo esibizionismo fatto solo d’immagine in tempi di disvalori.
            Ed è superbo, poi, perderci in giardini segreti, incantati di magnolie lucide, carnose, morbide e levigate debordanti dai cancelli chiusi che richiamano la bellezza, il mistero, il sogno, la felicità e ri/conducono ad antiche primavere; ad alcòve verso cui la Nostra tenta una fuga di edenico riposo, pur con il rammarico di occasioni sprecate:

… le ultime interrogazioni, poi l’estate adolescente.
Più sognato che realmente e felicemente vissuto.
La felicità era in quel risveglio, in quello stupore,
in quell’attesa di non so che… Non lo sapevo
e il ricordo ingenuo ha un retrogusto amaro,
quello delle giovani occasioni sprecate (La magnolia).

Perché si sa che la memoria riporta a galla, anche ingigantite dal tempo, immagini tanto forti che gridano la loro esistenza per ritornare a vivere.
            Ma è nelle sei pièces di Le stagioni delle viole che la Ferraris riesce a raggiungere note di tale intensità lirica da tradire quel tale Krònos che tutto pretenderebbe di distruggere. Un canto che la poetessa affida alla pagina con intenti da dolci illusioni foscoliane. Chiede persino aiuto ai grandi poeti del passato, ricorre ai loro versi più incisivi per prenderne spunto e per dimostrare quanto valga la bellezza per la memoria umana; per il sogno; per la vita. E non è certo sfoggio di sapere, ma indice del grande spessore culturale della Nostra. Una cultura, che, decantata nel suo animo, torna a vita verniciata di un sentire fresco e rinnovato. Un mélange di poesia, mito, natura e ricordi che, sapientemente fusi fra di loro, offre una resa lirica corposa di significativi richiami fonico-allusivi: la favola di Zeus e la violetta (“fece spuntare tra l’erba piccoli fiori dolci e profumati”), la commozione di quei racconti ri/vissuti (“Il primo amore della mia vita”), l’incanto della Disputatio di Bonvesin della Riva (“il fascino della bellezza quieta del piccolo fiore”), o quello del paesaggio fiorentino primaverile del Poliziano. È il gioco delle immagini che lascia indenni, accovacciate nell’anima, quelle gioie che tornano più lucide nei nostri autunni. E il tutto narrato senza pesare, in maniera sciolta e en passant, come quando si confessa in poesia un nostro qualsiasi naturale sentimento: “O violae… molles et violae, Veneris munuscula nostrae…/ quae vos, quae genuit tellus?”. Oh i suoi petali di velluto!  “Vos semper amabo”. Anche il latino stesso assume una connotazione sentimentale fresca e pura, di acqua sorgiva carsica che talvolta scende nel sottosuolo, talvolta scorre in superficie, fluisce limpida e soprattutto toglie sete. E non si può di certo soprassedere a quel “mazzolin di rose e di viole” di memoria leopardiana: la felicità dell’attesa. La grandezza della semplicità nel poeta dei poeti:

… leggevo presa, e mi dimenticavo che la poesia
sola può legare fantasticamente insieme    
rose e viole, nella fantasiosa suggestione
poetica dell’idillio…
Il dì di festa: domani di rose e di viole…  (Le stagioni delle viole, 4).
Sì, nei giardini da sogno, dove brillano petali e piante lussureggianti, debordanti fuori dai cancelli che li recingono, in quei giardini possono crescere anche fiori che mascherano colla loro bellezza veleni mortali; come nella vita. Ma in questo giardino la Ferraris sventola amore, ed è esso che prevale sul tutto. Amore per il mondo, per l’esistere, per questa avventura che il poeta definisce “C’est un rêve: il vaut bien le vivre”. Amore per questa arte sempre-verde e per la natura che la ispira. Ed è a lei che affida il suo caldo grido perché faccia eco e risuoni senza tempo nei cuori degli uomini:

… Pace è questa natura trepida e luminosa,
sollecita fantasia, ballo di colori brillanti,
il sorriso della vita che si ridesta (Pace). (Nazario Pardini, blogger, 10/10/2013).            


Su 
Nazario Pardini: I simboli del mito
(1° premio Città di Pomezia 2013)
Edizioni Il Croco - Pomezia-Noitizie. Pomezia. 2013

Le figure, che appaiono luminose in questi versi, sono elegantemente tratteggiate per un rincorrersi di colori e sussurri, intagliate nella musicalità del verso breve, che armoniosamente incide nella pagina. Nazario Pardini affonda nel mito con una vocazione unica e ben precisa, ricca di quel bagaglio culturale che lo distingue, e attraverso il ritmo rilegge la storia di alcune figure mitiche, richiamando suoni e prodigi del mistero. Le vibrazioni sorprendono fra le vellutate ondulazioni che intagliano riflessi e suggestioni: il ritorno di Ulisse, tra i nuovi lidi e le avventure prodigiose, i segreti di rocce possenti, i giganti nel riverbero dei raggi di luna, le immagini ombrate di Saffo, di Edipo, di Dioniso, un Olimpo superbo dal tocco immortale. Penetra in questi testi una luce che potrebbe essere salvifica, una energia che muove il sacro fuoco dell’innocenza, per una limpida e cristallina realtà - fantasia, raccontata con perizia di lessico e matura vigilanza di scrittura (Antonio Spagnuolo, poeta, scrittore, saggista, critico letterario, 16/10/2013).


Poesia dedicata
a
Nazario Pardini: I simboli del mito
(1° premio Città di Pomezia 2013)
Edizioni Il Croco - Pomezia-Noitizie. Pomezia. 2013

Miti di ieri
avventure di oggi
cantano le tue parole;
e sempre odo musica,
vedo cieli,
acqua che scorre
e silenzi che sprofondano
tra il finire e il cominciare.
La tua storia, la mia,
quella dei viandanti di allora
camminano insieme,
portano sogni nelle mani,
attendono che il vento
soffi e tutto spenga (Gianni Rescigno, poeta, scrittore, S. Maria di Castellabate, 18/10/2013).

Sulla poetica di Nazario Pardini

Lirismo dall'inconfutabile pathos estetizzante, quello di Nazario Pardini, che indugia su tutti i tasselli del mosaico della vita. La sua ars inveniendi dipinge idealmente tutti i moti del cuore, per poi vergarli in un linguaggio epigrafico e sobrio che subito si insinua e permea i meandri dell'animo umano. Il Poeta è magistrale nel far vibrare, emergere e veicolare suggestioni e pulsioni. I suoi versi sono una brezza che respira armoniosa, senza confini, senza catene. Le sue poesie intense e fluenti sono euritmica estasi, percorso verso la propria omeostasi esistenziale che non trascurano, nondimeno, speculazioni struggenti e nostalgie per tutto ciò che si è eclissato tra le metafisiche pieghe del tempo. Nazario Pardini è Poeta di sublime magistero lirico, sovente intriso di valori etici che affascinano il lettore, trasportandolo in un universo di auliche ed incisive emozioni (Mauro Montacchiesi, poeta, critico letterario, scrittore, saggista, 25/10/2013).


Su 
Nazario Pardini: I simboli del mito
(1° premio Città di Pomezia 2013)
Edizioni Il Croco - Pomezia-Noitizie. Pomezia. 2013

Parlare di mitologia attraverso l'atto, di per sé mitologico e creativo, di Nazario Pardini, poeta, saggista, nonché animatore del  blog Alla Volta di Lèucade, quotidianamente presente per proporre nuove  notizie culturali ai suoi lettori, esposte con dedizione e commentate sul web, non è un'impresa facile, soprattutto per una persona come me, che, pur seguendo la poesia da diversi anni, non ha intima dimestichezza con l'antico culto mitologico contemplato con il vezzo della conoscenza, azzardata - al limite di quei confini estetici - più volte percorsi coraggiosamente dal nostro poeta.
            Nelle sue molteplici esplorazioni linguistiche, infatti, il Nostro si muove abilmente all'interno dei meandri di una catarsi espressiva intrisa di riferimenti riconducibili alla cultura classica. Egli dimostra di fare buon uso sia dei formalismi, sia delle parole misurate con la contemporaneità. Come giustamente commenta la poetessa Ninnj Di Stefano Busà, nella prefazione, non si può negare l'alto livello di formazione culturale del nostro autore:   
Vi si riscontrano ancora,… le caratteristiche precipue della sua oggettivazione poetica, il suo reticolato linguistico, la sua naturale vocazione a far riemergere dai primordi della storia le figure mitiche rappresentative della classicità, come ad esempio, Ifigenia e poi Semele, Giove, Dioniso, Apollo, Edipo, Saffo, Calipso ecc. Mettono in risalto la sua tendenza a scrivere versi con un corpo e un'anima, ma sempre con intensità espressiva da terzo millennio; seppure i miti, le simbologie inneggino al passato, gli esiti felicemente raggiunti appartengono alla post-modernità senza fregole, senza falsificazioni, senza orpelli, né eccessi di stampo "modernistico d'assalto" come avviene in molti autori contemporanei che respingono "tout court" la classicità del passato senza proporre modelli nuovi, solo per il gusto di respingere l'antico (tratto da Il CROCO - I simboli del mito. I quaderni letterari di Pomezia Notizie - Prefazione a cura di N. Di Stefano Busà, pag. 2).
            Nei suoi versi, Nazario Pardini, dimostra di usare e piegare la parola; la trasforma a seconda della sua sensibilità, della sua capacità di seguire i ritmi e i tempi delle emozioni, delle sofferenze, dei suoi desideri e della sua immaginazione. La sua opera diventa quindi un messaggio che si trasmette vivacemente con il ritmo della parola mediata dalle figure mitologiche; in questo caso, addirittura, la sua poetica descrive il simbolo che attraversa il simulacro delle suggestioni estetiche, nella forma vivida del racconto epico. Prende corpo la sua verità ma, non per questo dobbiamo illuderci di diventare come gli dèi, perché come sostiene il nostro poeta, ogni uomo è osservato con indifferenza forse per via dei superbi occhi che vorrebbero guardare il cielo, senza scorgere in basso gli errori:

Non sperare perdono,
solo lo scherno 
proviene dall'alto (...)
Indifferenti ci guardano gli dèi
e invano gli porgiamo gli occhi,
quando tocchi superbi
ci rapiscono l'animo;
cova l'eterno sopra sassi e marmi,
sopra statue immortali
tra flebili luci di passi di luna (tratto da: Indifferenti ci guardano gli dèi - I SIM -
BOLI DEL MITO - pag. 8).

Nella poesia dedicata a Giovanna D'Arco, emerge questo soliloquio interiore, intimamente connesso al limite (se pur eroico) della condizione umana. Specialmente in questa poesia, Nazario Pardini tratta il tema del sacrificio ed immagina Giovanna d'Arco a Domnery, nella casa della fanciulla che fu capace di affrontare, con forza spirituale,  gli eserciti invasori:

Quanti anni
che bruciò questa ragazza!
Restano quattro mura
un po' a dispetto
che vanno oltre gli eroi,
sorpassano la Storia
e vincono la vita (tratto da: A Domnery sui Vosgi - I SIMBOLI DEL MITO - pag. 12).

Se la letteratura nobilita l'oggetto del desiderio e l'affranca all'agonismo militante di una identificazione proiettiva, c'e' da chiedersi se in queste poesie dedicate ai simboli del mito, l'eroina, il sogno, il desiderio diventino oggetto privilegiato di una nitida manifestazione di fede nei confronti di un Paradiso perduto; inteso anche come - mondo idilliaco -  dell'Arcadia. Nei canti epici della nostra storia civile e culturale si manifesta coraggiosamente  (come già scrissi in merito alla silloge Dicotomie - di Nazario Pardini ) una coincidenza storica con le forme  impalpabili della bellezza; perviene dall'interiorità e dalle metafore che il nostro poeta utilizza nei colori e nei suoni della sua poetica. Si fanno sentimento le sue parole e, non dipendono unicamente dalla forbita costruzione letteraria cinta di aulico "alloro" e mi riferisco alla poesia dal titolo  Al lauro:  
Oltre la terra la virtù che serbo
al tuo potere vada e che gli umani
salvi dall'ira siano dei cieli (tratto da - I SIMBOLI DEL MITO -  pag. 26).

Ad inventare costruzioni poetiche non è quindi solo l'abilità linguistica e letteraria, è soprattutto  l'intima sua ricerca che si avvia  nella profondità di reminiscenze risanate da quei valori mitologici che ben si riconciliano con la memoria dei padri. Sì, i nostri padri che ritornano manifestamente e metaforicamente nelle parole di Nazario Pardini - sui margini dei sepolcri - e ci parlano di onestà e di affetti sinceri:
  
Escono dai marmi freddi
sulla loro terra
e tra l'odore di cera
e il fumo della notte,
tra l'esalare di rose,
di gigli ed orchidee,
parlano di affetti e di ricordi
ai bordi dei sepolcri;
li puoi vedere:
ecco mio padre con mia madre
ed ecco mio fratello
che sorridente
per l'agognato arrivo
vola di gioia (tratto da - Oltre quel muro -  I SIMBOLI DEL MITO - pag. 20).

Con queste parole, concludo, dicendo che tra le braccia di Nazario Pardini sopravvive il tepore di una poesia che non ha senso se perde l'incanto dell'ultimo dono che la rappresenta. Questo dono è sopratutto l'affetto di chi condivide il nostro bene che si manifesta nel "mito" fulgente.... della sua bellezza.

e ti rivivo...
è l'ultimo dono che mi resta
tra i simboli dei miti
che uniti noi ascoltammo
fulgenti di bellezza (tratto da - L'ultimo dono - I SIMBOLI DEL MITO - pag. 28). [Miriam Luigia Binda, 25 ottobre 2013]. 
Motivazione
per la poesia edita
L’azzardo dei confini (dal libro eponimo)

Con l’opera: L’azzardo dei confini premiato con medaglia d’argento, diploma d’onore e con il quadro di Corrado Alderucci “poesia di impronta montaliana. Una sorta di parafrasi di quel capolavoro che è “I limoni”. Ma non c’è plagio, anzi vive di autonomia propria e ci offre immagini davvero sorprendenti. La ricerca della verità ha come territorio non l’allegria dei giardini in fiore, ma l’anonimato della brughiera. La posta in palio è alta, la eterna, massima, aspirazione dell’uomo, trovare i confini incerti fra l’immanente e il trascendente, insomma il ponte verso l’altrove. Perché Dio gioca a nascondersi? Lo stallo qui non è superato dalla solarità dell’agrume, ma dallo stesso sole, la speranza che l’altrove si manifesti anche per premiare la nostra inquieta, testarda ricerca” (Premio “Arti Letterarie Città di Torino”, Torino, 26/10/2013).